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DEDALUS (Ritratto dell'artista da giovane): Ediz. integrale
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E-book308 pagine4 ore

DEDALUS (Ritratto dell'artista da giovane): Ediz. integrale

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Info su questo ebook

Dedalus - Ritratto dell’artista da giovane (A Portrait of the Artist as a Young Man) è uscito nel 1916 dopo essere apparso a puntate su una rivista tra il 1914 e il 1915. Si tratta di un romanzo autobiografico, un vero e proprio specchio dello stesso Joyce. All’interno dello specchio, però, compare il ben noto protagonista Stephen Dedalus (col chiaro riferimento al Dedalo della mitologia greca) e l’intera sua vita formativa, dall’infanzia all’età matura. L’artista vive un risveglio intellettuale, filosofico e religioso e con esso una ribellione contro le convenzioni irlandesi e cattoliche; compie un percorso di fallimenti e successi, per quanto legati alla vita artistica coi suoi drammi interiori e le sue epifanie, affrontando nel suo sviluppo alcuni temi universali. Un capolavoro della letteratura che anticipa i grandi romanzi sperimentali di James Joyce.
LinguaItaliano
EditoreCrescere
Data di uscita18 mag 2023
ISBN9791254540121
DEDALUS (Ritratto dell'artista da giovane): Ediz. integrale
Autore

James Joyce

James Joyce (1882-1941) was an Irish author, poet, teacher, and critic. Joyce centered most of his work around the city of Dublin, and portrays characters inspired by the author’s family, friends, enemies, and acquaintances. After a drunken fight and misunderstanding, Joyce and his wife, Nora Barnacle, self-exiled, leaving their home and traveling from country to country. Though he moved way from Ireland, Joyce continued to write about the region and was popular among the rise of Irish nationalism. Joyce is regarded as one of the most influential writers of the 20th century. While his most famous work is his novel Ulysses, Joyce wrote many novels and poetry collections, including some that were published posthumously.

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    DEDALUS (Ritratto dell'artista da giovane) - James Joyce

    CAPITOLO I

    Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva giù per la strada incontrò un ragazzino carino detto grembialino...

    Il babbo gli raccontava questa storia: il babbo lo guardava attraverso un monocolo: aveva una faccia pelosa.

    Grembialino era lui. La muuucca veniva per la strada dove abitava Betty Byrne, che vendeva filato di limone.

    Oh, le belle rose di selva

    là nel verde giardinetto.

    Cantava questa canzone. Era la sua canzone.

    Oh, le belle lose veldi.

    Quando bagnate il letto, prima è caldo, poi viene freddo. La mamma metteva la tela incerata. Era ciò che dava l’odore strano.

    La mamma aveva un odore più buono del babbo. Gli suonava sul piano la tarantella per farlo ballare. Lui ballava:

    Tralala lalla

    tralala lallara

    tralala lalla

    tralallà.

    Lo zio Charles e Dante battevano le mani. Erano più vecchi del babbo e della mamma, ma lo zio Charles era più vecchio di Dante.

    Dante aveva due spazzole nel suo armadietto. La spazzola col dorso di velluto marrone era per Michael Davitt e la spazzola col dorso di velluto verde era per Parnell. Dante gli dava una pasticca ogni volta che le portava un pezzo di carta velina.

    I Vances abitavano al numero sette. Avevano un altro babbo e un’altra mamma. Erano il babbo e la mamma di Eileen. Quando fosse cresciuto, avrebbe sposato Eileen. Si nascondeva sotto il tavolo. La mamma diceva: «Oh, Stephen, andrai in ginocchio.»

    Dante diceva: «Altrimenti verrà l’aquila e gli porterà via un occhio.»

    Via un occhio,

    in ginocchio,

    in ginocchio,

    via un occhio.

    In ginocchio,

    via un occhio,

    via un occhio,

    in ginocchio.

