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E-book171 pagine2 ore

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Questo è il romanzo che tutti genitori e tutti i figli dovrebbero leggere. Parla di bambini. In particolare di un bambino. Un bambino sfortunato che non esprime il suo dolore. Non ne parla. Lo tiene dentro di sé. Neanche il padre lo capisce. È troppo spesso lontano. E quando è a casa, giudica con superficialità l’irruenza e la disubbidienza del figlio. “E’ senza cuore” pensa tra sé vedendolo saltare e ridere allegramente non molto tempo dopo la morte della madre. Ma non è così. Il piccolo cuore è in realtà un grande cuore, pieno di sofferenza. Presto il padre se ne accorgerà.
Florence Montgomery è nata a Chelsea, Londra, il 17 gennaio 1843. Era la seconda dei sette figli dell'ammiraglio Alexander Leslie Montgomery. Suo padre era anche un parlamentare e divenne baronetto nel 1878. Florence ha scritto molti libri per ragazzi. Il suo capolavoro è il romanzo Incompreso (Misunderstood, 1869), tradotto in tutto il mondo. È la storia di un bambino costretto a soffocare i suoi slanci agli adulti incapaci di capirlo. Nel 1966 Luigi Comencini ne ha tratto un film, ambientato a Firenze, presentato in concorso al Festival di Cannes 1967.  Nel 2001, in un film per la TV, Luca Zingaretti ha interpretato la parte del padre, Sir Everard.
La presente traduzione è moderna e agile, quasi un remake, adatta a un pubblico nuovo.
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2020
ISBN9788835806431
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    Anteprima del libro

    Incompreso - Florence Montgomery

    ITALIANO

    PARTE PRIMA

    I

    Quella che sto per raccontarvi è la storia di un bambino. Un bambino colpito da una grande sventura. Perché ha perso la madre. Nel senso che sua madre è morta troppo presto. Quindi una storia triste. Molto triste. Ma è anche una storia piena di cose belle e anche allegre, perché la gioia di un bambino, alla fine supera tutto, anche la morte.

    Pioveva forte sui campi e sui prati, sui giardini e sulle aiuole, sui tetti e sulle guglie di Wareham Abbey, nella contea di Sussex. Non si era fermata un minuto, finito il pranzo nella nursery. Sparecchiato, due piccole teste piene di riccioli si schiacciavano, una vicino all'altra, contro i vetri della finestra della nursery, e due paia di occhi fissavano incantati il gioco delle nuvole nel cielo.

    Pomeriggio piovoso! Noiosissimo! Soprattutto perché i due piccoli non vedevano l’ora che arrivasse il momento di andare a prendere il padre alla stazione. Aveva promesso di tornare quel giorno.

    Sarebbero andati col calesse. Posto per Virginie non ce n’era, ma potevano andare con il cocchiere, Peter. Sarebbe stato un gran divertimento. Certo dovevano promettere di stare seduti e fermi, di non mettere il piede sulla ruota per salire, e anche di non saltare giù prima che il calesse fosse fermo… Ma comunque!

    Stare un po’ senza Virginie, che pacchia! La tata sembrava fatta apposta per impedire che si divertissero. Sempre in allarme. Vedeva pericoli dove loro vedevano solo divertimento. Ogni momento: Ne faites pas ceci, ne faites pas cela¹. Ne avrebbero fatto volentieri a meno. Anzi l’avrebbero condannata a qualche severa pena, se avessero potuto. Eppure Virginie era una brava donna, dai buoni propositi. Era solo ansiosa, molto ansiosa. Sentiva la grande responsabilità di accudire i figli di un uomo senza moglie, vedovo, molto spesso lontano da casa. Responsabilità che le rendeva la vita difficile, tanto più che i due erano diavoli scatenati, senza paura di niente, spericolati e disubbidienti. Preghiere e rimproveri con loro erano del tutto inutili.

    Il minore, il piccolo Miles, da solo era abbastanza buono e lei riusciva a domarlo. Forse perché era ancora piccolo. Ma Monsieur Humphrey! Quando ne parlava con il padre non poteva fare altro che alzare le mani e gli occhi al soffitto, non volendo dire parole troppo severe.

