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L'armata invincibile
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E-book491 pagine6 ore

L'armata invincibile

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Info su questo ebook

«Il miglior scrittore di romanzi storici.»
Corriere della Sera

Un grande romanzo storico
Un autore da oltre 1 milione di copie

Hispania: occupata, mai conquistata 
Per Roma comincia una sfida pericolosa

54 D.C. Le milizie romane sono disposte lungo tutti i confini del gigantesco impero: dal Mediterraneo al Mare del Nord, dall’Atlantico alle rive del Nilo. Roma ha brutalmente imposto il suo dominio e le sue legioni sono l’arma più efficiente e letale di tutto il mondo conosciuto. Due veterani esperti, il prefetto Catone e il centurione Macrone, sono sopravvissuti alle sanguinose campagne in Britannia e vengono finalmente richiamati a Roma. Ma il tempo trascorso in seno alla città della politica è breve, perché vengono nuovamente inviati con la guardia pretoriana in Spagna, l’indomita colonia nella quale i nativi ancora si ribellano al dominio imperiale, alimentando le tensioni. La nuova sfida che i due vecchi amici dovranno affrontare è diversa da qualunque cosa si siano mai trovati davanti: perché stanno per raggiungere una terra che è definita “indomabile”… 

Un autore da oltre 1 milione di copie
Tradotto in 10 Paesi

Una nuova minaccia arriva dai Pirenei
Riuscirà Roma a domare l’ultima provincia ribelle?

«Il miglior scrittore di romanzi storici? Simon Scarrow.»
Corriere della Sera

«Simon Scarrow ha saputo cogliere e raccontare il fascino di certi momenti storici. Quelli in cui il corso degli eventi determina per sempre il futuro.»
Il Giornale

«Una prosa incalzante e una profonda conoscenza della storia antica.»
Daily Mail

«Ogni nuovo capitolo della lunga serie di Scarrow sull’esercito romano è come sempre un grande piacere.»
The Times

«Facile da leggere ma travolgente.»
Mail on Sunday
Simon Scarrow
È nato in Nigeria. Dopo aver vissuto in molti Paesi si è stabilito in Inghilterra. Per anni si è diviso tra la scrittura, sua vera e irrinunciabile passione, e l’insegnamento. È un grande esperto di storia romana. Il centurione, il primo dei suoi romanzi storici pubblicato in Italia, è stato per mesi ai primi posti nelle classifiche inglesi. Scarrow è autore di moltissimi romanzi tra cui Sotto l’aquila di Roma, Il gladiatore, Roma alla conquista del mondo, La spada di Roma, La legione, Roma o morte, Il pretoriano, La battaglia finale, Il sangue dell’impero, La profezia dell’aquila, L’aquila dell’impero, Sotto un unico impero, La spada e la scimitarra, Roma, sangue e arena, Per la gloria dell’impero, L'armata invincibile e I conquistatori (con T.J. Andrews), tutti pubblicati dalla Newton Compton. Le sue opere hanno venduto oltre 1 milione di copie nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2018
ISBN9788822718648
L'armata invincibile
Autore

Simon Scarrow

Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.

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    Anteprima del libro

    L'armata invincibile - Simon Scarrow

    ELENCO DEI PERSONAGGI

    A Roma

    Quinto Licinio Catone, prefetto

    Lucio Cornelio Macrone, centurione

    Imperatore Tiberio Claudio Augusto Germanico

    Agrippina, quarta moglie di Claudio

    Nerone, figlio di Agrippina e pronipote di Claudio

    Britannico, figlio di Claudio e della terza moglie, Messalina

    Narciso, liberto imperiale greco, sostenitore di Britannico

    Pallante, liberto imperiale greco, amante di Agrippina e sostenitore di Nerone

    Legato Aulo Vitellio, membro della fazione di Nerone

    Senatore Lucio Anneo Seneca, ricco proprietario terriero

    Lucio Scabaro, locandiere

    Gaio Gannico, guardia reale

    Polidoro, cerimoniere al palazzo imperiale

    Alla miniera

    Procuratore Gaio Nepone, responsabile della fornitura d’oro dell’imperatore

    Seconda coorte pretoriana

    Tribuno Aulo Valerio Cristo

    Centurioni Placino, Secondo, Porcino, Petillio, Musa, Pulcro

    Gaio Getello Cimbro, giudice cittadino di Lancia

    Metello, optio di Pulcro

    Sentiaco, optio di Petillio

    Pasterico, optio di Nepone

    Colleno, optio della Quarta coorte pretoriana

    Altri

    Iskerbeles, capo ribelle

    Carataco, prigioniero re britannico dei Catuvellauni

    Giulia, defunta moglie di Catone

    Lucio, figlio di Giulia e Catone

    Senatore Sempronio, padre di Giulia

    Petronilla, balia di Giulia

    Amatapo, domestico a casa di Giulia

    Tito Pelonio Aufidio, giudice di Asturia Augusta

    Calleco, ribelle

    Publio Ballino, governatore della Spagna Tarragonese

    Gaio Gleco, capo della corporazione dei mercanti di olive

    Mico Ascleo, mercante di schiavi

    Gaio Ettio Gordone, giudice anziano di Antium Barca

    Nella feroce morsa delle circostanze

    Non mi sono tirato indietro né ho gridato.

    Sotto i randelli del caso

    Il mio capo è insanguinato ma indomito.

    Oltre questo luogo di collera e lacrime

    Non incombe che l’Orrore dell’ombra

    Eppure la minaccia degli anni

    Mi trova, e mi troverà, impavido.

    William Ernest Henley, Invictus

    PROLOGO

    Provincia della Spagna Tarragonese, inizio dell’estate 54 d.C.

