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Come la pioggia per le lumache
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E-book327 pagine4 ore

Come la pioggia per le lumache

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Info su questo ebook

Leda, affermata manager di Roma, dopo una ferita profonda ha bisogno di sentire di nuovo sé stessa e di ridare un senso al proprio percorso.
Pieveradice, un piccolo borgo fra le colline, dove trascorreva l’estate da bambina tra le cure della nonna Ada e l’amicizia di Grazia, la accoglie nuovamente, adesso adulta. Ed è qui che la storia, i desideri e i bisogni di Leda si intrecciano a quelli di vecchi e nuovi amici, in un progetto comune che li spinge a uscire dai propri gusci di rassegnazione e che dona nuova linfa al paese.

Anna Maria Bondi è nata e vive a Firenze, dove si occupa prevalentemente di cultura, economia civile, piccoli comuni, comunicazione, organizzazione di eventi. Proprio grazie al suo lavoro ha avuto la fortuna di incappare in questa innovativa e meravigliosa sperimentazione sociale ed economica che sono le cooperative di comunità e che le ha offerto l’idea di partenza per questo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9791220138680
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    Anteprima del libro

    Come la pioggia per le lumache - Anna Maria Bondi

    I - Autunno

    1.

    Il borgo era deserto. Il rumore dei suoi passi sull’acciottolato, un tempo rassicurante, ora riecheggiava sinistro. La luce fioca dei lampioni creava ombre nuove. Durante il viaggio aveva come assaporato quei primi attimi di riscoperta, certa che nulla fosse cambiato, che l’incedere del mondo, lì, non avesse attecchito. E invece, nessun aroma di antica sapienza culinaria nell’aria, nessuna saracinesca veniva serrata per aprire serate liete. Nessun suono familiare. Affrettò il passo nonostante il peso dell’unica valigia che si trascinava dietro.

    L’odore di chiuso e umidità l’avvolse non appena si chiuse la porta alle spalle. Esattamente quello che si aspettava. Così come il click degli interruttori non a norma e le espressioni severe nelle foto di famiglia alle pareti. Le trine, ora ingiallite, erano lì dove se le ricordava, come le nature morte, la frutta finta. Tutto intatto, indifferente al trascorrere del tempo. Anche la polvere sembrava aver dimenticato di depositarsi, come per omaggio alle tante premure che nonna Ada, negli anni, aveva dispensato per quelle stanze, armata di spolverini, pattine e battipanni. La guardava da una cornice sulla parete dell’ingresso, impettita e seria. Tutto in quella casa sapeva di lei, raccontava la sua sobrietà, la sua schiena dritta a dispetto dei colpi della vita, la sua compostezza, quasi non fosse mai stata attraversata da dubbi, rancori, passioni, cedimenti, disgrazie, illuminazioni. Poche cose. Poche e semplici. E ciascuna al suo posto. Nelle lunghe estati trascorse con lei in quella casa, le differenze che le separavano non erano mai state nascoste, né, tantomeno, taciute. Ugualmente, l’affetto schietto e privo di condizionamenti che da sempre le aveva unite. Leda fissò la foto, quegli occhi scuri, cercando la complicità di un tempo, quel riflesso accogliente dove rifugiarsi. Un sorriso e poi una lacrima e la certezza di trovarsi dove voleva essere.

    2.

    Aprire le persiane, spalancare le finestre e respirare a fondo. Prima azione della mattina per un tempo indefinito che sembrava non bastare mai. L’importante era che entrasse aria, nei polmoni, nelle stanze, nelle fessure, tra gli oggetti. Aria nuova, ossigeno, luce, suoni, rumori. Ma, a parte il sibilare del vento, non si sentiva altro: ancora silenzio. Leda pensò che magari il problema era lei, le sue percezioni distorte da troppi anni di caos cittadino, ininterrotto, giorno e notte, d’estate e d’inverno. Forse il passaggio brusco dalla metropoli al borgo ne amplificava il silenzio. Oppure Pieveradice ormai era deserto, erano tutti morti, colti da asfissia durante la notte per una misteriosa e improvvisa nube di gas che aveva inglobato tutto il borgo, tranne la casa di nonna Ada, che, chiusa da anni, aveva conservato ossigeno, permettendole di salvarsi e di essere l’unica superstite di un’immane tragedia… No, la prima ipotesi era più probabile, poteva evitare di preparare il racconto da fare alla stampa e smetterla di ingarbugliarsi nelle solite fantastorie.

