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Il profumo della neve
Il profumo della neve
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E-book178 pagine2 ore

Il profumo della neve

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Fantasy - romanzo (128 pagine) - Siamo davvero soli quando la paura perseguita le nostre ombre? Come si affronta un mostro, se assume le sembianze del dolore? È possibile reagire di fronte all’angoscia di un ricordo? Un libro che tenta di esplorare gli antri più ombrosi della psiche umana: perdite e silenzi, rimpianti e paradossi, fraintendimenti e condanne. Alla ricerca, sotto uno spesso strato nevoso, del coraggio.


Gemma Trentini, affetta da “quionofobia” (fobia della neve), deve fare i conti con un trauma risalente a tre anni prima, da lei definito “la Tragedia”. Insieme all’ex vicina di casa Leda, sarà costretta a ripercorrere i giorni successivi alla morte di Bianca: la sua migliore amica aveva soltanto quattordici anni quando è stata travolta da una valanga, ai margini di una pista da sci, e da allora Gemma non ha fatto altro che scorgerne lo spirito ovunque. Bianca l’aveva tormentata in vita, con le sue inguaribili manie sul cibo e i suoi abusi silenziosi, e ha continuato a perseguitarla da morta, sbucando qua e là in qualche incubo o manifestandosi in diverse allucinazioni. Dopo la notizia di un’imminente bufera di neve, diretta a Verona, Gemma si vede abbandonata da Leda e impossibilitata a prenotare un viaggio a Catania, come d’abitudine, per sottrarsi alle intemperie. Da quel momento sarà intrappolata in un vortice di terrore che si nutrirà delle sue più profonde incertezze e renderà Bianca uno spirito maligno dal quale fuggire. Cosa succederebbe, se stavolta fosse la paura stessa a presentarsi alla sua porta? E con quali sembianze?


Francesca Bandiera è una ragazza alle prese con se stessa. Studia Scienze della Comunicazione a Bologna, ma vive a Ferrara, una cittadina immersa nella nebbia che, fin dalla prima infanzia, ha ispirato le sue storie di streghe assassine e api parlanti. Crescendo, diversi elementi sono diventati essenziali nella creazione dei suoi racconti immaginifici: cornacchie, boschi, spettri del passato e, perché no, un pizzico di realismo magico. La scrittura, per lei, è uno spirito-guida; proprio grazie a essa, infatti, sta imparando a tornare bambina. Per Delos Digital ha pubblicato Corrosione (Narrazioni, 2017) e Pandemonio (Fantasy Tales, 2019).

LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788825411782
Il profumo della neve

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    Anteprima del libro

    Il profumo della neve - Francesca Bandiera

    Prima parte

    A Valentina,

    perché la neve non ti terrorizza.

    Il tuo cuore brilla di pura magia.

    Prologo

    Fame

    Il vento schiaffeggia le guance, le arrossa, e io tento di difendermi sotto la peluria del giubbotto. Proseguo, alla cieca, fingendo di non notare le stringhe slacciate, perché togliere le mani dalle tasche sarebbe come scivolare dentro un lago ghiacciato, ora. Attorno, solo muraglie di siepi; il mio vagare sembra l’unica forma di vita nel raggio di chilometri, eccetto un’ombra all’orizzonte.

    Forse è la corrente a sospingermi da dietro, forse il brivido lungo la schiena a mantenermi cosciente. Fisso lo sguardo sulla roccia scura, in lontananza, e m’inoltro nella tempesta di brina, gli arti a procedere per inerzia. Da questa distanza la bufera mostra un quadro di desolazione, dove centimetro dopo centimetro sono seppelliti i resti dei fiori; uno spettacolo di natura morta, ma mobile, che risucchia le piante dei piedi.

    È visibile perfino da qui, la cappa d’inquietudine che circoscrive quel cumulo eterogeneo di nero; somiglia più a una nube di cenere che a un ammasso di piante in preda alla corrente, eppure vado avanti. L’atmosfera soprastante, talmente buia da risultare quasi elettrica, pare aprirmi un sentiero nel turbinio dell’inverno e fischiettare: Vedi qualcos’altro, qui? Il luccichio dell’ombra risalta sul candore del bianco. Seguilo. Seguilo.