    Dalla folla si levarono grida di rabbia quando il prigioniero fu trascinato sotto l’accecante luce del sole, che inondava il foro nel cuore di Asturica Augusta¹. Era rimasto in catene in una delle umide celle sotto il palazzo del senato per più di un mese, nell’attesa che il magistrato romano tornasse dalla sua tenuta di campagna e pronunciasse la sentenza. Adesso il giudice si trovava sui gradini del senato, circondato dagli altri notabili della città, tutti vestiti con le loro toghe più eleganti e le tuniche ricamate, pronto a emettere il giudizio. Ma nella mente della folla c’erano ben pochi dubbi, così come in quella del prigioniero, riguardo la sua sorte.

    Iskerbeles aveva aggredito e ucciso il funzionario che si era presentato al suo villaggio per esigere schiavi come pagamento del debito nei confronti di un senatore di Roma immensamente ricco. Aveva ucciso l’uomo davanti a centinaia di testimoni e i soldati ausiliari che stavano accompagnando lo sventurato liberto mandato a riscuotere il debito. Non importava che il funzionario avesse appena dato ordine di sequestrare dieci bambini del villaggio e che il colpo fosse stato inferto in un accesso di rabbia.

    Iskerbeles era un uomo dalla corporatura possente, dagli occhi scuri e feroci sotto una fronte massiccia. Aveva sferrato un pugno in faccia al liberto, che aveva battuto la testa, spaccandosela, contro l’angolo di un trogolo di pietra. Era stata una crudele piega del destino, resa ancora più spietata quando l’ufficiale al comando degli ausiliari aveva ordinato ai suoi uomini di prendere il capo villaggio come prigioniero, insieme ai bambini. Ma mentre questi sarebbero stati venduti come schiavi, Iskerbeles era destinato a essere processato per omicidio e condannato all’esecuzione pubblica.

    L’ultima cosa che aveva visto di sua moglie era la sua disperazione mentre abbracciava le figlie più piccole, singhiozzando nelle pieghe della tunica. Una giornata di marcia aveva portato i prigionieri ad Asturica Augusta, dove Iskerbeles era stato messo ai ceppi nella cella e i bambini incatenati alla colonna diretta al mercato degli schiavi della capitale provinciale, Tarraco². Da allora era stato quasi lasciato morire di fame e i pesanti ceppi di ferro attorno ai polsi gli avevano provocato dolorose vesciche. Aveva i capelli impiastricciati ed era sporco della propria lordura, al punto che le dieci guardie che lo scortavano si tenevano a distanza e lo pungolavano con la punta delle lance per farlo avanzare tra la folla verso la base della scalinata.

    Le grida rabbiose dei cittadini e di coloro che erano giunti dalla campagna circostante cominciarono a spegnersi alla vista delle sue condizioni pietose e, quando fu fatto fermare davanti agli scalini, nel foro calò un cupo silenzio. Perfino quelli alle bancarelle sull’altro lato si fermarono a guardare in direzione del senato, catturati dall’atmosfera carica di tensione.

    «Tu, sta’ dritto!», sibilò una delle guardie, conficcando l’impugnatura della lancia nel fondoschiena del prigioniero. Iskerbeles incespicò in avanti per mezzo passo e poi, con fare sprezzante, si erse in tutta la sua altezza e guardò bieco il giudice. Il centurione al comando della scorta si schiarì la voce e sbraitò con voce da piazza d’armi, così che tutti i presenti nel foro potessero udire: «Giustissimo Tito Pelonio Aufidio, magistrato di Asturica Augusta, ti presento Iskerbeles, capo del villaggio di Guapacina, perché lo giudichi in merito all’accusa di aver ucciso Gaio Democle, agente del senatore Lucio Anneo di Roma. L’assassinio ha avuto luogo alle idi del mese scorso, davanti ai miei occhi e a quelli degli uomini della scorta incaricata di proteggere Democle. Adesso attende il tuo giudizio».

    Il centurione abbassò di scatto il mento in un rapido inchino e si fece da un lato, mentre il magistrato scendeva qualche gradino per distinguersi dai senatori locali e dai funzionari cittadini, continuando però a ergersi sulla folla radunata davanti a lui. Aufidio assunse un’espressione sdegnosa mentre scrutava i loro volti. Che ci fosse un’ampia e diffusa ostilità era inequivocabile. Dall’abbigliamento rozzo e dai capelli incolti di tanti, dedusse che la gente del prigioniero era in mezzo ai cittadini e non avrebbe accolto con favore quanto sarebbe accaduto. Potevano esserci disordini, concluse il giudice, e fu sollevato al pensiero di avere il resto degli ausiliari pronti nella strada di lato al palazzo del senato. Anche se il primo imperatore, Augusto, aveva dichiarato la pacificazione della Spagna quasi un centinaio di anni prima, ciò era avvenuto solo dopo due secoli di conflitto. C’erano ancora alcune tribù settentrionali che rifiutavano di inchinarsi a Roma e molte altre che, per usare un eufemismo, erano restie a farlo e non avrebbero desiderato di meglio che scrollarsi di dosso quel giogo romano che si era rivelato un fardello. In effetti, rifletté Aufidio, era sorprendente che un popolo così fiero e bellicoso avesse accettato la pax romana. La pace non era nella loro indole.

    Ed era per questo che andavano governati col pugno di ferro. Aggrottò la fronte con aria severa.

