Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare
L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare
L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare
E-book279 pagine4 ore

L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dio vi benedica era la formula rituale con la quale i malati salutavano il dottore sia all’arrivo che al momento del commiato. Un mestiere ben remunerato quello del medico condotto che, oltre all’alta considerazione di tutti i paesani, godeva anche di regali, tra cui molte cibarie.
Vittorio, dopo le frenesie giovanili, decide di iscriversi alla facoltà di Medicina. Una scelta azzeccata la sua, visto che nell’arco di qualche anno si ritroverà a fare il medico, vero e proprio punto di riferimento per tutti. I problemi non mancano in quegli anni del dopoguerra, soprattutto al Sud, costretto a risollevarsi sia dalle macerie della guerra sia da un ritmo di vita legato alle tradizioni contadine. Ma di cose ne succedono tante e il tempo cambia via via le persone e le loro vite.
L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare racconta storie che coprono un arco temporale che va dal 1938 al 1993 e che restituiscono il quadro di un’Italia in profonda trasformazione, animata da facili entusiasmi e spesso vittima di se stessa.

Giuseppe Castrillo ha studiato presso la Federico II di Napoli. Dopo aver insegnato nei Licei e negli Istituti Tecnici, ha diretto scuole a Piacenza, Guarcino e Piedimonte Matese dove tuttora vive e collabora con la casa Editrice Teleion-Cultura. Si è dedicato alla poesia del Novecento ( G. Castrillo-A. Cerbo, Letture e progetti di lettura. Luzi-Sereni-Bassani-Fortini); si è interessato agli sviluppi della Letteratura Italiana, nel passaggio dal Settecento all’ Ottocento ( R. Sirri- G. Castrillo, Attese e proposte della cultura fra Sette e Ottocento); ha studiato la poesia di  Vincenzo Monti (La metafora in Vincenzo Monti). Nel corso dell’attività di dirigente scolastico  a Piacenza ha organizzato il convegno di studi su  Gianni Rodari (Giocar, parlar narrando. Rodari e la fantastica), e vi ha tenuto una relazione dal titolo  Errori, bugie, distrazioni. Strategie di lettura. Ha partecipato al Festival del diritto 2011, con un intervento sull’uso delle tecnologie informatiche nella scuola del I ciclo. Un suo racconto è risultato vincitore del Premio Letterario Nazionale Festival dell’Erranza 2020 dedicato alla Transumanza. Ha pubblicato, con Aletti Editore, Recisioni e suture. Taccuino del trito sentire, una raccolta di liriche che coprono circa un quarantennio di vita. Sta raccogliendo le sue relazioni, conferenze e prefazioni in un volume collettivo e sta completando una  pubblicazione   sul teatro minore di tardo Rinascimento nel Meridione d’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2021
ISBN9791220114554
L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare

Correlato a L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L’ora tinta. Piccolo prontuario di medicina familiare - Giuseppe Castrillo

    Prima Parte

    Al fiume

    ¹

    … il Volturno vagabondo e sdegnoso…

    lo costrinse nel retto corso e vietò

    che... innanzi per le sue gonfiezze e sboccamenti

    le vicine campagne inondasse.

    Ottavio Rinaldo

    Il fiume saggiava e distingueva i ragazzi: quelli che sapevano nuotare e gli altri che lo guardavano a distanza, quasi impauriti dai suoi pericoli: primi fra tutti i mulinelli; poi la cupa, un improvviso sprofondamento del letto fluviale, che si apriva a voragine sotto il ventre dei nuotatori. I ragazzi arrivavano a frotte, durante la bella stagione. Sulle loro biciclette, senza freni, senza luci, percorrevano la strada bianca di polvere, incuranti delle forature che avrebbero riparato al momento, imprecando, con il mastice e la pezza di caucciù che portavano in una rudimentale borsetta degli attrezzi, sotto il sellino. Arrivavano alla controra, quando l’acqua era più calda. Si calavano i pantaloni che piegavano sulla ripa, e giù a capofitto. Il sole riluceva sulla pelle color cuoio degli adolescenti che si erano arrostiti andando a giornata dietro i muratori e che ostentavano la loro muscolatura nervosa, tirata come le redini di un cavallo di cui, all’improvviso, bisognava arrestare la corsa.