    Il gran campo da gioco sciamava di ragazzi. Tutti urlavano e i prefetti li incitavano con gran voci. L’aria della sera era pallida e fredda e dopo la carica e il tonfo dei giocatori, la sfera di cuoio infangato volava come un uccello pesante nella luce grigia. Egli si teneva sull’orlo della sua fila, fuori degli sguardi del prefetto, fuori della portata dei piedi villani, ogni tanto fingendo di correre. Si sentiva il corpo piccolo e debole tra la folla dei giocatori e aveva gli occhi deboli e acquosi. Rody Kickham non era così: sarebbe stato capitano della terza fila, dicevano tutti i compagni.

    Rody Kickham era un ragazzo per bene, ma Porco Roche una peste. Rody Kickham aveva parastinchi nel suo armadio e un cestino nel refettorio. Porco Roche aveva le mani grosse. Chiamava il pasticcio ripieno del venerdì, il cane-nella-coperta. E un giorno aveva domandato: «Come ti chiami?»

    Stephen aveva risposto: «Stephen Dedalus.»

    Allora Porco Roche aveva detto: «Che razza di nome è questo?»

    E quando Stephen non era riuscito a rispondere, Porco Roche aveva domandato: «Cos’è tuo padre?

    Stephen aveva risposto: «Un signore.»

    Allora Porco Roche aveva domandato: «È un magistrato?

    Si portava da luogo a luogo sull’orlo della sua fila, facendo qualche corserella ogni tanto. Ma aveva le mani azzurrastre per il freddo. Le teneva nelle tasche laterali del suo abito grigio cinturato. Era la cintura che gli passava sopra la tasca. E cintura era anche dare a un altro un colpo di cintura. Un compagno disse un giorno a Cantwell: «Son capace di darti una cintura in un secondo.»

    Cantwell aveva risposto: «Fatti sotto. Dà una cintura a Cecil Thunder. Vorrei vederti. Ti darebbe un piede nel sedere, tutto per te.»

    Non era una bella espressione questa. La mamma gli aveva detto di non parlare coi ragazzi maleducati, in collegio. Mammina bella! Il primo giorno nel vestibolo del castello, quando gli aveva detto addio, aveva tirato su il velo, ripiegandoselo sul naso, per dargli un bacio: e aveva il naso e gli occhi rossi. Ma lui aveva finto di non vedere che la mamma stava per piangere. Era una mamma cara, ma non più così cara quando piangeva. E il babbo gli aveva dato due monete da cinque scellini come spiccioli. E il babbo gli aveva detto che se gli fosse occorso qualcosa, scrivesse a casa a lui e, qualunque cosa facesse, mai facesse la spia a un compagno. Poi, alla porta del castello, il rettore aveva stretto la mano al babbo e alla mamma, colla sottana che palpitava nel vento, e la vettura se n’era andata con sopra babbo e mamma. Dalla vettura gli avevano gridato agitando le mani: «Addio, Stephen, addio!»

    «Addio, Stephen, addio!»

    Venne preso nel turbine di una mischia e, spaventato dagli occhi lampeggianti e dagli scarponi infangati, si piegò a guardare tra le gambe. I compagni lottavano e gemevano e le loro gambe sfregavano, si pigliavano a calci e pestavano. Poi gli scarponi gialli di Jack Lawton cavarono fuori il pallone e tutti, scarponi e gambe, gli corsero dietro. Corse un po’ dietro a loro anche lui, e poi si fermò. Era inutile continuare a correre. Presto sarebbero andati a casa per le vacanze. Dopo cena nella sala di studio avrebbe cambiato da settantasette a settantasei il numero appiccicato nell’interno della scrivania.

    Sarebbe stato meglio essere nella sala di studio che non là fuori nel freddo. Il cielo era pallido e freddo, ma nel castello c’erano luci. Si chiese da quale finestra Hamilton Rowan aveva gettato il cappello sulla siepe e se c’erano aiuole a quei tempi sotto le finestre. Un giorno che era stato chiamato al castello, il maggiordomo gli aveva mostrato i segni delle pallottole dei soldati nel legno della porta e gli aveva dato un pezzo del biscotto che mangiava la comunità. Dava calore veder le luci nel castello. Era come qualcosa in un libro. Forse l’abbazia di Leicester era così. C’erano belle frasi nel Libro di Pronuncia del dottor Cornwell. Parevano poesie, ma erano solo frasi per imparare la pronuncia.