    «Che tu abbia commesso il crimine, non c’è dubbio. Ci sono numerosi testimoni dell’accaduto. Sono pertanto obbligato a pronunciare una sentenza capitale. Tuttavia, prima di farlo, nel nome della giustizia romana, concedo al condannato un’ultima possibilità di chiedere perdono per le sue azioni e mettersi in pace con il mondo prima che varchi la soglia del regno delle ombre. Iskerbeles, quali sono le tue ultime parole?».

    Il capo villaggio protese il mento e fece un respiro profondo prima di replicare con voce forte e chiara: «Giustizia romana? Io sputo sulla giustizia romana!».

    Il centurione alzò il pugno e fece per colpire ma il giudice lo fermò. «No! Che parli. Che si condanni ulteriormente agli occhi della legge e davanti a questa gente!».

    A malincuore, il soldato tornò al suo posto e Iskerbeles arricciò le labbra in una smorfia di disprezzo prima di continuare. «La morte di quel maledetto figlio di puttana di un liberto è stata giustizia naturale. È venuto al nostro villaggio per prendersi il nostro grano, il nostro olio e quanto avevamo di valore. Quando gli abbiamo negato le sue richieste, ha minacciato di prendere i nostri bambini. Ha messo le mani su un figlio del nostro villaggio e così l’ho ucciso. È stato un incidente, non era premeditato».

    Aufidio scosse il capo. «È irrilevante. La vittima stava adempiendo al suo legittimo dovere. Riscuotendo un debito per conto del suo padrone».

    «Lo stesso padrone che ha fatto un prestito al nostro villaggio quando il raccolto è andato male tre anni fa, per poi aumentare il tasso d’interesse a ogni scadenza del prestito così che non saremmo mai riusciti a ripagarlo».

    Il giudice si strinse nelle spalle. «Può anche essere, ma è legale. Avevi un accordo con il senatore Anneo, tramite il suo agente. Conoscevi le condizioni prima di apporre il sigillo sul documento per conto della tua gente. Pertanto il senatore ha tutti i diritti di esigere la completa restituzione».

    «Completa, più gli interessi. Che ammontano alla metà del prestito originario! Come possiamo ripagarlo? E non siamo i soli a essere vittime di questo spregevole cane». Iskerbeles fece un mezzo giro per apostrofare la folla. «Tutti voi conoscete l’uomo che ho ucciso. L’abietto Democle, che ha imbrogliato non solo la gente del mio villaggio, ma quasi ogni villaggio di questa regione. I suoi uomini hanno già sequestrato centinaia di persone dalla nostra tribù quando non erano in grado di ripagare il suo padrone. Molte sono condannate alle miniere sulle colline. Lavoreranno fino a morire di sfinimento oppure resteranno sepolte vive in quelle trappole mortali che sono le gallerie scavate nelle falesie. Nessuno qui ha bisogno che gli vengano ricordati gli orrori di quelle miniere!».

    Aufidio sorrise. «Eppure tu stai cercando di ricordarli a noi. La sorte di quei condannati alle miniere è ben nota, Iskerbeles. Ma è un castigo ben meritato per tutti coloro che infrangono la legge».

    «Ah! Tu parli di legge. La legge impostaci dai nostri padroni romani. La legge che è poco più di uno strumento per giustificare il furto del nostro oro, del nostro argento, della nostra terra, delle nostre case e della nostra libertà. La legge romana è un affronto alla natura, un cancro per ogni fibra della nostra dignità». Si fermò per guardare torvo la folla. «Chi tra i presenti è una creatura tanto infima da tollerare questa vergogna? Siete tutti cani rognosi sprofondati nell’abisso di elemosinare le briciole e di leccare gli stivali di coloro che vi frustano e vi lasciano morire di fame per ridurvi alla sottomissione totale? Non c’è nessuno che si oppone alla tirannia di Roma? Nessuno?»

    «Abbasso Roma!», esclamò una voce dal fitto della folla. Facce si voltarono per guardarsi intorno. Un’altra voce si aggiunse al grido e altre presero parte alla rabbia crescente. Poi un uomo tra le prime file agitò il pugno e urlò: «A morte Aufidio!». Era un uomo massiccio e calvo. Era avvolto in un mantello da pastore e, spingendo il pugno in aria, cominciò a scandire la minaccia e quelli attorno a lui si unirono al coro.

    A quella protesta, il giudice risalì mezzo gradino e subito inveì contro il centurione. «Esegui la sentenza. Portalo via da qui! Adesso!».

    Il centurione annuì e si schiarì la voce. «Scorta! Serrati attorno al prigioniero!».

    Sollevati scudi e spade, gli ausiliari formarono una fitta barriera attorno a Iskerbeles, mentre il centurione prendeva l’estremità della catena che pendeva dal collo del prigioniero e vi dava uno strattone mentre lo conduceva via. «Andiamo».

    Costeggiarono gli scalini ai piedi del senato e cominciarono a farsi strada lungo l’estremità del foro, diretti alla strada che portava all’ingresso orientale della città. Al di là, c’era una bassa collina dai leggeri pendii, sulla cui cima la città faceva giustiziare i suoi criminali. Alzando lo sguardo sopra i tetti, Iskerbeles vide le minuscole figure della squadra addetta alle esecuzioni, mandate a scavare il buco per il palo e costruire la struttura di legno sulla quale sarebbe stato crocifisso. Poi, con un doloroso strattone alla catena, il centurione lo tirò nella strada stretta. Come molti consolidati insediamenti romani, sulle strade principali di Asturica Augusta si affacciavano piccole botteghe, mentre sopra di esse erano stati costruiti piani aggiuntivi per alloggiare la popolazione in crescita.

