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Non tornare a Mameson
Non tornare a Mameson
Non tornare a Mameson
E-book373 pagine3 ore

Non tornare a Mameson

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Info su questo ebook

Enrico Oliviero è un politico cinquantenne che dopo dieci anni come consigliere alla Regione Lombardia non viene più rieletto. Ferito nell’orgoglio e incapace di riabituarsi a una vita mediocre, compra una baita a San Bernardo di Mendatica, sulle Alpi Marittime. Lì si trasferisce, in segreto, abbandonandosi a giornate senza scopo e notti affogate nell’alcool. Il suo isolamento, però, dura poco. Dal solaio della nuova casa spunta fuori un quadro che prima lo affascina e poi lo ossessiona. È opera del precedente inquilino – un pittore francese – e ritrae una ragazzina che Enrico ribattezza Ophelia. Deciso a scoprirne l’identità, inizia caute indagini fra gli abitanti del paese... ma la percezione del pericolo arriva troppo tardi, quando l’incubo è ormai iniziato.
Il romanzo è scritto a tre voci: Enrico, Beatrice (la giornalista che con lui ha una relazione – l’unica a cercarlo, e a trovarlo), e una strana ragazza che parla con le marmotte.
LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2014
ISBN9788875639525
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    Anteprima del libro

    Non tornare a Mameson - Maurizio Lanteri e Lilli Luini

    PARTE PRIMA

    ENRICO - Il fuoco si sta spegnendo

    1

    Il fuoco si sta spegnendo, dovresti alimentarlo.

    Qui sui monti di Liguria le notti so­no carogne. Finisce che anche sotto il piumone ti si gelano le chiappe e resti lì imbacalito, ab­brac­ciato alle tue gambe, origliando le tarme del legno e l’urlo della civetta. Questo è successo ieri, primo giorno di settembre, il tuo primo giorno a San Bernardo di Mendatica. Come dire un tiro di schioppo dalle spiagge di riviera, con tanti saluti all’influenza del salmastro, il clima mite tutto l’anno, e bla e bla...

    Dicono che l’uomo scaltro impara dai suoi errori, e infatti di fianco alla poltrona hai pronto il rimedio. Ciocchi di rovere, acquistati per direttissima all’emporio comunale. Puoi toccarli con la mano sinistra, ruvidi e secchi, mentre zolfanelli e attizzatoio sono di fian­co al caminetto, poco più in là.

    Un paio di metri… ma per te potrebbero essere cento.

    Colpa del bicchiere che tieni nella destra.

    Whisky scozzese, retrogusto di torba e tabacco.

    È il terzo (o il quarto?) e altri ne verranno, fino ad affogare le costine di capretto che ti sei ingozzato per cena, fino a che crollerai lungo disteso sul tappeto.

    Non manca molto. Per ora resisti addossato allo schienale, gli occhi fissi al muro che ti sta davanti.

    Un cd nello stereo fa l’atmosfera. Racconta di quel che le donne non dicono. A te piace, la rossa. Sì, la cantante... Ti fa impazzire quell’inflessione sguaiata, da cui capisci che alla fine te la darà, qualunque fesseria le esca prima dalla bocca... Peccato, tu incontri sempre femmine di una specie diversa. Niente maliziosi sottintesi: scopare, e quello soltanto. Come la sciura tutta tailleur e permanente, sui sedili posteriori della sua Volvo familiare. Ha atteso che il tuo sesso fiorisse fra le sue unghie laccate, per dirti che quella era l’ultima volta, che il marito le controllava contachilometri e telefonino. Ma prima, avevate quell’ultima mezz’ora...

    Alt! Stop.

    Ti stai eccitando, non è decoroso nella tua posizione

    (ex posizione)

    e comunque sia, un lavoretto di mano, a cinquant’anni e fischia, non è buono neppure per conciliare il sonno.