    Wolsey morì nell’abbazia di Leicester

    dove gli abati lo seppellirono.

    Il canker è una malattia delle piante,

    il cancer una degli animali.

    Sarebbe stato bello stendersi sul tappeto davanti al fuoco, appoggiando la testa sulle mani, e pensare a quelle frasi. Rabbrividì, come a sentirsi acqua fredda e motosa sulla pelle. Era stato vile da parte di Wells farlo cadere nella fossa quadra perché lui non voleva scambiare la sua piccola tabacchiera con la castagna secca di Wells, vincitrice di quaranta partite. Come era stata fredda e motosa quell’acqua! Un suo compagno aveva veduto una volta saltare nella schiuma un grosso topo. La mamma stava seduta al fuoco insieme a Dante, aspettando che Brigid portasse il tè. Teneva i piedi sul parafuoco e le sue pantofole ingioiellate erano così calde e avevano un così buon profumo tiepido! Dante sapeva una quantità di cose. Gli aveva insegnato dov’era il canale di Mozambico e qual era il fiume più lungo dell’America e che nome aveva la montagna più alta della luna. Padre Arnall ne sapeva più di Dante perché era un sacerdote, ma tanto il babbo che lo zio Charles dicevano che Dante era una donna molto intelligente e istruita. E quando Dante faceva quel rumore dopo pranzo portandosi subito la mano alla bocca, era l’acidità di stomaco.

    Una voce gridò lontano, sul campo da gioco: «Si rientra!»

    Allora altre voci gridarono dalla fila inferiore e dalla terza fila: «Si rientra! Si rientra!»

    I giocatori si strinsero insieme, eccitati e infangati, e Stephen andò con loro, contento di rientrare. Rody Kickham teneva il pallone per il cordino sporco. Un compagno gli domandò di dargli ancora un calcio; ma l’altro camminò innanzi senza nemmeno rispondergli. Simon Moonan disse di non farlo perché il prefetto guardava. Il compagno si volse a Simon Moonan e disse: «Sappiamo tutti perché parli. Sei il ciuccio di McGlade.»

    Ciuccio era una parola strana. Il compagno dava quel nome a Simon Moonan, perché Simon Moonan usava legare al prefetto le false maniche dietro la schiena e il prefetto fingeva di prendersela. Ma la parola suonava male. Una volta Stephen si era lavate le mani nel lavabo dell’albergo Wicklow e poi suo padre aveva alzato il tappo per la catenella e l’acqua sporca era andata giù per il buco della vaschetta. E quando era andata giù tutta, lenta, il buco della vaschetta aveva fatto un suono così: ciuccio. Solo, più forte.

    Ricordare questo e il color bianco del lavabo, gli faceva sentir freddo e poi caldo. C’erano due rubinetti che si giravano e veniva fuori l’acqua: fredda e calda. Sentiva freddo e poi un po’ di caldo: e vedeva i nomi stampati sui rubinetti. Era una cosa molto strana.

    Anche l’aria nel corridoio lo gelava. Era strana e umidiccia. Ma presto avrebbero acceso il gas e questo bruciando faceva un rumore leggero come una canzoncina. Sempre la stessa: e quando i compagni nella sala da gioco cessavano di parlare, si poteva sentirla.

    Era l’ora dei calcoli. Padre Arnall scriveva sulla lavagna un calcolo difficile: «Su ora, chi vincerà? Avanti, York! Avanti, Lancaster!»

    Stephen faceva del suo meglio, ma il calcolo era troppo difficile e lui si confondeva. Il piccolo distintivo di seta con la rosa bianca, appuntato sul petto della giacca, cominciava a tremolare. Non valeva molto lui nel calcolo, ma faceva del suo meglio perché York non dovesse perdere. Padre Arnall aveva una faccia scura, ma non era irritato: rideva. Poi Jack Lawton schioccava le dita e padre Arnall gli guardava il quaderno ed esclamava: «Giusto. Bravo Lancaster! La rosa rossa ha vinto. Su ora, York! Forza!»