    Il centurione abbaiò alla gente in strada di farsi da parte e i cittadini si affrettarono a scansarsi; le donne afferrarono i bambini piccoli mentre i più anziani salivano rigidi sul marciapiede. Una volta passati il prigioniero e la sua scorta, la folla si riversava di nuovo in strada e le urla rabbiose furono intrappolate tra i muri che si innalzavano a ciascun lato, riempiendo l’aria del loro frastuono. Il centurione si voltò a guardare il prigioniero e lo schernì.

    «La tua gente non sarà così insolente quando ti vedrà inchiodato e issato».

    Iskerbeles non rispose alla provocazione ma si concentrò a restare in piedi mentre veniva trascinato lungo l’acciottolato della strada. Attorno a lui, gli ausiliari spintonavano gli astanti che affollavano il marciapiede.

    «Cos’ha fatto?», domandò al centurione un vecchio rugoso.

    «Non sono affari tuoi», sbottò l’ufficiale. «Fate largo!».

    «Quello è Iskerbeles», rispose al vecchio una donna grassa.

    «Iskerbeles? Capo Iskerbeles?»

    «Già, una povera anima da giustiziare. Per aver ucciso un usuraio».

    «Giustiziare?». Il vecchio sputò nel canale di scolo ai piedi dell’ausiliario più vicino. «Quello non è un crimine. O non dovrebbe esserlo».

    La donna sollevò i pugni. «Lasciatelo! Razza di cani romani. Liberatelo!».

    Quelli a ciascun lato della via si affrettarono a riprendere le sue grida e la protesta si propagò lungo tutta la strada, fino alla folla che seguiva il gruppetto di soldati. Ben presto il suono assordante del suo nome riecheggiò nelle orecchie di Iskerbeles e della sua scorta, e il capotribù non poté trattenere un debole sorriso di soddisfazione, nonostante lo stessero conducendo a una morte straziante. Nella gente della sua tribù, e in tanti di quei nativi che erano andati a vivere nelle città, continuava ad albergare un sentimento di resistenza contro l’invasore che avevano combattuto per numerose generazioni. La pace proclamata dai romani comportava il prezzo di essere schiacciati sotto il loro tallone e Iskerbeles pregò la dea Ataecina affinché scatenasse la sua furia contro Roma e ispirasse i suoi seguaci a massacrare e bruciare gli invasori e a respingerli in mare.

    Poco più avanti, diversi giovani erano emersi da una taverna per vedere da cosa dipendesse quel trambusto. Quando Iskerbeles alzò lo sguardo, notò le loro tuniche pulite e le facce sbarbate di fresco e li riconobbe per quelli che erano: i rampolli delle famiglie più ricche della città, che ormai da tempo avevano fatto comunella con l’invasore e adottato con entusiasmo modi e vezzi romani. Alcuni di loro reggevano ancora le caraffe in mano e il più vicino sollevò la propria in un brindisi mentre diceva a gran voce: «Morte agli assassini! Io dico a morte Iskerbeles!».

    Una parte dei suoi compagni gli scoccò un’occhiata preoccupata, ma il resto ripeté il brindisi e dileggiò il prigioniero in arrivo. All’istante, la donna grassa prese a inveire contro di loro e, sollevandosi l’orlo della stola lacera, andò alla carica lungo il marciapiede e schiaffeggiò il capobanda con la sua mano carnosa. «Sciocco di un ubriacone».

    Il giovane poteva anche essere ubriaco ma incassò bene il colpo e scosse la testa per riprendersi prima di sferrare un pugno in faccia alla donna, rompendole il naso e facendole colare sangue rosso cremisi dalle narici.

    «Tieni il becco chiuso, megera. Se non vuoi raggiungere il tuo amico lì, quando lo crocifiggeranno».

    La donna serrò una mano sul naso, poi vide il sangue sul palmo e, lanciato un urlo stridulo, si avventò sul giovane in un turbinio di pugni.

    «Razza di bastardi! Bastardi! Ci state togliendo tutto!».

    Le sue grida erano così forti che quanti tra la folla erano più vicini frenarono la lingua e si girarono a guardare nella sua direzione. Indovinarono all’istante la natura dello scontro e si precipitarono verso la locanda per unirsi all’attacco contro i giovani, che erano immediatamente diventati il simbolo di tutte le cause della loro infelicità. Volarono pugni, furono tirati capelli, si urlarono insulti e piedi scalciarono in un forsennato accesso d’ira. Ben presto il parapiglia si riversò sulla strada davanti al prigioniero e la sua scorta. Il centurione si fermò e sospirò esasperato.

    «Grandioso, cazzo… Proprio quello di cui avevo bisogno». Consegnò la catena a uno dei suoi uomini e sollevò il robusto bastone di vite. «Restate uniti mentre passiamo tra questa gente. E non voglio vedere nessuno immischiarsi. Colpite chiunque si metta in mezzo ma fermatevi a questo. Sono già abbastanza incazzati senza che uno di voi bastardi gli fornisca altre giustificazioni. Chiaro? Allora, restate uniti e muoviamoci».

    Indicò la strada con il bastone di vite e ripartì con passo lento e deciso. Quando il manipolo si avvicinò ai margini della violenta rissa, il centurione sollevò il bastone e sbraitò: «Fate largo!».

    Un uomo senza un braccio si guardò attorno con aria nervosa e raggiunse il lato della strada in tutta fretta, ma gli altri continuarono ad azzuffarsi incuranti.