    Potresti far cuccia qui, assorbendo il fiato tiepido dei tizzoni che muoiono, cullato dalle note molli di un refrain che torna all’infinito. A chi frega, su questo pianeta, quando/dove/se dormirai?

    A te, frega. Sicuro come l’oro che saresti già a segare tronchi d’albero su una nuvoletta, non fosse per lo stomaco che ti morde dentro.

    Non fosse per quella maledetta macchia.

    È lì, sul muro, a destra della canna fumaria. Al centro della tua visuale obbligata. Il punto esatto in cui, nei film americani, piazzano una grossa testa d’alce, con le corna a far da appendiabiti. Il paragone è lecito. Sei in una baita di montagna, no? Qui però stai ammirando uno spicchio di parete vuota, liscia e bianca. Assurda, in mezzo al festival del perlinato e delle pietre a vista.

    Una macchia.

    Marrone.

    Ti disturba, ecco.

    Marrone.

    Neppure puoi raschiarla dalla mente stringendo gli occhi, perché il buio ti precipita in un vortice di nausea, come una zattera che scavalla sul mare in tempesta.

    Su e giù. Su e...

    Ha una zona centrale, tonda, e tante sbavature a raggiera. Sembra abbiano spalmato merda sul muro (e perché no, i bambini riescono a far di peggio!). Oppure è una tazzina di caffè, piena all’orlo, volata dalla stessa poltrona su cui te ne stai seduto. Immagina la scena: uno sbocco di rabbia, accompagnato da un classico mi hai rotto le palle, porcocazzo!.

    Ma chi ha rotto le palle? E a chi?

    Già chiederselo è paranoia bella e buona.

    Però, una mano di vernice era pretendere troppo?

    In questa casa ti ha preceduto un pittore professionista, francese. Così racconta l’agente immobiliare. Sfiga nera. Avresti votato per un imbianchino rumeno. Ma forse, a lui, piaceva lo spettacolo. Stava lì a rimirarlo per ore, un mélange di colori in stile stercorario.

    Domani devi porci rimedio. Con le bottiglie che pare abbiano un buco, finisce che la macchiamerda diventa tua compagna affezionata. Alla fine ci leggi qualche significato in stile psichiatra della mutua e ti spaventi pure.

    O ti deprimi.

    Buona, questa. Davvero molto buona.

    Prosit. Dolce notte. A un domani senza macchia.

    E questa è ancora meglio.

    2

    Sprazzi di luce dai vetri.

    Cenere grigia nel focolare.

    Il nuovo giorno, se Dio vuole, è arrivato.

    Porta con sé un’emicrania feroce e fiato che sa di fogna, come dopo una canna di pachistano. Ma sono vivo e lucido. Di più dopo aver annusato l’aria frizzante del mattino.

    Le campane della chiesa battono mezzogiorno, quando raggiungo l’abitato di Mendatica per un pieno di provviste. Al negozio socializzo con i pochi clienti, gente del posto. Una vecchina mi dice che, sì, potrebbe accettare delle ore a servizio. Unico neo, sugli scaffali non c’è nulla che somigli a un pennello o a un barattolo di vernice.

    Trova tutto a Pieve di Teco, mi informa solerte la titolare. Giù nel fondovalle.

    Faccio segno che sì, ma questo chiude l’argomento.

    Troppa strada, troppe curve, per un reduce dalla sbornia del secolo. E poi... non c’è feeling, fra me e Pieve di Teco. Quando ci venni la prima volta, pioveva a secchiate e naturalmente trovai parcheggio ben fuori dal centro, ai piedi della salita per il Col di Nava. Sotto i portici ferveva lo shopping dei turisti impediti dal maltempo. Scarpe e scar­poni, soprattutto, a prezzo di realizzo. Sbattendomene delle calzature, io puntavo all’agenzia immobiliare e la trovai quasi subito, dietro una minivetrina formato acquario. Stavo consultando le locandine, quando una ragazzona di montagna – spalle larghe, fianchi stretti, gote accese – mi offrì la mano e il suo miglior sorriso.