    Figli di operai avevano i nomi del posto: Ràchiu, ‘Ntóniu, Cìcciu, Màriu, Pascalìnu². Quelli che studiavano mostravano le loro carni opache, le spalle incurvate, i glutei mollicci. Passate le fatiche dei libri, cominciavano le vacanze al fiume. Qualcuno doveva riparare: era stato rimandato a settembre. Studiava la mattina e il pomeriggio correva al Parco. Si chiamava così quell’ansa dove ci si poteva bagnare. Giorgio, Enrico Maria, Gerardo, Arcangelo, Corrado, Goffredo: i nomi, poco usati, erano già un segno di demarcazione. Sulle sponde del fiume, il dialetto era la lingua ufficiale; nell’acqua, invece, l’ardimento, la destrezza, lo stile erano gli unici titoli nobiliari che ciascuno poteva vantare a dispetto dell’origine.

    Venivano anche i ragazzi che non sapevano nuotare. Invidiosi di tanto coraggio e di tanta abilità sfrontata, compunti guardavano i compagni sbracciare nel fiume, scomparire sott’acqua e poi riapparire dopo un’apnea che metteva paura. Gli spettatori tremebondi fissavano l’acqua abbacinati dai riverberi; stazionavano sulla ripa alta, mentre la corrente, che filava ritta e veloce, frenava anche i più esperti che stavano per lanciarsi. Vittorio non aveva mai nuotato, in questo era uguale al padre. Il fiume confinava con un loro podere, il Parco. Quando vi arrivava, orgoglioso della sua bicicletta nera, che non avrebbe prestato mai a nessuno, una Wolsit, comprata dal padre al ritorno dalla guerra, si sentiva il padrone del fiume. Un poco lo era. Il Volturno fluiva gravido dopo il ponte dei Quattroventi e lambiva il terreno del camerata, con la sua corrente sorniona che sembrava dire: «Un bel giorno ti faccio il servizio». A volte, quando la piena era impetuosa, il fiume azzannava interi appezzamenti di terra, li portava all’altra sponda, e i proprietari perdevano ogni diritto. Perciò il ragazzo non amava il fiume. Perdere quel pezzo di terra significava non raccogliere e non vendere più i pomodori. Il terreno si estendeva per due ettari e il raccolto bastava anche a comprare i libri per il liceo. E forse anche per l’università, in futuro.

    Posata la Wolsit tra gli sterpi, il giovane si inoltrò non lontano dal fiume, in un viottolo dove l’acqua ristagnava in piccoli acquitrini. Cercava le rane. Aveva studiato che sezionandole, come aveva fatto Galvani, si poteva scoprirne l’elettricità. Si arrotolò i calzoni fino alle ginocchia; si abbassò per catturare una rana, affondando le mani nell’acqua verdastra. La piccola preda gli sfuggì guizzando tra le dita. Ritentò con un altro anfibio, ma questo fu più lesto di lui. Di lontano arrivavano le grida felici dei ragazzi che sguazzavano levando schizzi fin sopra la ripa. Vittorio era un ragazzo tenace; aveva deciso di tornare a casa con il suo bottino palustre e di scriverci su una relazione.