    Jack Lawton dava un’occhiata dalla sua parte. Il piccolo distintivo di seta appariva molto ricco perché aveva una punta azzurro-marinaio. Stephen si sentiva rossa anche la faccia, pensando a tutte le scommesse su chi sarebbe riuscito primo nella classe degli elementi, Jack Lawton o lui. Certe settimane guadagnava Jack Lawton il biglietto di primo e certe settimane lo guadagnava lui. Il distintivo di seta bianca tremolava, tremolava sempre, mentre Stephen lavorava al calcolo successivo e gli giungeva la voce di padre Arnall. Poi tutta la sua gran voglia se n’andava e si sentiva la faccia freddissima. Pensava che doveva aver la faccia bianca, tanto se la sentiva fredda. Non riusciva a trovare la soluzione del calcolo, ma non importava. Rose bianche e rose rosse: era bello pensare a questi colori. Anche i biglietti di primo, secondo e terzo della classe avevano bei colori: rosa, crema e lavanda. Era bello pensare a rose lavanda, crema e rosa. Forse una rosa selvatica poteva prendere questi colori e Stephen ricordava la canzone intorno ai fiori di rosa selvatica nel verde giardinetto. Ma una rosa verde non si trovava. Ma forse in qualche luogo nel mondo, sì.

    Suonò la campana e le classi cominciarono a sfilare dalle stanze giù per i corridoi verso il refettorio. Sedette guardando le due forme di burro nel suo piatto, ma non riusciva a mangiare il pane umido. La tovaglia era umida e floscia. Trangugiò tuttavia il debole tè caldo che lo sguattero, cinto di un grembiale bianco, gli versò goffamente nella tazza. Era incerto se il grembiale dello sguattero fosse anch’esso umido o se fossero fredde e umide tutte le cose bianche. Porco Roche e Saurin bevevano cacao, che ricevevano in scatole da casa. Dicevano che loro non potevano bere quel tè; che quella era lavatura di piatti. Avevano i padri magistrati, dicevano i compagni.

    Tutti i ragazzi gli parevano molto strani. Avevano tutti padri e madri, e abiti e voci differenti. Anelava di essere a casa e di posare la testa in grembo alla mamma. Ma non poteva: e così anelava che il gioco, lo studio e le preghiere fossero finiti ed egli fosse a letto.

    Bevette un’altra tazza di tè caldo e Fleming disse: «Cosa c’è? Hai male o cos’hai?»

    «Non so» disse Stephen.

    «Male allo stomaco,» disse Fleming «perché hai la faccia bianca. Andrà via.»

    «Oh, sì» disse Stephen.

    Ma non era lì che aveva male. Pensava che aveva male al cuore, se è possibile aver male al cuore. Fleming era stato molto gentile a domandarglielo. Aveva voglia di piangere. Appoggiò i gomiti sul tavolo e chiuse e aprì i padiglioni delle orecchie. Sentiva il rumore del refettorio ogni volta che apriva i padiglioni. Faceva un rombo come un treno di notte e quando chiudeva i padiglioni il rombo cessava, come quando un treno entra in una galleria. Quella notte a Dalkey il treno aveva rombato così e poi, quand’era entrato nella galleria, il rombo era cessato. Chiuse gli occhi e il treno andò innanzi, rombando e poi cessando; rombando di nuovo, cessando. Era bello sentirlo rombare e cessare e poi, fuori della galleria, tornare a rombare e poi cessare.

    Allora i compagni della fila superiore cominciarono a venir giù per la stuoia nel mezzo del refettorio, Paddy Rath e Jimmy Magee e lo spagnolo che aveva il permesso di fumare i sigari e il piccolo portoghese che portava il berretto di lana. Poi, le tavole della fila media e le tavole della terza fila. E ciascun compagno aveva un modo di camminare diverso.