    «Le serve qualcosa? Qualcosa in particolare?».

    Mi abbordò lì, sul marciapiede, con i suoi jeans firmati e il top che si fermava ben sopra l’ombelico. Questi venditori di case hanno un sesto senso, come i mercanti del sûq di Casablanca: capiscono a volo chi è lì per comprare o chi sta facendo flanella.

    Sì, cercavo qualcosa. Uno chalet, una baita sulle montagne. Grande. Solitaria, con tutti i comfort moderni. Libera subito. Non importava il prezzo.

    «Salute! Una persona con le idee chiare».

    «Enrico Oliviero», mi presentai. «Ce l’ha?».

    «Ce l’ho. La vediamo?».

    «Ho la macchina al parcheggio grande».

    «Andiamo con la mia, così non ci si bagna».

    Lasciammo subito la statale 28, deviando verso Ponti di Pornassio e Mendatica. Poi sempre avanti, in ripida salita lungo la dorsale dell’alta valle Arroscia. La strada tagliava a metà prati scoscesi e boschi di castagni. Poche abitazioni, quasi tutte con le ante sprangate e una certa aria di abbandono.

    San Bernardo è una piazza, o meglio l’incrocio di tre strade. Una fontana, la cappelletta, due alberghi. Uno, diroccato, ostentava un vetusto cartello in vendita. Cominciai a respirare una certa aria di casa.

    Appena vidi la baita decisi che sarebbe stata mia. Tetti scoscesi, infissi rosso fuoco adorni di funghi e cuoricini intagliati a mano. Dal porticato la vista spaziava senza ostacoli fin quasi alla costa, attraverso tutte le tonalità del verde. In effetti, non avevo specifiche preferenze. Solitaria lo era. Grande pure. Forse troppo.

    «Ha un nome?», mi informai per dire qualcosa.

    Ebbe l’unica esitazione del pomeriggio. «No... credo di no. Se ritiene, può provvedere lei stesso. I proprietari non ci mettono piede da un pezzo e prima d’ora affittavano per la stagione. L’ultimo inquilino se n’è andato sei mesi fa». Si trattava del pittore francese, come spiegò in due battute mentre spalancava porte e finestre.

    Ispezionai gli interni a volo d’uccello. Ineccepibili.

    «Quanto?», sparai sulla via del ritorno.

    Disse una cifra obiettivamente bassa, che io ridussi del quaranta per cento. Scosse il capo con femminile ironia e rilanciò del venti. Scendendo dall’auto accettò la prima offerta. Caparra immediata. Rogito dal notaio e saldo entro la settimana.

    Mi condusse alla scrivania dove mise nero su bianco il preliminare di acquisto. Esibì una visura dell’immobile, abitabilità comunale e delega dei proprietari a trattare in loro vece. Alle 19 ci stringemmo la mano. Affare fatto. Avrei potuto invitarla a cena e lei avrebbe accettato, ma non ne feci nulla.

    Era ferragosto.

    Cento giorni esatti dopo le amministrative di primavera.

    Quando persi il seggio alla Regione Lombardia.

    E a seguire tutto il resto.

    Stivati i viveri in dispensa, mi ritrovo un pomeriggio da spendere a far nulla. Potrei sgranchirmi le gambe con una passeggiata, ho pure acquistato una mappa dettagliata dei sentieri. Cian Prai, per esempio, è uno spiazzo erboso a un chilometro dalla mia nuova casa. Spicca netto e geometrico dalle finestre del soggiorno, chiazza di alopecia nell’uniformità di un bosco di castagni.

    La strada per arrivarci è in discesa.

    Al ritorno diventerà una salitella niente male.

    Ce la potrei fare, forse.

    Rinuncio per un panino al salame e un paio di birre, davanti al camino riacceso a fatica. Conscio che questo significa svariate ore di giubilo, in contemplazione della fascinosa macchiamerda.