    La neve profuma di pioggia, asfalto, erba appena tagliata: nulla a che vedere con l’olezzo di sangue rappreso che proviene da laggiù. Il contrasto di odori e di luci è una melodia; mi costringe ad avanzare, avanzare, avanzare, accarezzando i timpani, pizzicando l’olfatto. Rappresenta il solo punto di riferimento al quale affidarmi. Se mi distraessi, quel che si cela là in fondo scomparirebbe, lasciandomi in compagnia delle siepi. Del nulla. E cosa farei a quel punto, spogliata di qualunque speranza?

    Bacche, frutti e animali sono spariti a causa del clima ancora prima che le mie interiora gridassero pietà. Quanto tempo hanno resistito nel labirinto? Ne sto calpestando la superficie? Non ho neppure il coraggio di scavare una buca con la punta della scarpa. La neve ha inghiottito le carogne sino all’ultimo pezzetto di carne o si è limitata ad ammantarle? Basterebbe un accenno di pelo per accecarmi. Una punta di corno. Un’unghia di zampa.

    Seguilo. Lo avverto nei timpani, il ritmo flebile dei battiti cardiaci. Si sposa con la musica che sto inseguendo, un requiem dei sensi in grado di stordire anche il più abile degli ascoltatori. Non somiglia a quello di una persona in vita. In effetti, niente mi differenzia dagli insetti che ore fa mi ronzavano in cerchio, se non un colpo di fortuna. Nemmeno io potrei superare la notte, oggi. Sempre che, in questa landa deserta, una notte esista. Il tempo non si quantifica, quando il paesaggio si riproduce, sempre uguale, fin dove l’occhio può spingersi.

    Seguilo. Il giubbotto è un polipo che dimena i tentacoli: a ogni folata svolazza fino a denudare i fianchi, e il nevischio non aspetta altro per appiccicarsi alle cosce. È dolore ciò che provo alle articolazioni: un dolore genuino, che spacca le giunture e infiamma i tendini. Non ricordo di aver mangiato, né di essermi lasciata alle spalle case, scorte o tende dentro cui ripararmi. Nessun cartello mi ha indicato il percorso giusto da intraprendere; sono stata mossa dal vento, dall’imprudenza e da una vaga, ma imminente sensazione di perdita. Di me stessa? Dei luridi stracci che indosso? Dell’illusione di poter incontrare qualcuno, riparato dal fogliame delle siepi? Non sono riuscita a discernerne l’origine.

    Avverto i peli delle braccia intirizzirsi e lo stomaco restringersi. Da quanto sta nevicando? Perché la gente non mi ha impedito di entrare nel labirinto? E come ci sono entrata? Il gelo si fa largo nei polmoni; infetta la gola, che sono costretta a schiarire di continuo pur di trattenere il catarro, e solletica il diaframma, che si contrae in movimenti irregolari.

    Brucio. Sto bruciando dentro, a furia d’inspirare tutto l’inverno da cui è composto l’incubo. Perché non può trattarsi di altro, giusto? L’inverno non mi risparmierebbe, se fossimo nella realtà. Seguilo. O forse mi hanno relegata in un luogo inaccessibile per mettermi alla prova? E a quale prova sarei stata sottoposta, esattamente?

    Mamma, papà, cane dei vicini, compagne di banco, amica d’infanzia: un polverone di volti scivolano fuori dalla memoria, scontrandosi con la confusione, il disordine, l’amnesia. Sfumano, perché sono inconsistenti; le loro identità potrebbero equivalere alle spirali di condensa, lì, a una manciata di metri. Non sono che facce sovrapponibili, distanti nello spazio, in parte dimenticate. Il vento le sta rimescolando come un mazziere con le carte in tavola. Ho già scorto quella siepe malata e scoperta dalla neve, a destra? E quei cocci di legno, a sinistra, dovrebbero avere un aspetto familiare? Gli occhi sono troppo gonfi per carpirne la quantità. Ci potrei costruire un riparo, con quegli affari?

    Più mi sposto verso l’oscurità, più mi convinco di star attraversando la fase iniziale di un’ipotermia. Mi sforzo di non frignare, o le lacrime si solidificherebbero alla luce tenue del sole, ma i muscoli sono intorpiditi, al limite dello sfinimento, e rendono la sopravvivenza un sacrificio.