    Stephen sedeva in un angolo della sala da gioco fingendo di osservare una partita a domino e una volta o due poté sentire per un istante la canzoncina del gas. Il prefetto era sull’uscio con alcuni ragazzi e Simon Moonan gli legava le false maniche. Raccontava loro qualcosa di Tullabeg.

    Poi se ne andò dall’uscio e Wells si avvicinò a Stephen e disse: «Dimmi, Dedalus, baci la mamma prima di andare a letto?»

    Stephen rispose: «Sì.»

    Wells si volse agli altri e disse: «Oh, dico, qui c’è un tale che bacia la mamma tutte le notti prima di andare a letto.»

    I compagni lasciarono il gioco e si volsero ridendo. Stephen arrossì sotto i loro sguardi e disse: «No.»

    Wells disse: «Oh, dico, qui c’è un tale che non bacia la mamma prima di andare a letto.»

    Di nuovo risero tutti. Stephen tentò di ridere con loro. Si sentì in un istante tutto il corpo caldo e confuso. Qual era la risposta giusta alla domanda? Ne aveva date due, eppure Wells rideva. Ma Wells doveva saperla la risposta giusta, perché lui era in terza di grammatica. Cercò di pensare alla mamma di Wells, ma non osò alzargli gli occhi in faccia. Non gli piaceva la faccia di Wells. Era Wells che l’aveva fatto cadere nella fossa quadra il giorno prima perché lui non voleva scambiare la sua piccola tabacchiera colla castagna secca di Wells, vincitrice di quaranta partite. Era stata una viltà; tutti i compagni lo avevano detto. Com’era fredda e motosa quell’acqua! E un compagno aveva veduto una volta saltare «ciac!» nella schiuma un grosso topo.

    La mota fredda della fossa gli copriva tutto il corpo; e quando suonò la campana per lo studio e le file uscirono dalle sale da gioco, si sentì dentro gli abiti l’aria fredda del corridoio della scala. Cercò ancora di pensare quale fosse la risposta giusta. Si poteva baciare la mamma o non si poteva baciare la mamma? Che cosa voleva dire, baciare? Si alzava la faccia così per dire buona notte, e allora la mamma abbassava la faccia. Era così, baciare. La mamma gli metteva le labbra sulla guancia; le labbra erano morbide e gl’inumidivano la guancia; e facevano un piccolo rumore leggero: bacio. Perché la gente faceva così con la faccia?

    Seduto nella sala di studio, aprì il coperchio della scrivania e cambiò il numero, appiccicato all’interno, da settantasette a settantasei. Ma le vacanze di Natale erano molto lontane: eppure sarebbero venute una buona volta perché la terra girava sempre.

    C’era una figura della terra sulla prima pagina del suo libro di geografia: una grossa palla in mezzo a nuvole. Fleming aveva una scatola di pastelli e una sera durante le ore di studio libero aveva colorato la terra in verde e le nuvole in marrone. Era come le due spazzole nell’armadietto di Dante, la spazzola col dorso di velluto verde per Parnell e la spazzola col dorso di velluto marrone per Michael Davitt. Ma non l’aveva detto lui a Fleming di colorarle con quei colori. Fleming l’aveva fatto da sé.

    Aprì la geografia per studiare la lezione; ma non riusciva a imparare il nome dei luoghi dell’America. Pure erano tutti luoghi differenti, che avevano nomi differenti. Erano tutti in paesi differenti e i paesi erano in continenti e i continenti erano nel mondo e il mondo era nell’universo.

    Ritornò alla risguardia del libro e lesse quel che vi aveva scritto lui stesso: il suo nome e il luogo dove si trovava.

    Stephen Dedalus

    Classe degli elementi

    Collegio di Clongowes Wood

    Sallins

    Contea di Kildare

    Irlanda

    Europa

    Mondo

    Universo

    Questo era nella sua calligrafia: e Fleming una notte per scherzo scrisse nella pagina opposta:

    Stephen Dedalus è il mio nome,

    L’Irlanda la mia nazione.