    A un tratto scivolò su di una pietra coperta di muschio, e cadde nella pozzanghera facendo sfrecciare via le rane impaurite. Si sentì una risata fragorosa, seguita dallo scroscio di un applauso. Ormai tutti avrebbero riso di lui. Nessuno doveva ridere di lui. Fin da bambino era stato un tipo duro, uno scalmanato, pronto alle sfide più impensate, come quando aveva cercato di lanciarsi da un ciglio all’altro della strada mentre passava un’auto in corsa, col risultato che era finito sotto le sue ruote e per poco non ci aveva rimesso la pelle. Ma quella era stata una bravata che gli aveva guadagnato il rispetto dei suoi coetanei. Al fiume invece si era reso ridicolo, specie per quella sua spocchia da giovane scienziato. Era cambiato Vittorio. In paese, nessuno della sua generazione si chiamava così. Era per la vittoria nella Grande Guerra. Anche il secondo e il terzo nome erano un tributo a chi aveva combattuto e vinto: Ugo, come il generale Giardino, Armando come il comandante Diaz. Non era più il ragazzo ribelle, il ragazzaccio dispettoso e manesco che tutti cercavano di evitare. Ma gli era rimasta la superbia, l’albagia di chi mordeva il freno e pensava che la vita fosse in debito con lui. Si volse indietro per vedere chi aveva riso. Sembrava più alto di quel che era: smilzo, gli occhialini di ferro, il ciuffo nero di capelli, una lieve peluria sul volto, due labbra sottili, un viso smunto, quasi emaciato.

    Lo conosceva bene. Era di sopra. Di sopra il paese. Un’altra distinzione: o si era di sopra, la parte alta del paese, o si era di sotto, la parte bassa del paese. Peppino era di sopra. A lui piaceva pescare. Aveva abbandonato la compagnia dei ragazzi che erano corsi al fiume per fare il bagno e, con la sua canna, stava cercando un posto silenzioso dove lanciare l’amo e aspettare un’improbabile trota. Quasi mai tornava a casa con qualcosa. Ma era uno sportivo: gli piaceva l’attesa mentre meditava, o pensava alla sua Ambrosiana diventata Inter. Club di signori. Era pazzo per l’inglese che non andava giù al fascismo, per la squadra di Ferrari, di Frossi e di Meazza che gli piaceva, ma non per quel nomignolo, Il balilla, che evocava le purghe, il nero delle camicie, il fez, il confino. Era l’anno dello scudetto, dei mondiali vinti a Parigi. E sarebbe stato l’anno delle leggi razziali in Italia. Vittorio non tifava per nessuno. Lui era solo per il duce. L’altro, lo sportivo, leggeva Salvemini e Gobetti. Quel poco che circolava clandestinamente e che aveva trovato nel baule dei libri di suo padre.

    Il giovane avanguardista guardava il filosofo da una prospettiva, per lui, poco dignitosa: dal basso verso l’alto, i calzoni inzaccherati, la camicia bianca sporca di muschio, e soprattutto l’onta impressa sul volto. «Su, dammi la mano, che ti aiuto ad alzarti». Avrebbe fatto volentieri a meno di quel sostegno. Sulla linea delle labbra di Peppino correva un sorriso indistinto, quasi senza senso. Vittorio era in piedi e si stava nettando con il fazzoletto del ragazzo di sopra.

    «Era per l’esperimento, che Steiner pretende come compito per le vacanze». «Il tuo professore è un crucco?». «Non proprio; è un triestino di origine austriaca che ha sposato una napoletana e si è trasferito a Caserta. Un tipo tosto, rigido, fissato con le Scienze e con le prove in laboratorio». «Per compiacerlo catturavi le povere rane». «No! È perché sono cattivo e mi piace torturare le vittime innocenti!» «Proprio come i fascisti! E tu sei il figlio del camerata». Vittorio, già umiliato per non aver agguantato nessuna rana e per il tonfo nella pozzanghera, non ci vide più. Gli sferrò un pugno. Gli occhiali volarono via, nel fango. L’altro non reagì: «Sono per la non violenza, e a differenza di te, io ragiono, penso, dubito: cogito ergo sum». Il giovane avanguardista non ribatté, raccolse gli occhiali e li pulì con la sua camicia. «Come sei venuto al fiume?» chiese, porgendo le lenti al giovane. «Ho approfittato di un passaggio sul calesse dell’arciprete». «Ti andrebbe di tornare con me sulla cannola della mia bicicletta». «Ce la fai?» «Vedrai». Camminarono insieme verso il fiume. Peppino, quel giorno, non avrebbe saldato il conto che aveva con le trote. Vittorio gli fece compagnia, sdraiato sul prato del suo terreno pensando che i conti doveva farli con la madre e spiegare perché fosse tornato a casa con i vestiti imbrattati di fango.