    Sir Everard Duncombe era membro del Parlamento. Stava quasi sempre a Londra durante la sessione, all'infuori di qualche scappata nel weekend. I suoi figli, in quel periodo dell'anno, lo vedevano poco. Quando era a casa, quelle poche volte, Virginie lo soffocava di lamentele: Monsieur Humphrey si è arrampicato su alberi altissimi e si è buttato giù. E poi è entrato nelle scuderie e si è ficcato sotto gli zoccoli dei cavalli. E si è infilato nella cuccia vicino al cane da guardia. E per miracolo non è caduto nello stagno. Eccetera eccetera. Il racconto delle sue malefatte non finiva mai. E quel che è peggio è che le fa fare anche al piccolo. Miles voleva imitare il fratello più grande. Faceva tutto quello che faceva lui. Pronto a seguirlo.

    Miles è diverso dal fratello. Humphrey è a prova di bomba contro i raffreddori, la tosse e ogni genere di malanni. Il piccolo invece è di salute cagionevole. È debole di polmoni. Correnti d’aria, piedi bagnati e cose del genere gli possono fare molto male e….

    Miles era di natura timida e gentile, affettuoso e tenero, la gioia di suo padre. Gli slanci di Sir Everard erano dedicati quasi esclusivamente a lui.

    Lady Duncombe, già un po' di tempo prima di morire, si era accorta della parzialità di suo marito nei riguardi del minore e spesso l'aveva ripreso su quel punto.

    - Miles è una creaturina così tenera - rispondeva lui. Prendeva in braccio il piccolo e gli accarezzava la testa ricciuta. Miles, felice, si nascondeva contro la sua spalla. - Vedi, quando prendo Humphrey in braccio, lui fa di tutto per divincolarsi e scendere, per potersi arrampicare sulle sedie e sui tavoli.

    - Humphrey ha tre anni di più - ribatteva Lady Duncombe. - Non puoi pretendere che un bambino di quell'età se ne stia tranquillo seduto come uno che non ha ancora due anni. Anche lui è tenero e affettuoso… in modo diverso.

    - Può darsi, ma mi sento sciogliere quando tengo in braccio un cosino come Miles. È capace di starsene così per ore.

    Lady Duncombe non rispondeva, ma il suo sguardo andava a posarsi sul maggiore dei suoi bambini, che per tre anni era stato il suo unico figlio. Per lei Humphrey era motivo d’orgoglio. Le piacevano i suoi modi virili, il suo non stare mai fermo, la sua pronta intelligenza. Le ruvide carezze di quelle mani non le erano meno care di quelle del piccolo. Le piaceva vederlo irrompere a rotta di collo nella stanza e saltarle in braccio, anche se, correndo così, rovesciava una sedia o buttava all’aria il suo cestino da lavoro, sporcando poi il divano con i suoi stivaletti infangati. Che importava? Non la baciava con ardore sulle guance? Le sue care piccole braccia grossolane non la abbracciavano? La mamma sapeva che cuore batteva sotto l’apparente noncuranza. Che cosa importava se dimenticava ogni ordine e ogni promessa? Purché non dimenticasse lei! Degli altri non le importava. Le bastava che continuasse a desiderare i baci e gli abbracci della mamma.

    Fu un triste giorno per il piccolo Humphrey Duncombe quello in cui la sua mamma fu portata via, lontano, il giorno che la lunga malattia devastatrice si concluse nella morte. Gli occhi incavati erano rimasti posati su di lui fino all'ultimo istante. Poi si chiusero. Qualcuno le dispose in croce sul petto le mani delicate. Quel petto nel quale non avrebbe mai più nascosto la testa, singhiozzando, confessando e pentendosi.

    Sir Everard, sopraffatto dalla sciagura che l'aveva colpito, vide ben poco i bambini durante i primi giorni del suo lutto. Quando li rivide, fu sorpreso di costatare che Humphrey era rimasto lo stesso: sempre rumoroso e sfrenato, sempre pronto a qualsiasi mascalzonata. Come se non fosse successo niente. È senza cuore pensava dentro di sé mentre osservava il suo primogenito, vestito a lutto, inseguire gli agnelli nei prati.