    La casa di nonna Ada era al primo piano di un bell’edificio in pietra, la cui facciata dava su una delle vie principali del borgo, mentre il retro proiettava sui campi di olivi che circondavano il paese e sulle colline dei dintorni. Fino a pochi anni prima, il piano terra era stato occupato da una drogheria, che, a memoria di Leda, aveva sempre avuto, oltre ai panini al salame più buoni del mondo, un ruolo di raccordo, snodo e proliferazione di chiacchiere e comunicazioni di ogni tipo. Quando per il Signor Pollastri venne il momento di andare in pensione nessuno si fece avanti per rilevare la bottega che da quel momento rimase chiusa e il fondo di nonna Ada sfitto. Leda aveva ereditato tutto l’edificio: fondo, appartamento e soffitta; quest’ultima le era sempre sembrata un luogo magico pieno di segreti, preziosissimi oggetti antichi, documenti fondamentali per comprendere il passato della sua famiglia e le sue origini. Decise di partire da lì e che se era giunto il momento di mettere ordine nella sua vita quello era il luogo giusto da cui iniziare.

    Definiti tempo, spazio e priorità, non le restava altro che cominciare.

    3.

    Beniamino non avrebbe dovuto essere a casa quella mattina, ma il pulmino non era passato. Un nuovo sciopero e niente scuola. Grazia aveva chiesto ai figli più grandi di occuparsi di lui, mentre lei si dedicava alle pecore, ma a 12 e 9 anni le distrazioni imperano e a 4 anni le bici dei fratelli più grandi sono così invitanti, soprattutto mentre loro non guardano. Grazia se li vide arrivare di corsa tutti e tre, Giacomo, il maggiore, pallido e preoccupato, con in braccio Beniamino in lacrime. In scia, affannato e ansimante, Lorenzo, che cercava di trascinare la bici offesa, col manubrio rovesciato.

    La preoccupazione e la rabbia divamparono simultaneamente e si fecero grido scomposto nella gola di Grazia. Due minuti dopo erano in macchina diretti all’ospedale più vicino, a 35 km da casa, Beniamino col braccio destro penzoloni, Lorenzo con lo sguardo basso. Giacomo a casa per badare alle pecore.

    «Non mi posso più fidare di voi, eh, Lorenzo? Che vi avevo detto?» Grazia decise che era meglio non aggiungere altro: quell’insieme di ansia, frustrazione, collera, dispiacere rischiava di farle tirare fuori parole di cui si sarebbe pentita. Riuscì a trattenersi, ma non a frenare le lacrime e il solito tic, più violento che mai, di togliersi i capelli dalla fronte sbuffando.

    Nell’attesa, nel tempo lungo fra accettazione, radiografie e gesso che venne messo al braccio di Beniamino, Grazia sentiva montare vergogna e inadeguatezza: osservava i suoi figli, sporchi, spaesati, spaventati, si guardava le mani segnate da ferite sempre nuove, notava la polvere e i peli che ricoprivano i suoi vestiti, del tutto fuori luogo in un ospedale. Si vide da fuori e provò una pena nuova che non si aspettava, un misto di rassegnazione e consapevolezza che nulla sarebbe mai cambiato, che quella condizione era inevitabile, che la compassione era tutto ciò cui poteva ambire una donna con tre figli, un lavoro duro, un marito assente 6 giorni su 7.

    «Grazia, che è successo? Che ci fate qui?» Bruno Viti, il sindaco, era davanti a lei, col suo viso rubicondo, aperto e accogliente, gli occhi piccoli e acuti.

    Grazia si aprì in un sorriso triste, ma grato per essere stata distolta da quei pensieri cupi.

    «Bruno, ciao. Eh… Beniamino, il braccio. La bici del fratello era meglio che far compagnia alla mamma nella stalla. Come dargli torto, no? Ci ha pensato il braccio a dargli torto. Ed è andata bene! Che se saltava giù dal muretto altro che braccio…»

    «Ma oggi niente scuola?»

    «Oggi niente: sciopero. Senza preavviso, al solito, e non sono riuscita ad organizzarmi per tempo.»

    Grazia abbassò lo sguardo e si lasciò sfuggire un sospiro, che ricacciò dentro portando entrambe le mani alla bocca. Bruno le cinse le spalle col braccio possente e la fece sedere.

    «Non è facile, Grazia. Hai tante responsabilità. Non ti accollare però anche quelle che non hai.»

    «La salute dei miei figli è mia responsabilità.»

    «Certo, e la salute dei cittadini è la mia. Ognuno deve essere messo nelle condizioni di poter assolvere ai propri doveri e alle proprie responsabilità. Colpevolizzarsi quando qualcosa va storto non serve a niente.»