    Il sole aveva smorzato la sua vampa elettrica. Dal fiume non arrivavano più gli schiamazzi dei nuotatori. Imbruniva. L’acqua rullava quasi mossa da una turbina, aveva un brunito colore di pece che preannunciava la sera. I due ragazzi si mossero in silenzio. Uno sedeva sul tubo orizzontale della bicicletta, l’altro pedalava. Il ciclista arrivò con la lingua da fuori, il passeggero con il bacino dolorante. «Portati la bici, me la restituirai domani, sempre se ce la fai a pedalare fino alla piazza». Era lo slargo che si apriva prima di Sant’Eraclio e del Palazzo della Duchessa di Corigliano, dopo una salita di due chilometri. Il centro del mondo, o del villaggio, per i ragazzi di sopra. La meta dei ragazzi di sotto, quando si usciva per corteggiare le ragazze.

    Vittorio aveva ricevuto una lezione. Gli bruciava che a dargliela era stato un ragazzo di sopra; gli bruciava che l’altro se ne era uscito con una battuta da grande pensatore. Volle manifestargli tutta la sua liberalità: «Puoi tenerla anche domani, così andrai al seminario diocesano per la tua ripetizione di latino». Avevano bucato entrambi la promozione piena. Il crucco aveva segnato un bel quattro nella casella delle Scienze Naturali, e il Padre Guardiano del convento di San Pasquale non si era fatto impietosire dal dieci in filosofia e storia e aveva dettato: «Quattor» all’amanuense degli scrutini finali.


    1 Comparso sul Primo Volume nell’Antologia Teleion, con il titolo Il fiume.

    2 Eraclio, Antonio, Ciccio diminutivo di Francesco, Mario, Pasqualino.

    La lettera di Pirandello

    Non dovrei esserci. T’assicuro però che mi sforzo,

    quanto più posso, d’esserci il meno possibile,

    e non solo per gli altri, ma anche per me stesso.

    La colpa è del fatto, caro mio! Sono nato.

    E quando un fatto è fatto, resta là,

    come una prigione per te. Io ci sono.

    Ne dovrebbero tener conto gli altri, almeno

    per quel poco, di cui non posso fare a meno,

    dico d’esserci.

    Luigi Pirandello

    Era nata giù al fiume la loro amicizia, che poi si era sviluppata in indelebile attrazione. Il dolore, specie se provato quando si è ancora ragazzini, rende solidali, a differenza della gioia. Il dolore è un sentire rappreso come magma solidificato, è una secrezione vischiosa che lascia un ricamo cicatrizzato sull’anima; la gioia svapora appena dopo un’esaltazione compulsiva. Il loro dolore era stato acerbo. Il padre di uno dei due era stato colpito da un errore giudiziario. Grave. Diciannove mesi di galera. Per fortuna riparato in tempo. L’altro aveva avuto una dolorosissima perdita familiare che si era trascinata un calvario indicibile nell’animo.

    Dopo lo scontro tra le paludi acquitrinose del Volturno, dove si erano rinfacciati le loro fedi politiche, avevano cominciato a passare qualche ora insieme. Era l’età in cui si abbandonano i compagni delle elementari e ci si stringe in giunture più adulte. Non è più il gioco a costruire l’equilibrio dei rapporti, molto c’entra la comunanza spirituale, la ricerca di una consonanza affettiva meno effimera.

    Nei mesi estivi racimolavano una bicicletta e pedalavano per le terre che un tempo avevano ospitato le vigne dei Mormile o scendevano scapicollandosi a Vairano P. per risalire con il fiatone e il vento in faccia. Durante l’inverno si vedevano poco: espatriavano. Uno in seminario, l’altro a pensione per gli studi liceali.