    Clongowes è la mia abitazione

    E il cielo la mia aspettazione.

    Lesse i versi all’indietro, ma così non erano poesia. Allora lesse la scritta della risguardia dal fondo alla cima finché arrivò al suo nome. Quello era lui: e rilesse la pagina all’ingiù. Che cosa c’era dopo l’universo? Nulla. Ma che non ci fosse, dopo l’universo, qualcosa per mostrare dove esso finiva, prima che cominciasse lo spazio del nulla? Non poteva essere una parete, ma ci poteva esser là una linea sottile, tutt’intorno a ogni cosa. Era una faccenda grossa pensare a tutte le cose e a tutti i luoghi. Soltanto Dio poteva farlo. Cercò di pensare che gran pensiero doveva esser questo, ma non riuscì a pensare che a Dio. Dio era il nome di Dio, appunto come il suo era Stephen. Dieu era Dio in francese e anche questo era il nome di Dio; e quando qualcuno pregava Dio e diceva « Dieu », allora Dio capiva subito che un francese parlava. Ma quantunque ci fossero nomi differenti per chiamar Dio in tutte le diverse lingue del mondo e Dio comprendesse ciò che tutti quelli che pregavano dicevano nelle loro lingue diverse, pure Dio rimaneva sempre lo stesso Dio e il nome vero di Dio era Dio.

    Lo stancava molto pensare così. Gli faceva venire la testa grossa. Voltò la risguardia e guardò svogliatamente la terra verde e tonda in mezzo alle nuvole marrone. Si domandò che cosa fosse giusto, stare per il verde o per il marrone, perché Dante un giorno aveva strappato colle forbici il dorso di velluto verde dalla spazzola di Parnell e gli aveva detto che Parnell era un uomo cattivo. Si chiese se a casa discutevano ancora di questo. Questo si chiamava la politica. C’erano due parti: Dante era da una parte e il babbo e il signor Casey dall’altra, ma la mamma e lo zio Charles non erano da nessuna parte. Tutti i giorni c’era qualcosa di politica, nel giornale.

    Lo faceva soffrire non saper bene che cosa voleva dire la politica e non sapere dove finiva l’universo. Si sentiva piccolo e debole. Quando sarebbe stato anche lui come i compagni delle classi di poesia e di retorica? Quelli avevano voci grosse e scarpe grosse e studiavano la trigonometria. Era una cosa molto lontana. Prima venivano le vacanze e poi l’altro trimestre e poi di nuovo le vacanze e poi di nuovo un altro trimestre e poi di nuovo le vacanze. Era come un treno che entra ed esce per le gallerie e questo somigliava al rumore dei ragazzi che mangiavano nel refettorio, quando ci si apriva e chiudeva i padiglioni delle orecchie. Trimestre, vacanze; galleria, fuori; rumore, chiuso. Com’era lontano! Era meglio andar a letto a dormire. Soltanto le preghiere nella cappella e poi il letto. Rabbrividì e sbadigliò. Sarebbe stato bello in letto, dopo che le lenzuola fossero un po’ riscaldate. Da principio erano così fredde a entrarvi. Rabbrividì a pensare com’erano fredde in principio. Ma poi si riscaldavano e allora si poteva dormire. Era bello essere stanco. Sbadigliò di nuovo. Le preghiere della notte e poi il letto: rabbrividì e sentì voglia di sbadigliare. Sarebbe stato bello, tra pochi minuti. Sentì un tepore caldo strisciar su dalle fredde lenzuola agghiacciate, sempre più caldo, finché si sentì caldo dappertutto, straordinariamente caldo, e pure rabbrividì un poco e ancora aveva voglia di sbadigliare.

    Suonò la campana della preghiera per la notte e Stephen uscì dalla sala di studio in fila dopo gli altri, giù per la scala e lungo i corridoi verso la cappella. I corridoi erano male illuminati e la cappella era male illuminata. Presto tutto sarebbe stato buio e addormentato. C’era una fredda aria notturna nella cappella e i marmi avevano il colore che ha il mare di notte. Il mare era freddo giorno e notte: ma di notte era più freddo. Era freddo e buio sotto la gettata vicino alla casa di suo padre. Ma ci doveva essere sul fuoco il pentolino per preparare il punch .