    Domattina, appena sveglio, risolverò il problema.

    Prima che diventi un’ossessione.

    Pittura o non pittura.

    Giurin giuretta.

    3

    Ogni promessa è debito, ma il risultato è zero.

    Eccomi davanti alla soffitta, l’ultimo angolo rimasto in cui cacciare il naso.

    Stringo forte la maniglia.

    La porta cigolerà, come un gatto cui pesti la coda.

    Sarebbe in tema con l’ambiente decisamente sinistro.

    Invece no. La vigliacca si spalanca alla prima.

    Oltre c’è un buio da tagliare con il coltello.

    Eh già. Non ricordo lucernai e abbaini, sul tetto. Sarà per non dare appiglio ai cumuli di neve. Ma una lampadina, l’avranno prevista?

    Viva! L’interruttore è a destra della porta.

    È un solaio a spioventi di almeno trenta metri quadrati.

    Quasi tutti vuoti.

    Delusione. Non mi aspettavo sorprese esotiche, ma…

    Con le suole timbro la polvere, e sono le uniche impronte. Il primo visitatore di questo secolo? Nulla di strano, considerato che ho perso ore per rintracciare l’accesso. Una botola mascherata nel soffitto del bagno, una scaletta a pioli che scende giù da sola e traballa sotto i piedi come aspettasse il mio peso per andare in pezzi.

    Mancano solo ragni giganti e stridore di catene.

    L’inventario è presto fatto. L’angolo degli attrezzi da sci – materiali di marca, appena un po’ antiquati. Una scorta di lastroni d’ardesia, che qui usano come tegole. Bancone da lavoro con una collezione completa di martelli, cacciaviti, da­di e chiodi.

    Mezza lattina di pittura ammuffita è chieder troppo?

    Ho lasciato per ultima una massa informe, accostata alla parete di fondo. È ricoperta da un telo a fiorami, probabilmente un lenzuolo, e potrebbe nascondere lo scheletro di un dinosauro o il sarcofago di Dracula.

    Vuoi che sotto quel sudario non ci sia un bel quadretto? Una di quelle porcherie così care ai montanari... Dico una litografia di stambecco, o un ricamo a punto croce. Addirittura, se ho culo, il ritratto del bisnonno alpino con la penna sul cappello. Basta e avanza. La piazzo dove serve a me, con chiodi e martello. Se ce ne sono due o tre, viene fuori una composizione da fiera del kitch. Meglio della vernice, che se la trovo non sarà mai del colore giusto.

    Ho deciso. Scoperchio la catasta. È casa mia, no?

    Aha! L’aiuto che non ti aspetti.

    Non sono il primo, a ravanare là sotto. Prima di me ci è passato l’ineffabile pittore francese, in cerca di un ricovero per i prodotti del suo genio. Il furbone. Ha lasciato una bambola in velluto blu a guardia di una decina di tele tutte vergini

    (principio d’incazzatura globale)

    ... tutte tranne una. Ritrae una donna, una ragazzina a mezzo busto, e dietro una valle innevata. Originale! Però è della misura giusta. Come a dire il cacio sui maccheroni. Al posto della macchiamerda starà che è un piacere.

    Mi porto giù bambola e ritratto. Problema archiviato.

    Festeggerò con due spaghetti aglio e olio.

    Spendo il pomeriggio nell’impresa di tosare l’erba e regolare la siepe. Peggio dei lavori forzati, ma qui intorno lo fanno tutti. E non è finita. Prima o poi sarà il caso di passare l’impregnante alla staccionata. Pare che se non provvedi, il gelo s’insinua dentro e spacca il legno. Tutto sarebbe trovare un maledetto impregnante, stessa tonalità dei vicini. Già l’inquilina della baita ad est ha fatto allusioni, pronta a mettersi sul piede di guerra.