    Sir Everard era convinto che il ragazzo era rimasto lo stesso perché lo vedeva nei suoi momenti d'oblio. In quei momenti la natura e l'infanzia facevano trionfare i loro diritti. L’esuberanza di Humphrey scacciava il pensiero e il dolore. Ma non lo vedeva quando lo prendeva l'angoscia della perdita. Non lo vedeva trasfigurarsi in viso quando lo assaliva il ricordo. Non sentiva il mamma pronunciato a metà, soffocato da un singhiozzo. Non vedeva il suo correre nel salotto con qualche nuovo tesoro, qualche nuovo progetto da raccontare a lei… e l'improvviso arrestarsi quando, di colpo, gli arrivava il pensiero che ora, sul divano, non c'era più la mamma sorridente ad aspettarlo. Non lo avrebbe mai più ascoltato. Non avrebbe partecipato alla sua vita. Niente baci. Nessuna parola affettuosa. Niente. Il padre non sentiva i singhiozzi d'angoscia, quando abbandonava le braccia lungo i fianchi e correva fuori, all'aria aperta, via, via, lontano, in qualunque posto, per sfuggire al dolore, alla nostalgia, a quel desolato vuoto.

    Soltanto Dio, che sta in cielo, ma posa lo sguardo sulle creature della Terra, anche le più umili, sapeva cosa c’era nel cuore del ragazzo. Solo Lui vedeva il cuscino bagnato di lacrime e sentiva, nel pieno della notte, il grido che erompeva da quel povero cuore di orfano: Oh mamma, mamma! Come farò senza di te?.

    Tutto questo era successo circa due anni prima del giorno del quale sto parlando, quando la pioggia batteva incessante davanti ai due piccoli spettatori alla finestra. Dalla mente di Miles il ricordo se ne era andato come se niente fosse. Non si ricordava nemmeno della mamma. Ma nella mente del figlio maggiore la memoria di lei era ancora viva. Potevano anche passare settimane e mesi senza che il suo pensiero si fermasse su di lei, ma poi, d'un tratto, un fiore, un libro, un piccolo oggetto, riportava indietro tutto. Allora il suo petto si sollevava, la testa ricciuta restava china e i vivaci occhi scuri si offuscavano per le lacrime.

    Nel salotto ormai fuori uso di Lady Duncombe c'era un quadro, di grandezza naturale. C’era dipinta la mamma con Humphrey tra le braccia. Quando era triste o quando non aveva voglia di sentire Virginie, il bambino si rifugiava non visto nella stanza e ci restava, accucciato in un angolo sul pavimento, come era accucciato in braccio alla madre nel quadro, e cercava di immaginare il tepore di quelle braccia che lo stringevano e la sua spalla sulla quale appoggiare la testa.

    C’erano giorni in cui facevano le pulizie anche in quella stanza. Le imposte pesanti erano spalancate e la luce del giorno illuminava il quadro.

    Allora i due fratellini stavano in piedi, lì davanti. Il più grande diceva al più piccolo tutto quello che ricordava di lei. Miles aveva il massimo rispetto e la più grande ammirazione per Humphrey. Un bambino di sette anni che porta i calzoni è oggetto di venerazione per uno di quattro costretto ancora al pagliaccetto. L'immaginazione di Miles non andava oltre quello che vedeva. Quella per lui era solo una camera chiusa. Per questo il suo rispetto cresceva nell'ascoltare la vivace descrizione che Humphrey gli faceva del passato, quando quel salotto era tutto un bagliore di luci, alla finestra pendevano le tendine di mussola e tutte le sedie erano coperte di stoffe a grandi fiori… e la mamma stava seduta sul divano, col suo tavolino da lavoro vicino.

    Debole e sbiadita era l'idea che il piccolo poteva farsi di quella mamma di cui il fratello parlava a bassa voce e con gli occhi lucidi. Ma che fosse qualcosa di molto bello e sacro era chiaro anche per lui.

    Sotto questo aspetto il suo senso d’inferiorità di fronte a Humphrey era profondo e la vergogna s’impadroniva di lui quando una delle loro conversazioni veniva bruscamente troncata da Humphrey: È inutile. Non capisci. Non te la ricordi. Allora sulla faccia di Miles si dipingeva un'espressione di malinconia che sembrava ammettere umilmente la sua inferiorità.

    Era appunto l'ammirazione di Miles per il fratello che costituiva il pensiero ansioso della vita di Virginie. Timido di natura, Miles si faceva ardito quando Humphrey dava il la. Di solito era obbediente e sottomesso cioè quando era solo, ma a un cenno di Humphrey si sentiva di sfidare Virginie e voleva diventare un tremendo come lui.

    Che l'union fait la

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