    «Colpevolizzarsi forse no, non serve, ma neanche pensare che la colpa sia sempre di qualcun altro. Altrimenti non si risolve mai nulla, non cambia mai niente.»

    «Non credo che tu ti risparmi. Cosa puoi fare di più? Con tre figli, Andrea sempre via per lavoro, un’azienda da mandare avanti, i tuoi che non stanno bene… A che ora ti svegli, Grazia? A che ora vai a letto?»

    «Appunto! Lo vedi che c’è qualcosa che non torna?! Non è pensabile che, nonostante tutti gli sforzi, si debba vivere sempre nell’urgenza, sempre in ritardo, sempre in affanno. Via, giù, basta, tanto son discorsi che si son già fatti e le lagne non cambiano le cose. Te piuttosto, perché sei qui?»

    «Nulla di che, un controllo. È tutto a posto. E già che c’ero ho accompagnato anche la Fiorella a farsi dare un’occhiata, almeno per un paio di settimane non la sentiremo inventarsi chissà quale nuovo male! A proposito, ma lo sai chi è tornato accanto a casa della Fiorella? La Leda, te la ricordi? La nipote dell’Ada! È arrivata ieri sera da Roma e stamani l’ho incrociata quando son passato a prendere la Fiorella. Che impressione vedere di nuovo quelle persiane aperte… se penso a tutte le chiacchierate che ci ho fatto con l’Ada, a quel cestino che calava giù da basso… le mettevamo la spesa e tirava su… E stamani è stata una bella sorpresa, ma ero di corsa e non ci ho parlato per bene. Dopo sentirò che intenzioni ha la Leda, se starà qui per qualche giorno o cosa.»

    Certo che se la ricordava la Leda, la straniera di Roma che arrivava a giugno e ripartiva ad agosto, la bambina timida e tenace che voleva imparare a salire sugli alberi, la bicicletta sempre nuova, sempre rosa, le corse per i campi fino a rimanere senza fiato, le confessioni sulla panchina dei pettegolezzi al calare della sera, le lettere che si scrivevano, inverno dopo inverno sempre meno. Fino a che non venne più, perse le tracce dai 14 anni. Qualche notizia da nonna Ada, ma poi la vita scorre, i ricordi si annacquano e con tutto quello che offre la capitale figuriamoci che vita che fa, mentre qui si cambia solo il nome alle pecore e ci si fidanza per esclusione. Grazia e Leda sempre insieme, dicevano. Vieni a Roma. Quando finisci la scuola, vieni a Roma, ci sono io. Ma finita la scuola, il babbo malato, il fratello militare. E rimanere è un attimo. Se non fosse per quel retrogusto amarognolo che ogni tanto si affaccia, non ci penseresti neanche più a quei progetti sfumati, a quelle lettere sospese, a quella sensazione triste di essere stata dimenticata.

    «Spero di incrociarla, sono tanti anni che non la vedo. Stai bene, Bruno, ci vediamo presto. Salutami la Fiorella.»

    4.

    In soffitta l’ordine proverbiale di nonna Ada appariva meno proverbiale che nel resto della casa, ma si capiva subito che erano state le generazioni successive ad approfittare di quegli spazi vuoti per generare il caos. Superati i primi strati di oggetti vari dall’aria tutt’altro che utile, emergeva una qualche forma di ordine e logica: una parete era dedicata a libri, documenti, quadri e cornici, un’altra a scaffalature con bottiglioni, scatole, utensili da cucina, attrezzi da lavoro; alla terza parete erano invece appoggiati due armadi e due grossi tavoli sotto e sopra i quali si trovavano bauli, valigie e ancora scatole chiuse.

    La prima cosa che colpì lo sguardo di Leda fu una vecchia scatola di latta blu di biscotti al burro Royal Dansk su uno scaffale: se la ricordava benissimo, conteneva tutto l’occorrente per i suoi disegni, sacralmente conservato nella madia della cucina perché ad ogni suo arrivo Leda potesse subito mettersi all’opera. Lei disegnava e la nonna cucinava, ognuno il suo ruolo, in silenzio, dandosi una mano a vicenda al momento del bisogno.