    Inciampo. Riacquisto equilibrio.

    Le palpebre si cristallizzano quando, a una decina di passi dalla meta, mi accorgo che non si tratta di una roccia. L’ombra non appartiene a una bestia o a un arnese, com’era prevedibile supporre. È una ragazza, bocconi, dalla schiena ingobbita; sopra di lei, un nembo pronto a pisciare acquazzoni. Sembra appartenere a un universo parallelo: è accumulato in quest’area precisa, attorno a questa persona precisa, in questa porzione precisa di globo e, risucchiando lo spazio-tempo, congela al proprio interno perfino lo sbuffo di un sospiro. Potrebbe scaricarle una raffica di fulmini addosso e sono sicura che Bianca. Bianca.

    Oh, Dio. Questa è davvero una persona precisa della mia adolescenza. Se n’è appropriata per anni, scansando chi mi avrebbe distratta dal dedicarle attenzioni. Una reminiscenza affiora dall’abisso, all’improvviso; il suo nome rimbomba negli angoli più sudici del subconscio, lasciando trapelare un certo presentimento dal sapore acre. Puzzo di sangue rappreso. Non sbagliavi. – Bianca? – mormoro, e il quesito provoca lo stesso rumore del vento, un leggero fruscio che si propaga nel vuoto. L’eco di una richiesta di aiuto.

    I boccoli dorati le si arruffano sul viso, celando i lineamenti, e da una prospettiva simile la visuale non può che soffermarsi sulla brina che le ricopre gran parte del vestiario, trasformandola in una statua di ghiaccio. Il suo busto si protende verso il basso e le braccia assecondano lo spostamento, con grazia, come se stessero cullando un bambino. La posizione in cui si ritrova ha un che di leggiadro: sebbene sia adagiata sui polpacci e deformata nel tronco, rievoca la sinuosità di una ballerina di danza classica. Quella matassa ombrosa, che non avevo saputo definire, è un corpo animato, rivestito da un cappotto marrone che potrebbe fargli da strascico; dev’essere di almeno due taglie più grande, perché il fisico minuto sparisce sotto lo spessore della stoffa. Gli anfibi sono sommersi in parte dalla neve, in parte dall’indumento, che Bianca amava indossare sopra i vestiti di lana: aveva la tendenza a congelarsi, se il termometro non si aggirava attorni ai venti gradi, e non era un caso che il suo guardaroba strabordasse di maglioni di alpaca. Di questo solitamente si lamentava, siccome la lana riscalda tanto quanto ingrossa. – Bianca, sei tu?

    Mamma, papà, cane dei vicini, compagne di banco, amica d’infanzia: tutto è vago, assenza oppressiva, ma l’unico appellativo che martella i pensieri è il suo. Non ho scordato Bianca neanche per un secondo; probabilmente lei è stata, a livello inconscio, il vero scopo che mi ero prefissata: rivederla, strattonarla e riportarla a casa. Non dovrebbe affatto stupirmi la sua presenza, nel bel mezzo della bufera, a ignorare la mia. Rimango immobile. Non voglio spaventarla. Non voglio spaventarmi.

    – Bianca, stai bene?

    Ragiono Dovrei chiamare i soccorsi e nel medesimo istante Non ho un telefono, e Non saprei indicare le coordinate, e Sarebbe inutile. Bianca s’incurva all’ingiù, in procinto di vomitare, e mugugna parole incomprensibili, un misto di gemiti e singhiozzi. Se non si volterà, sarò obbligata a picchiettarle gli scarponcini sul fondoschiena o a raggirarla, pur di portarla via. Con me. Da qualche parte. Fuori dal labirinto. Spero si decida a considerarmi, perché rintracciare l’uscita sarebbe possibile soltanto insieme. Ha sempre avuto uno spiccato senso dell’orientamento.