    Vittorio, a Caserta, viveva presso la famiglia di un impiegato che aveva quattro figlie femmine. Erano più piccole di lui e lo guardavano come si può guardare uno grande, ammirate e forse innamorate, ma il giovane non si faceva distrarre. L’ultima delle sorelle era proprio una bambina: Gigliola. Un nome che nessuna ragazza di P. avrebbe mai portato. Facevano a gara a chi, dopo pranzo, dovesse portargli il caffè nella cameretta in cui dormiva e studiava. Meno di nove metri quadrati e una finestra che dava nel giardino di una casa signorile con i tetti che sporgevano con prolungamenti in legno e facevano ombra a un decoro di affreschi che orlavano il fastigio delle mura.

    Per quelle ragazze era il nostro moretto. Loro erano bionde e fulgide, tanto che non sembravano meridionali. Il loro cognome tradiva un’origine lombarda, bergamasca. Il papà aveva percorso la penisola da sopra a sotto. Quando era ancora un ragazzone col pizzetto fulvo, appena dopo la Grande Guerra, col brevetto di meccanico dell’aviazione militare, e con la passione per il volo, era arrivato a Caserta ma era finito a lavorare come spedizioniere nei depositi dell’Accademia di Aeronautica, e poi al Comune di Caserta.

    Anche il padre di Peppino veniva da un’altra parte della penisola. A P. si era sposato perché lì aveva trovato un buon lavoro nell’amministrazione pubblica e soprattutto una signorina di buona famiglia si era presa cura di lui. Le passioni di Peppino erano i fumetti e il calcio. A casa dalle zie insegnati arrivavano Il Corriere dei Piccoli, L’Avventuroso e Il Monello. Il pallone, come dicevano i paesani che volevano intendere il gioco del calcio, gli sembrava l’allegoria dell’esistenza: tutti insieme a gettare la palla in rete, anche se poi uno solo era quello che la metteva dentro. Per lui, l’importante era solo la forza del collettivo, come si dice oggi.

    I due ragazzi si vedevano nelle sere d’estate. Tutti i giovani della Taverna che studiavano, al liceo o all’università, di sera salivano sopra, in Piazza. Era finita la fase delle risse tra i ragazzini di sopra e di sotto, quando i castellani se le davano di santa ragione, nei campi di fave e di lupini, con i tavernari³ sempre scarsi di numero ma non di torace. Ormai erano entrati nell’età delle discussioni politiche, calcistiche, e delle dispute ciclistiche. A P., quando si parlava di bicicletta, Bartali non aveva rivali, erano tutti per lui, e del resto tutti tifavano Napoli, o quasi. Vittorio non amava il calcio, gli piaceva inventare, lavorare con le mani, costruire congegni elettrici. Con i pezzi raccattati qua e là nelle botteghe dei meccanici e dal carretto del ferrovecchio, che girava di paese in paese, aveva costruito un faro, lo aveva montato sul terrazzo di casa, per illuminare in una specie di cono, come quelli che si usano a teatro, Monte Maggiore, la montagna che fronteggiava P.

    Peppino era più meditativo, Vittorio un impulsivo. I due si contemperavano, anche quando litigavano per la politica. Alla fine si dichiaravano reciproco rispetto, concludendo che avevano a cuore le sorti d’Italia, consapevoli che loro due proprio non potevano fare niente. Sul finire di quell’estate, non si era ancora in guerra, avevano preso a discutere delle leggi razziali, ormai arrivate anche da loro, della disoccupazione che spingeva i ragazzi a partire per la guerra di Spagna, dell’incredibile autoinsufficienza economica come la definiva Peppino, caustico e fustigatore. Vittorio era costretto all’angolo. Non aveva argomenti. Anche a lui l’imbianchino non piaceva, e lo poneva in buona compagnia col Primo Ministro inglese e con il re, nonché imperatore, degli Italiani. Per lui Borboni e Savoia erano tutti della stessa razza. Teste coronate e nobili incartapecoriti nelle pergamene che li autorizzavano a possedere terre, intere regioni, diritti. Erano loro che avevano ridotto alla miseria braccianti e pastori diventati briganti per fame e non per fedeltà di regime, finiti appesi o squartati per infedeltà al nuovo regime. I veri briganti erano loro, i nobili, i signori. Nel pensare così, Vittorio era più sprezzante dei bolscevichi.