    «E va bene», mormorò il centurione. Alzò il bastone e lo calò sulle spalle dell’uomo più vicino. La vittima barcollò nella folla con un grugnito sofferente mentre l’ufficiale brandiva di nuovo il bastone, stavolta abbattendone la testa nodosa sul fondoschiena di una donna. Questa crollò sulle ginocchia e il centurione la spinse via con la mano libera, infilandosi nel varco. Ci volle solo qualche altro colpo prima che la folla si rendesse conto del pericolo e si affannasse a levarsi di mezzo. I soldati seguirono il loro superiore, servendosi dello scudo per farsi largo nella rissa, con Iskerbeles che si sforzava di restare in piedi mentre veniva spintonato dagli uomini a ciascun lato. Una volta fuori dalla mischia, giunsero a un incrocio e il balenare di un movimento laterale attrasse l’attenzione di Iskerbeles. Lanciando un’occhiata in fondo a una traversa, vide un gruppetto di uomini in mantello marrone scuro attraversare di corsa un incrocio parallelo. Poi scomparvero.

    Un brusco strattone lo riscosse quando l’ausiliario incaricato di reggere la catena ringhiò: «Muovi il culo».

    Il soldato parlava il dialetto locale con appena un leggero accento e Iskerbeles lo scrutò. «Tu non sei romano. Della parte orientale della provincia, dico bene?».

    L’ausiliario fece spallucce. «Barcino³».

    «Allora sei uno di noi. Perché servi questi cani romani? Non vuoi essere libero?»

    «Libero di essere cosa?». Il soldato proruppe in una risata dura. «Un contadino dalle chiappe pelose che tira a campare su un merdoso brandello di terra? Se quella è libertà, allora puoi tenertela, dannazione».

    Iskerbeles strinse gli occhi. «Non ce l’hai un cuore? Nessun orgoglio? Nessuna vergogna?»

    «L’unica vergogna che provo è quella di dover stare a sentire il tuo piagnucolio». Il soldato diede alla catena un rapido strattone. «Perciò tieni il becco chiuso, amico, e risparmiami la predica».

    Liberi dalla folla, il centurione accelerò il passo e, quando la strada curvò a sinistra, attorno a un piccolo tempio, le porte della città apparvero davanti ai loro occhi. Le sentinelle a ciascun lato si riscossero alla vista di un ufficiale e si misero sull’attenti quando si avvicinò. A differenza degli ausiliari, non si trattava di veri soldati, bensì di uomini reclutati dal senato cittadino per riscuotere il pedaggio per entrare in città. Erano dotati di armi e una corazza acquistata a buon mercato perché avessero l’aspetto di soldati. Il centurione quasi li ignorò mentre conduceva i propri uomini attraverso l’ombra delle porte e fuori nella vivida luce dell’aperta campagna al di là delle mura. La strada era lastricata per alcune miglia prima di diventare una pista sterrata che proseguiva tra le colline della regione. Una fila di carri di mercanti e muli carichi condotti da contadini aspettavano di entrare in città e al prigioniero non fu riservato quasi alcuno sguardo. Un mercante di cavalli e i suoi compagni con una lunga colonna di bestie passarono in coda alla fila e il centurione scoccò un’occhiata invidiosa ai cavalli, paragonandoli a quelli di infima qualità di cui doveva accontentarsi la sua coorte.

    A poca distanza dalle porte, partiva un sentiero che arrivava fin sulla cima della collina usata per le esecuzioni e il centurione e i suoi uomini si avviarono a raggiungere la squadra di lavoro in attesa. Un gruppetto di cittadini stava da una parte, aspettando di assistere allo spettacolo, e quelli che erano seduti si alzarono in piedi all’avvicinarsi del condannato e della sua scorta. Iskerbeles sentì lo stomaco serrarsi in un nodo doloroso quando vide la croce poggiata accanto al mucchietto di terra e pietre estratte dal buco destinato al palo. Fino ad allora era riuscito a celare i propri sentimenti e adesso digrignò i denti, deciso a non tradirsi davanti ai suoi nemici. Sarebbe stato bello nascondere la paura e il dolore e mostrare invece disprezzo e disgusto per Roma fino all’ultimo respiro. Che la gente della città vi assistesse e che coloro che continuavano la lotta contro l’invasore traessero forza dal suo esempio.

    «Muovete il culo!», esclamò il centurione e fece un mezzo giro per indicare Iskerbeles. «Ecco il vostro cliente. Inchiodatelo per bene e in fretta, così possiamo andarcene».

    Il decurione incaricato della squadra di lavoro agitò una mano per mostrare che aveva sentito e si voltò a borbottare un ordine ai suoi uomini, che erano accovacciati attorno alla croce e agli attrezzi usati per preparare l’esecuzione. Rivolgevano le spalle agli ausiliari in arrivo e non si presero il disturbo di muoversi al suono degli stivali chiodati che scricchiolavano sul terreno cotto dal sole.

    «In piedi, ho detto!», sbraitò il centurione mentre veniva avanti a grandi passi, con il bastone pronto a colpire il più vicino degli uomini che avevano ignorato il suo ordine iniziale. Poi scorse la chiazza scura di sangue secco accanto all’asta della croce. Sul terreno c’erano altre macchie. Si fermò di scatto e un gelido formicolio gli fece rizzare i peli sulla nuca. Poi vide il piede nudo spuntare da dietro una vicina formazione rocciosa e all’istante si passò il bastone nella mano sinistra mentre sguainava la spada.

    «Imboscata! Alle armi!».

    Prima che i suoi uomini sbigottiti potessero reagire, il decurione urlò un ordine nella lingua natia e gli uomini della squadra di lavoro balzarono in piedi, spade e lance alla mano, e si lanciarono alla carica dei soldati della scorta. Gli spettatori in attesa da un lato gettarono via i mantelli, rivelando altre armi. Si precipitarono verso gli ausiliari e il prigioniero senza dire una parola.