    Chissà che pensano in giro del nuovo arrivato. L’etichetta dello strano devono averla già appesa sul cancello. Meglio aggiungerci in fretta un paio di chiodi, che non caschi. Caso mai avessero in testa di coinvolgermi in barbecue e scarpinate salutiste per i monti. Meno male che la stagione del cambiamento d’aria è in dirittura finale. Poi i più chiuderanno baracca.

    Cena frugale. Ossa rotte trascinate in poltrona.

    Quadro al suo posto. Niente male, niente male davvero. Il vecchio inquilino doveva essere un postimpressioni­sta. O un naïf. Insomma... uno di quelli che sanno tenere in mano il pennello. Di certo quella sapientona di Gaia lo saprebbe (e anche Beatrice).

    Che ti passa per le corna, vecchio Jack? Pensa lo sballo se adesso alzi il telefono e chiedi lumi in presa diretta. Pronto, ragazze? Disturbo? Sì, sono sparito come una spia, senza neppure un biglietto d’addio, ma è cosa di un attimo. Ho qui un quadro promettente che...

    Che mi frega dello stile? Ophelia fa un figurone appesa al muro. Non servono galleriste alla moda o giornaliste rampanti per capire cosa mi piace e cosa no. E Ophelia mi piace. Senza cornice e con un angolo incompiuto.

    Ophelia. Così l’ho chiamata.

    La compagna di Amleto, il pallido prence danese.

    La nuova compagna delle mie notti.

    Questa sera la casa è calda, da stare in maniche di camicia. Allo stereo è di turno Norah Jones. Mi carezza orecchie e testicoli senza che afferri una parola di ciò che canta. Perfezione. Schiena e braccia mi dolgono da urlo. La novità è che sono sobrio.

    Beh, ridendo e scherzando sono già le due.

    Tempo di caricare il caminetto e trasferirsi di sopra.

    Tempo di salutare Ophelia.

    OPHELIA

    Sei piccola, bambolina

    Sei piccola, bambolina.

    Così piccola che ti ho già persa una volta.

    E sei appena arrivata.

    Volevo una bambola vera, io, come quella che c’è a Mameson. Con la faccia bianca e gli occhi azzurri che girano, i capelli color del noce e il vestitino blu. Ma Edda dice che non si può, Mamma non vuole vedere bambole e babacci per casa. Anche tu devi stare nascosta: se ti trova, succede come la Volta Brutta, quando… Non te la racconto, adesso non mi va.

    Non fa niente se sei così piccola.

    Anche tu hai gli occhi azzurri, sembri un fiorellino verde e rosa. No, sembri la fata Fiordaliso appena nata, ecco!

    Ti chiamerò Lisa.

    Quando vado nel Bosco delle Meraviglie vi porto tutte e due con me. Tu e Giada, la bambola grande di Mameson. Ieri ho sognato di essere là. È una casa così bella, con i funghi e i cuoricini sulle finestre, e un letto color delle fragole mature. Mi manca tanto la bambola e la soffitta e la fetta di pane un po’ bruciata con tanto miele sopra... Mi manca anche Lui, ma a Edda non lo dico questo.

    Jean è partito sotto la neve. È andato nel Bosco delle Meraviglie, l’ultima volta che si è aperta la porta tra i mondi. Non aspettarlo. Non tornerà per molto, moltissimo tempo, mi ha spiegato Edda. Andava di fretta, non poteva venire a salutarti.

    Ci sono rimasta male, ma non è colpa di Jean. La porta non rimane aperta per molto, e quando succede bisogna sbrigarsi. È nel prato rotondo, vicino alla torre di ferro, quella che ronza come se ci fosse dentro un nido di vespe. Edda me l’ha mostrata quando è venuto il tempo delle margherite.

    Un giorno ti ci porto, bambolina Lisa. Ora è chiusa, ma la terra è rimasta tutta mossa e allora Edda ci ha piantato su un cespuglio di more. Così solo noi sappiamo il punto preciso e nessuno può andare a disturbare Jean mentre dipinge nel Bosco.