    Peppino aveva lo sguardo curioso dell’appassionato di storia; non si faceva prendere dall’odio e dalla rabbia. Era pacato nei giudizi, parco di parole. Cercava le cause, voleva indagare le ragioni, capire, non gli interessava stabilire dove stesse il torto, ma che cosa aveva portato l’essere umano all’errore. Non di colpe parlava ma di errori e di ignoranza che avevano generato ingiustizie, soprusi, angherie.

    Anche nel vestire i due erano diversi. Il ragazzo della Taverna era trasandato, infagottato nei suoi pantaloni alla zuava, con la camicia di flanella anche d’estate, coperta d’inverno da ruvidi maglioni di lana. L’altro, nella bella stagione, indossava pantaloni di lino e leggere camiciole bianche di cotone, d’inverno su pantaloni di fustagno, morbidi maglioni a rombi di shetland che le zie, brave anche nel lavoro a maglia, gli confezionavano. Questo, un signorino con gli occhialini cerchiati da un sottile filo di ferro, l’altro un ragazzotto che neppure le ragazze casertane erano riuscite a disancorare da suoi abiti grezzi, dozzinali diceva la più grande delle quattro sorelle che studiava da maestra e che lo spiava sottecchi. Vittorio le piaceva perché gli sembrava indomabile come un cavallo maremmano.

    Tra i due ragazzi ce n’era un terzo. Quello sì un elegantone. Aveva uno zio a Roma, che dirigeva una sezione del Ministero dei Lavori Pubblici e quando arrivava a P. con la sua Lancia Augusta, il tipo di macchina che aveva vinto la Targa Florio, faceva voltare tutti. Bastoncino col pomello d’avorio, giacca con gli spacchetti laterali, un piedipull tra il verde pisello e il marrone, papillon sempre intonato … Vittorio era colpito dalla macchina. Tutto ciò che si muoveva, carretti, calessi, automobili, biciclette, lo entusiasmava. Un giorno si sarebbe potuto permettere una fuoriserie, una decappottabile. Carlo non era ricco sfondato come i nuovi padroni del palazzo ducale, ma sicuramente era molto agiato. Era biondo, non aveva niente del sangue meridionale che si era formato dalle mescole di tante razze e carnagioni. Non era supponente o strafottente, compito nel dire la sua, non pretendeva di avere l’ultima parola, anche se era posseduto dal demone malcelato del comando. Quale chimica potesse tenere insieme quei ragazzi non era facile dire. Peppino trovava, quasi sempre, il motto capace di mettere a squadro le cose, Vittorio viveva d’istinto, audacemente, Carlo era soggiogato dalla strategia. Ma proprio la mania di architettare piani, di comporre disegni lo avrebbe portato alla disfatta e a un cambiamento di vita. A volte strategia e lealtà non si accordano e averlo dimenticato gli costò caro.

    Carlo era entrato da poco nella vita di Vittorio. Quel nuovo patto fraterno era nato dopo un episodio increscioso in cui il ragazzo della Taverna si era trovato invischiato e che, per l’animo ribelle che aveva, stava per finire male. Il suo maestro delle elementari, che era un antifascista silente, aveva avuto un diverbio con un collega più giovane e più potente di lui. Per Vittorio T.B., il suo maestro delle elementari, era soprattutto un modello morale, e sentire qualcuno che lo apostrofava con l’epiteto di traditore, venduto ai nemici d’Italia, o addirittura ricchione, frocio, invertito gli faceva bollire il sangue, e lo spingeva a dare di matto. Don T.B. era nato nel paese di Angiolo Silvio Novaro, ed era di qualche anno più piccolo del poeta. Era rimasto legato alla sua Liguria e soprattutto ad Oneglia. Aveva messo in contatto il padre di Vittorio con i produttori di olio della cittadina ligure. Alla Taverna, la bottega che apparteneva da generazioni alla madre di Vittorio, ogni anno arrivavano almeno 20 sustari⁴ del prezioso liquido.