    Mi avvicino, determinata a scrollarle di dosso il torpore. Perché frigna, se sono arrivata a salvarla? Non posso concederle un momento di debolezza, o il freddo ci fossilizzerà. Mi avvicino, ancora, per assicurarmi di offrirle un braccio al quale aggrapparsi. Sono io, Bia. Seguimi. Devo costringerla ad alzarsi, a costo di trainarla al di là delle siepi. Se le sue mani non si abbassassero e sollevassero, davanti a sé, avrei diffidato della vista, ritenendo Bianca un’illusione. Ma lei continua a eseguire una serie di gesti che ne mettono in dubbio le intenzioni; non riesco a cogliere in cosa consistano le sue lagne, o i presupposti che la spingano a tacere, o con quale atrocità il gelo stia compromettendo la sua sanità mentale. Cerco di non focalizzarmi sull’interrogatorio che vorrei farle, un susseguirsi di Da quanto crepi di freddo?, o Come ci sei arrivata?, o Sapresti riconoscere la strada?

    Mi approssimo all’orlo del cappotto. Lo schiaccio.

    Bianca non si gira.

    Poi le intercetto. Le dita immerse nella neve.

    Che la raccolgono a batuffoli sui palmi. Portandola alla bocca.

    Sgrano le palpebre. Mi arresto. Pian piano un urlo si propaga nello sterno e il cuore esplode in un’emorragia, sgorgando fiotti di ribrezzo dai pori. Bianca sta ingurgitando neve. Si abbuffa di fiocchi, acqua e fango.

    Non stava singhiozzando, pochi istanti fa. Gemeva di piacere.

    1

    Limbo

    Il vapore si acquatta sui muri, formando una patina biancastra sopra lo specchio. Per terra, un campo minato di pozzanghere. Gocce roventi scorrono dal rubinetto e colmano la vasca fino all’orlo: il livello dell’acqua supera i seni, interrompendosi all’altezza delle clavicole. Lascio le dita a mollo, a sfiorarne giusto la superficie, e muovo i polsi da destra a sinistra, provocando una serie di piccole onde. I polpastrelli, a bagno, si sono raggrinziti; l’unghia pare essersi rammollita, tanto è divenuta flessibile.

    – Gemma? Posso entrare? – Leda ha varcato la soglia prima di terminare la domanda. Sventola una mano a mezz’aria, cercando di far fuoriuscire l’umidità, e nel contempo assottiglia le labbra, segno premonitore di un’infuriata. È sufficiente l’occhiata che mi riserva, un secondo dopo aver registrato la quantità di vapore nella stanza, a determinare il suo umore: le palpebre si sono socchiuse seguendo un riflesso quasi istintivo e il corpo si è protratto nella mia direzione, il pugno ben serrato sulla maniglia. Leda squadra il groviglio di nodi che ho in testa, e fa una smorfia, poi le ginocchia rannicchiate che fuoriescono dall’acqua, e fa una smorfia. Le labbra sono ancora tese, i denti incollati dal buonsenso, quando a stento afferma: – Tua madre è preoccupata. Dice che sei rimasta di sopra, nel bagno, da quando ti sei svegliata.

    Malgrado l’imperdonabile spreco d’acqua, ho riempito e svuotato la vasca svariate volte, in effetti. Per stare al caldo. – Perché non è venuta a controllare, allora?

    – Be’, è tua madre.

    Ha ragione. Non c’è nulla di più ovvio della sua risposta.

    – È andata al lavoro circa un’oretta fa – aggiunge, a sottolinearne la scelta opinabile. Fa tintinnare il mazzo di chiavi che custodiamo sotto lo zerbino per agevolare l’ingresso a chiunque ne sia a conoscenza, ossia chiunque debba preoccuparsi di me, ossia soltanto Leda, e fa una smorfia. – Ha usato il numero di emergenza dell’ufficio. Deve aver visto la tua assenza dal registro elettronico. Non potevo abbandonare la lezione a metà, perciò eccomi qui. Troppo tardi? – Mi sta provocando. Fissa il rubinetto aperto, le boccette sparse di crema e la mia espressione da mammalucco come se fossimo un’entità unica. Nonostante l’accozzaglia di colori che indossa, le mollette ad appiattire la frangia e i foruncoli sul mento, Leda risulta minacciosa al punto giusto. Le iridi chiare guizzano sulla mia figura imbarazzata dalla sua apparizione e ne passano in rassegna i difetti, rimproverando l’arrendevolezza che m’incolla al fondo della vasca, la scioltezza con cui lo accetto.

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