    Iskerbeles, che stava cercando di prepararsi alla tremenda prospettiva di avere polsi e caviglie trafitti da chiodi di ferro, provò un’ondata di euforia all’improvvisa promessa di salvezza. L’uomo che si era finto decurione incaricato della squadra di esecuzione si lanciò in testa ai suoi uomini, tracciando con la spada un selvaggio arco diretto al centurione. Quest’ultimo era un professionista e si era allenato per tanti anni in vista di un momento del genere. Si accovacciò e parò il colpo, poi si servì del bastone di vite per colpire di striscio alla testa l’avversario, mandandolo a finire all’indietro barcollante. L’ufficiale ausiliario guardò i suoi uomini.

    «Serrate i ranghi!».

    L’impatto dell’imboscata svanì in fretta e i soldati alzarono le spade e spianarono le lance, disponendosi per affrontare la carica da due direzioni. L’uomo incaricato di tenere la catena del prigioniero esitò, incerto se lasciarla andare e raggiungere i compagni o continuare a sorvegliare il capotribù. Iskerbeles tirò su di scatto le mani e strappò la catena dalla presa del soldato, facendone sbattere l’estremità contro l’elmo di quest’ultimo. Metallo cozzò contro metallo e il soldato barcollò all’indietro stordito, scontrandosi con la schiena di un compagno e facendo per poco finire entrambi a terra. Tra i due ausiliari si aprì un varco e Iskerbeles, serrando i pugni, corse verso l’apertura con tutta la velocità che le gambe incatenate gli consentivano. Portando avanti la spalla destra, spintonò da un lato uno della scorta e poi cercò di correre per alcuni passi, ma la catena lo fece inciampare, mandandolo a finire faccia avanti a poca distanza dai soldati romani.

    Il centurione allungò il bastone. «Non lasciate fuggire il bastardo!».

    Uno dei suoi uomini si precipitò e tirò indietro il braccio con la lancia, pronto a colpire. Iskerbeles si rotolò su un fianco, sollevando le mani nel vano tentativo di sviare il colpo. Strizzò gli occhi quando alzò lo sguardo sul soldato, nero contro l’accecante sfondo del sole rovente. Poi un’altra sagoma andò a sbattere contro l’ausiliario, facendolo ruzzolare da un lato con un sonoro sferragliare quando lo scudo del soldato colpì il suolo. Con la coda dell’occhio, Iskerbeles vide una lama alzarsi e calare tre volte; quando una mano lo afferrò per un braccio e lo issò in piedi, vide il volto ghignante dell’uomo che dalla folla aveva chiesto la morte di Aufidio.

    «Ben trovato, Calleco, amico mio».

    «I saluti a dopo», disse l’uomo affannato. «Prima uccidiamo i romani».

    Portò Iskerbeles a distanza di sicurezza e poi corse di nuovo verso la mischia, vicino alla cima dell’altura. Diversi uomini erano già caduti in quella nuvola di polvere, tre dei quali soldati. Adesso i loro compagni combattevano schiena contro schiena, insieme al centurione. Ma erano in inferiorità numerica e l’impavida ferocia degli assalitori garantì il risultato. Uno dopo l’altro furono trascinati a terra e finiti con colpi forsennati di lame e affondi di lance, fino a quando rimasero solo il centurione e due soldati; in posizione di difesa e con lo sguardo che guizzava inquieto sugli uomini intorno a loro, gli ausiliari tenevano le armi spianate, pronti a sventare eventuali attacchi. Come per un tacito accordo, entrambe le parti si ritrassero l’una dall’altra e la ventina di assalitori si tenne a una distanza pari a due spade, muovendosi in cerchio attorno al terzetto di ausiliari. Respiravano tutti a fatica mentre si preparavano a continuare la lotta.

    «Gettate le armi!», gridò Iskerbeles.

    Il centurione storse le labbra in una smorfia di disprezzo ma, prima che potesse replicare, uno dei suoi uomini gettò la spada e allentò la presa attorno all’impugnatura dello scudo, che cadde accanto alla lama. Il suo compagno lanciò un’occhiata al centurione prima di fare altrettanto.

    L’ufficiale tirò su col naso. «Razza di codardi…».

    «Arrenditi!», ordinò Iskerbeles. «Fallo subito o muori!».

    L’ufficiale digrignò i denti, voltandosi lentamente per coprire tutte le angolazioni, mentre i due sopravvissuti della scorta si allontanavano da lui. Poi sospirò frustrato mentre tirava su la schiena e gettava spada e bastone ai piedi di Iskerbeles.

    «Potrete anche fuggire ma presto saremo sulle vostre tracce e vi braccheremo come cani».

    «Davvero?», sorrise Iskerbeles. «Staremo a vedere. Calleco, levami queste catene».

    L’uomo gli si avvicinò e sfilò il perno dal ceppo attorno al collo e poi da quelli a ciascuna mano; infine si chinò a rimuovere quelli attorno alle caviglie del suo capo. Iskerbeles si sfregò delicatamente i cordoni rossi che si erano formati sulla pelle mentre osservava gli altri uomini del suo villaggio. «Siete degli sciocchi. Tutti quanti. Ai romani sarebbe bastato solo il mio sangue per l’assassinio dell’usuraio. Adesso ci uccideranno tutti».

    «Solo se ne avranno la possibilità», ridacchiò Calleco. Puntò un pollice verso i tre ausiliari. «E se si battono come questi codardi smidollati, allora non abbiamo niente da temere».