    Il prefetto della cappella gli pregava sul capo e la sua memoria conosceva le risposte:

    O Signore, apri le nostre labbra

    e le nostre bocche annunzieranno la Tua lode.

    Chinati in nostro aiuto, o Signore!

    O Signore, affrettati ad aiutarci!

    C’era un freddo odore di notte, nella cappella. Ma era un odore santo. Non era come l’odore dei vecchi contadini che si inginocchiavano in fondo alla cappella alla messa domenicale. Quello era un odore di aria, pioggia, torba e fustagno. Ma erano contadini veramente santi. Gli respiravano dietro sulla nuca, e pregando mandavano sospiri. Vivevano a Clane, diceva un compagno: c’erano piccole case là e Stephen aveva veduto una donna in piedi con un bambino in braccio, a una porta nel vano di un battente, mentre le vetture passavano venendo da Sallins. Sarebbe bello dormire per una notte in quella casa davanti al fuoco di torba fumante, nel buio illuminato dal fuoco, nel buio caldo, respirando l’odore dei contadini, aria pioggia torba e fustagno. Ma, oh! la strada là tra gli alberi era buia. Ci si sarebbe perduti nel buio. Lo atterriva pensare quanto era buio.

    Sentì la voce del prefetto della cappella dire l’ultima preghiera. La disse anche lui per difendersi dal buio esterno sotto gli alberi.

    Noi T’imploriamo, o Signore, visita questa dimora e scacciane ogni insidia del nemico. Che i Tuoi angeli santi possano restare qui a preservarci in pace e la Tua benedizione possa essere sempre sopra di noi nel nome di Cristo Nostro Signore. Amen.

    Le dita gli tremavano mentre si spogliava nel dormitorio. Disse alle dita di far presto. Doveva spogliarsi e poi inginocchiarsi e dire le sue preghiere personali e trovarsi in letto prima che il gas venisse abbassato, per non andare all’inferno quando fosse morto. Si srotolò via le calze, si mise in fretta la camicia da notte e s’inginocchiò tremando al lato del letto e ripeté in fretta le preghiere, temendo che il gas s’abbassasse. Sentì che le spalle gli rabbrividivano mentre mormorava:

    Dio, benedici il babbo e la mamma e conservameli!

    Dio, benedici i miei fratellini e le mie sorelline e conservameli!

    Dio, benedici Dante e lo zio Charles e conservameli!

    Si segnò e si arrampicò in fretta nel letto, e, avvolgendosi il fondo della camicia da notte sotto i piedi, si raggomitolò tutto sotto le lenzuola bianche e fredde, rabbrividendo e tremando. Ma non sarebbe andato all’inferno quando fosse morto; e i brividi sarebbero cessati. Una voce augurò ai ragazzi del dormitorio buona notte. Stephen sbirciò fuori un istante sopra la coperta e vide le tendine gialle intorno e davanti al letto chiuderlo da tutte le parti. La luce venne abbassata chetamente.

    I passi del prefetto se n’andarono. Dove? Giù per la scala e lungo i corridoi o alla sua camera in fondo? Vide il buio. Era vero di quel cane nero che girava là di notte, con occhi grossi come lanterne di carrozza? Dicevano che era il fantasma di un assassino. Un lungo brivido di paura gli passò per il corpo. Vide l’oscuro salone d’entrata del castello. Vecchi servitori in vecchi abiti erano nel guardaroba al disopra della scala. Era tanto tempo fa. I vecchi servitori stavano quieti. C’era un fuoco lassù, ma il salone era sempre buio. Una figura saliva per la scala, dal salone. Vestiva il mantello bianco di maresciallo; aveva un volto pallido e strano; si teneva la mano premuta sul fianco. Fissava con occhi strani i vecchi servitori. Questi lo guardavano e

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