    Perché il maestro avesse scelto di insegnare a P. nessuno lo sapeva. Molti malignavano sui suoi amori non proprio regolari, non in linea con la condotta di un educatore, non rispettosi dei codici comportamentali di un maschio patriottico. In realtà non si era mai sposato e non si era legato a nessuna donna perché voleva farsi prete, ma non ebbe mai la forza di lasciare lo stato laicale che gli assicurava una vita dedita solo allo studio e senza altre preoccupazioni. Si riconosceva nel movimento mazziniano e a guerra finita si sarebbe ritrovato nel Partito d’Azione. Era venuto a P. perché aveva vinto il concorso e a P. c’erano parenti, molto alla lontana, immigrati verso la fine del XVIII secolo.

    T.B. non era soltanto un onesto maestro di scuola che faceva bene il suo lavoro, era un uomo di cultura che si faceva venire i libri da Napoli e che si interessava alla poesia italiana del Primo Novecento, parlava dei poeti che non erano ancora arrivati sui banchi di scuola, non dico alle elementari ma neppure al liceo. Aveva letto Moravia e Pirandello, di cui non aveva mai visto un dramma, ma ne aveva divorato tutte le novelle, i romanzi, e si era regalato i due volumi di Maschere Nude. Se ne andava così il suo stipendiuccio da maestro elementare. In libri.

    Dopo aver letto e riletto quei volumi, aveva preso carta e penna e aveva scritto al drammaturgo per dichiarare la sua ammirazione per un’opera che contrastava con la visione della vita rozza e squallida, incivile, che i tempi stavano esprimendo. Non aveva mai scritto la parola fascismo, ma volendo si poteva cogliere un’allusione al regime. Quella lettera era stata aperta e letta. Non dalla censura di stato, ma da quella curiosa e ottusa dei paesani. Insomma qualcuno per invidia, gelosia, per dispetto aveva aperto la lettera col solito vecchio sistema, facendola passare sul vapore di una pentola d’acqua che bolliva, e ne aveva carpito il contenuto. Non vi avevano colto una chiara professione di antifascismo, ma a loro bruciava che un antifascista occulto osasse scrivere a un Accademico d’Italia, a una gloria nazionale, a un premio Nobel da pari a pari. Infatti la lettera cominciava con un semplice Signor Pirandello e usava il lei invece del fascistissimo voi. La lettera non raggiunse mai la gloria nazionale dell’era fascista.

    Le lettere di T.B. venivano puntualmente aperte, lette e fatte oggetto di riso e di scherno da un giovane insegnante, che era ancora supplente e non vedeva l’ora che il vecchio maestro morisse o andasse in pensione per prenderne il posto. Sul circolo, dove giocava a carte, lo sbertucciava, gli faceva il verso imitandone la camminatura sbilenca. L’ultima lettera setacciata sarebbe apparsa a uno studioso di letteratura, un palese esempio di imitazione letteraria. T.B. si rivolgeva a un amico di Oneglia chiamandolo: amico mio dolcissimo… anima bella … metà della mia vita. La lettera parlava dell’età che avanzava, della solitudine sempre più infrangibile, del distacco dall’amico e dalla sua terra che gli sapeva durissimo. Per l’acuto censore di paese era una lettera tra due amanti, due uomini amanti. Bisognava impartire una lezione al vecchio maestro.

    Fu uscendo dal circolo su in Piazza, dove erano soliti riunirsi i don del paese,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1