    Iskerbeles si accigliò. «Hanno uomini di gran lunga migliori di questi da mandare contro di noi. Non farti illusioni. Se adesso ingaggiamo una lotta contro Roma, allora sarà una lotta fino alla fine. Possiamo vincere solo se sopravviviamo abbastanza a lungo da ispirare altre tribù perché si uniscano a noi». Fece una pausa per lasciare che le parole sortissero il loro effetto. «Le probabilità sono contro di noi. Contro di noi e tutto il nostro popolo. I romani non si accontenteranno di dare la caccia solo a noi. Verranno a cercarci tutti. Anche le nostre donne e i bambini. Siete disposti a correre questo rischio, amici miei? Pensateci bene».

    Calleco rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere. «Pensi che non ne abbiamo discusso? Tutti quanti, dal primo all’ultimo. Abbiamo giurato di salvarti, capo Iskerbeles. Tu ci condurrai alla vittoria o alla morte».

    Iskerbeles risucchiò un respiro mentre squadrava le facce in attesa di una sua reazione. Poi scosse la testa. «Razza di sciocchi… E sia. Fino alla vittoria o alla morte».

    Calleco spinse in alto la spada e proruppe in un grido di esultanza. Gli altri lo imitarono mentre Iskerbeles roteava la testa e fletteva i muscoli. Poi si chinò a raccogliere la spada del centurione ed esaminò l’arma. Era perfettamente bilanciata e l’impugnatura d’avorio levigata dall’uso. Nel vedere la lama ben curata e affilata, ebbe un moto di apprezzamento per il centurione. «Sai il fatto tuo».

    «Sì. E so che tra non molto me la riprenderò. Lo giuro su Mitra».

    «Lui non verrà in tuo soccorso, romano. Non se i nostri dèi possono impedirlo. E, in caso contrario, non se i miei amici e io riusciamo a impedirlo».

    Il centurione emise uno sbuffo di derisione. «Voi? Non siete che un branco di contadini che puzzano di merda di capra e sudore. Stavolta ci avete colti di sorpresa, lo ammetto. Ma la prossima, saremo pronti e allora vedrete cosa sono davvero in grado di fare i soldati romani».

    «Forse». Iskerbeles si voltò verso le porte della città e vide le sentinelle schermarsi gli occhi mentre guardavano in direzione della cima della collina. Già una di esse si era precipitata a dare l’allarme.

    «Sarà meglio andarsene. Saliamo sulle colline prima che mandino qualcuno a cercarci».

    «Ci ho già pensato». Calleco si girò verso la strada e agitò la mano da una parte all’altra. All’istante, gli uomini che avevano impersonato i mercanti di cavalli balzarono in sella e condussero le file di animali su per il pendio. «Saremo lontani miglia prima che muovano quei grassi culi romani e diano inizio all’inseguimento».

    «Brav’uomo». Iskerbeles sorrise soddisfatto. Poi la sua espressione si indurì. «Ma cosa ne sarà di noi? Sicuramente daranno alle fiamme il nostro villaggio. Dovremo prendere donne e bambini e nasconderci nelle montagne».

    Il suo compagno fece spallucce. «Non sarà facile, ma conosciamo il territorio. Sopravviveremo».

    «Sopravvivere?». Iskerbeles aggrottò la fronte. «No. La sopravvivenza non basta. Non lascerò che il nostro popolo finisca braccato come un branco di cani. È indegno. Dobbiamo dare loro una causa per cui combattere, amico mio. Dobbiamo alzare lo stendardo della nostra tribù e fare appello a tutta la nostra gente perché si ribelli e combatta Roma. Se non riusciamo a scacciarli dalla nostra terra, resteremo sempre i loro schiavi».

    «Pensi che siamo in grado di combattere Roma?». Calleco inarcò le sopracciglia in un moto di sorpresa all’arroganza del suo capo. Abbassò la voce perché gli altri non udissero. «Hai perso la testa? Non possiamo sconfiggere Roma».

    «Perché no? Non saremmo il primo popolo in Spagna a provarci. Né l’ultimo, se fallissimo, te lo garantisco. Viriato e Sertorio sono andati molto vicini alla vittoria. Hanno fallito solo perché sono stati traditi. Non commetterò lo stesso errore». Gli occhi del capotribù lampeggiarono. «Inoltre, la provincia è pronta alla rivolta. Il nostro popolo non è il solo a essere schiacciato sotto gli stivali del nemico. C’è fame di ribellione e noi soddisferemo quell’appetito, amico mio. Il nostro esempio darà coraggio a tutti coloro che odiano Roma… Ma non è adesso il momento di parlarne. Più tardi, quando avremo portato in salvo la nostra gente».

    Calleco annuì e stava per voltarsi verso i cavalli in arrivo quando si fermò e accennò ai tre sopravvissuti della scorta. «E loro?».

    Iskerbeles osservò il centurione e i suoi compagni per un istante prima di rispondere. «Uccidi i soldati. Per quanto riguarda il centurione, sarebbe un peccato non sfruttare la croce e quei chiodi…».

    1 Odierna Astorga (n.d.t.).

    2 Odierna Tarragona.

    3 Odierna Barcellona (n.d.t.).

    CAPITOLO 1

    Porto di Ostia, un giorno di marcia da Roma

    «Cos’è tutta questa agitazione, amico?», domandò Macrone al locandiere, accennando alla folla ubriaca in fondo al locale chiamato Dono di Nettuno. Diversi uomini stavano parlando in toni eccitati davanti a una grossa caraffa di vino. Un paio di prostitute della locanda si erano unite al gruppo ed erano sedute in grembo agli uomini mentre si davano da fare per avere un po’ di vino, e concludere l’affare, se erano fortunate.

    Senza rispondere alla domanda, il locandiere, un individuo dall’aria vissuta e la benda su un occhio, fissò lo sguardo ridotto sul suo cliente e tirò a indovinare. «Appena sceso da una nave, eh?».