    Aspetta, ti faccio vedere il mio libro…

    Ecco. Questo è Jean il Gigante. Questo è il Lago dell’Anello, dove lui ha combattuto contro il Drago cattivo. E questa è la sua casa, la Diga. Però è vuota. Lui è qui, vedi? Ai Monti delle Pietre Bollenti! C’è andato adesso perché io sono ancora da questa parte. Fin lassù non può portarmi. Dice che ci vogliono le scarpe adatte. E ride...

    Dice anche che quando arriviamo qui, nella Foresta dei Campanelli, tutti mi faranno festa! Costeggeremo il ruscello, berremo l’elisir e sarò la sua regina. I Giganti suoi amici vorranno giocare con me. Faremo una festa tutte le sere, al castello.

    Questo Edda non lo sa, però. E noi non dobbiamo dirglielo. Jean si è raccomandato tanto. I giochi delle fate che mi ha insegnato sono un segreto.

    Adesso dormiamo. Chiudi gli occhi, bambolina Lisa, non avere paura. C’è la grande luna d’argento che entra dalla finestrella e scaccia il buio.

    ENRICO - Ha i capelli lucidi, neri come l’ala di un corvo

    1

    Ha i capelli lucidi, neri come l’ala di un corvo, a spiovere sulle gote pallide. La frangia è tagliata di sghembo, come avesse fatto da sola davanti allo specchio, servendosi di una forbice da giardiniere.

    Neri anche gli occhi, di trequarti, così vivi che sembrano inseguire i miei se mi sposto a destra e a sinistra. Sopracciglia folte, unite sopra il naso.

    Le labbra sono rosso acceso, umide e socchiuse sui denti. Non è un vero sorriso, somiglia più a una smorfia. Una boccaccia da monella impertinente, che ha capito dove può spingere la sua provocazione. Non recita, come le donne mature, ma in qualche suo modo inconsapevole sente che non susciterà risentimento.

    Mi correggo. Sono labbra sod­di­sfatte. Enfiate dai troppi baci, ecco. La bocca di chi ha appena fatto l’amore e ancora vorrebbe...

    Mammamia. Per fortuna nessuno registra i miei pensieri. Ecco quel che accade a far vita da eremita. Perversioni da pedofilo, visto che Ophelia non avrà più di... sedici anni? Sotto il maglione di lana, informe e portato a pelle, le spalle sono strette e spioventi. I seni si indovinano solo per via dei capezzoli. Turgidi, alti e distanti.

    Ophelia potrebbe essere mia figlia, ne avessi una

    (non ne ho),

    ma sono proprio i piccoli dettagli a spostare gli equilibri della vita.

    Metti che a Mendatica vendevano barattoli di pittura.

    Metti che scendevo a Pieve di Teco.

    O ruotavo la poltrona trenta gradi a sinistra.

    O mi piaceva il color merda.

    Adesso non sarei qui, davanti al fuoco che crepita vivace, inseguendo auspici negli occhi di una ragazzina immaginaria. Inquietanti, quegli occhi, stasera. Restituiscono bagliori sanguigni (le faville del camino?), celano verità inconfessabili, lanciano avvertimenti che forse mai coglierò.

    Accidenti, che faccio? Prendo paura?

    Lo stereo è ammutolito. Tutta la casa scricchiola. Ovvio, è legno stagionato. La canna fumaria erutta cenere e fumo nero, come un Vesuvio casalingo. Una persiana sbatte a ritmo di swing. Quella della cucina, sopra il lavello. Il telaio è fradicio e non c’è verso di incastrarla. Per questo la lascio libera. Venga pure il ladro della notte. A rubare che?

    C’è vento, stasera.

    Gelido vento dal nord.

    Porta il soffio della prima neve.

    2

    Il paesaggio del quadro. Lo sfondo dietro Ophelia.

    È ciò che si vede dal balcone di questa casa, quello della camera da letto al primo piano. Ci ho messo

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