    Macrone annuì alla brusca domanda e indicò il compagno alto e slanciato che stava usando l’orlo del mantello per asciugare la superficie di una panca vicino all’entrata. Catone ripulì alla meno peggio l’appiccicume e, con una rapida smorfia, si mise a sedere, stagliandosi nella vivida luce esterna. La strada era affollata e le strida dei gabbiani che volteggiavano nel limpido cielo azzurro tagliavano il brusio di voci e le grida dei venditori ambulanti. Nonostante fosse metà mattina, il caldo era opprimente e l’ombra della taverna offriva una gradita tregua dal sole cocente.

    «Proprio così. Avevo bisogno di bere prima di prendere una barca sul Tevere fino a Roma».

    «Barca? Molto improbabile. Ormai non ci sarà spazio su nessuna barca. A breve nella capitale ci sarà una festività pubblica. Perciò ogni barca è carica di vino, leccornie e turisti. Dovrai andarci a piedi, amico mio. Sei da solo?»

    «No, siamo io e il mio prefetto».

    «Prefetto?». Il taverniere sgranò gli occhi e poi li ridusse a due fessure quando rivalutò i suoi ultimi avventori. Non mostravano alcun segno distintivo di rango o ricchezza. Entrambi indossavano mantelli militari e semplici tuniche. L’uomo più basso al bancone portava robusti stivali da soldato ma il suo compagno, il prefetto, aveva stivali in pelle di vitello, tinti di rosso. Entrambi avevano piccoli zaini sulle spalle e la pendula protuberanza di ciascuno faceva presagire una borsa pesante. Il taverniere gli rivolse un sorriso sdentato. «Sempre un piacere servire gentiluomini illustri. Quindi lui è un prefetto. E tu? Stesso rango?»

    «No». Macrone ricambiò il sorriso. «Io lavoro per guadagnarmi da vivere». Si batté il petto. «Centurione Macrone. Precedentemente nella Quattordicesima legione, in servizio in Britannia, e prima ancora nella Seconda Augusta, la migliore dell’intero esercito. Allora, come ho detto, cos’è tutto questo trambusto? Tutta la città sembra euforica».

    «E perché no, signore? Dovresti conoscere la ragione come chiunque, dato che sei appena tornato dalla Britannia. È per via di quel re Carataco, quello che ha fatto dannare i nostri generali».

    Macrone sospirò. «Non c’è bisogno di parlarmene. Quel bastardo era viscido come un’anguilla e feroce quanto un leone. Fortuna che alla fine l’abbiamo acciuffato. Che mi dici di lui? L’ultima notizia che ho sentito è che sarebbe stato mandato a Roma sotto chiave».

    «E così è stato, signore. Lui e la sua gente sono stati tenuti nel Carcere Mamertino negli ultimi sei mesi mentre l’imperatore Claudio decideva cosa farne. Adesso lo sappiamo. Claudio ha deciso di farli sfilare per le strade di Roma e portarli su al tempio di Giove perché vengano strangolati. Ci saranno grandi festeggiamenti. Sua maestà offrirà un banchetto alla città e cinque giorni di combattimenti di gladiatori e corse di carri al Circo Massimo». Il taverniere fece una pausa e poi si strinse nelle spalle. «Certo, Ostia sarà un mortorio in quei giorni. Pessimo per gli affari. Quindi tanto vale vendere il più possibile adesso. Cosa prendi, signore?»

    «Qual è la cosa migliore che hai? Ci meritiamo qualcosa di buono per festeggiare il nostro ritorno a casa. Non quel piscio annacquato che vendi ai soliti clienti appena sbarcati, eh?».

    Il taverniere parve offeso e fece un profondo respiro prima di irrigidire il collo per l’indignazione. «Non gestisco quel tipo di attività, signore. Sappi che Lucio Scabaro serve alcuni tra i vini migliori di tutte le taverne di Ostia».

    Non ci vuole molto, pensò Macrone. Per la taverna, come le altre che affollavano la strada nei pressi del pontile, gli affari andavano a gonfie vele grazie a quelli che sbarcavano e morivano dalla voglia di una bevuta, e a quelli che ne avevano bisogno prima di salpare per un viaggio. Clienti del genere tendevano a fare più caso agli effetti che al gusto della merce dei tavernieri.

    «Allora», ritentò, «il tuo vino migliore?».

    Il taverniere accennò a una piccola fila di caraffe sul ripiano in alto dietro al bancone. «Mi è arrivata un po’ di roba buona da Barcino il mese scorso».

    «D’annata?»

    «Be’, adesso sì, signore».

    Macrone annuì. «Una brocca, allora, e due tazze. Dammele pulite. Il prefetto è abituato bene».

    Il taverniere si accigliò. «Lo faccio sempre, signore. Qualcosa da mangiare insieme al vino?»

    «Magari più tardi. Quando il vino ci avrà sistemato lo stomaco dopo quella traversata da Massilia. Una vera burrasca».

    «Molto bene, signore. Farò preparare qualcosa di buono dalle ragazze, se avrete bisogno di cibo. E, parlando di ragazze, sono pulite, volenterose e conoscono un sacco di giochetti. A un prezzo equo».

    «Ne sono convinto. Almeno per quanto riguarda le ultime due qualità. Non sono sopravvissuto a tre campagne in Britannia per prendermi lo scolo. Perciò stavolta farò a meno delle tue puttane, grazie. Portaci il vino al tavolo».

    Macrone voltò le spalle e andò a raggiungere il tavolo dove Catone si era seduto, con la schiena appoggiata all’intonaco crepato e

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