    Si dice che il blu sia il colore del ricordo, che basti pensare al blu per farsi tornare in mente quello che al momento sfugge. Che sia vero o meno quella scatola blu dette il via ad una serie di ricordi che portò Leda indietro nel tempo: le matite, l’appunta lapis trovato nell’uovo di Pasqua, l’aglio che sfrigola in padella, l’insalata a mollo nel lavandino, le penne al burro scotte, le voci dalla strada, la televisione in bianco e nero in sottofondo… Tutto semplice e noto e lento: dalla nonna a Pieveradice il tempo non andava alla stessa velocità di quello di Roma, questo era sicuro. Ma non era perché si trattava di un tempo di vacanza, non poteva essere per quello, perché quando Leda andava in vacanza coi suoi genitori il tempo viaggiava alla stessa velocità di quello di Roma. E non poteva essere neanche una magia di nonna Ada, perché quando li veniva a trovare a Roma il tempo andava come al solito. No, non era neanche quello: era proprio una cosa diversa, che Leda cercava di spiegarsi con ipotesi fantascientifiche e storie di ascensori temporali invisibili posizionati al casello dell’autostrada che, all’insaputa di tutti, ti facevano piombare in una dimensione parallela, dotata di una velocità diversa e, di conseguenza, ti permettevano anche di invecchiare più lentamente. Questa ipotesi fra l’altro poteva spiegare benissimo tutti quei vecchi che si vedevano solo a Pieveradice e la pelle del viso di nonna Ada, levigata anche in tarda età.

    Fatto sta che, forse complice questa misteriosa condizione temporale, forse perché avevano avuto la possibilità di sedimentarsi, i ricordi relativi a Pieveradice erano per Leda di una vividezza che nessun altro ricordo della sua infanzia poteva vantare.

    Leda continuò a toccare le matite e a ripescare fotogrammi di memoria per qualche attimo sospeso.

    A un tratto, da sotto le matite, un foglietto con un disegno: due bambine che si tengono per mano – nel suo stile sempre uguale: occhi grandi, ciglia e capelli lunghissimi, un piede davanti e uno spostato di lato –, leda e grazia in stampatello sopra le loro teste, con cuoricini sparsi.

    5.

    Il tardo pomeriggio forse è il momento migliore per bussare a un portone che non si vede da qualche decennio. La mattina no: se è tutto ok, non c’è nessuno, se c’è qualcuno invece è probabile che stia male ed è appunto meglio non disturbare, almeno non parti subito col piede sbagliato. La sera non se ne parla, sai mai quali emozioni si liberano e poi chi dorme più e domani invece c’è da alzarsi presto per andare a lavorare. E poi ecco, appunto, a proposito del lavoro, forse è meglio il venerdì, così se il tardo pomeriggio si allunga si può indugiare nelle chiacchiere senza il pensiero del giorno successivo. Certo, se il sabato non si lavora… Se il sabato si lavora è tutta un’altra storia. Ma chissà se Grazia lavorava e quale lavoro faceva, chissà se abitava ancora in quella magnifica casa circondata da campi e pascoli e boschi, chissà se gravitava ancora su Pieveradice o se si era involata per qualche luogo dove la vita è apparentemente più semplice per mettere su famiglia e portare a casa uno stipendio, dove le occasioni sono più numerose, o dove c’è più avventura, dove amori e passioni si rincorrono come nei film, dove puoi avere solo rimorsi, ma mai rimpianti…

    Le ultime notizie che Leda aveva di Grazia si erano perse tra le righe asciutte di una cartolina di forse 25 anni prima. Non c’era mai stato uno screzio tra loro, Leda ne era certa, ma non ricordava le loro ultime parole, il loro ultimo abbraccio, né il loro ultimo saluto. No, niente di eclatante, la loro amicizia si era appannata, senza nessun motivo particolare, così, come le cose accadono, con la naturalezza di uno sguardo che a un certo punto si posa altrove, scordandosi di quello che ne aveva catturato l’attenzione fino al minuto prima. Quella cartolina di Grazia non doveva essere l’ultima, ma, all’insaputa di entrambe, lo era diventata.

    Da quando la nonna si trasferì a Roma, perché ormai non riusciva più a vivere da sola, Leda non era più tornata a Pieveradice e a 15 anni i fine settimana e le vacanze estive li passi altrove, cerchi altro. Tutto qua. E a 15 anni quel che non è nel qui e ora semplicemente non è, magari si mette in fila per essere poi ripescato fra i ricordi se gli andrà bene o, altrimenti, piomberà nell’oblio. L’amicizia con Grazia era comunque riuscita ad assicurarsi un posto nella top ten dei ricordi di Leda: aveva segnato troppe domeniche, troppe estati, troppe avventure così intense e una fiducia tanto smisurata che non sarebbe stato possibile diversamente. Piccoli pesci fuor d’acqua entrambe nei loro ambienti quotidiani, quando stavano insieme trovavano invece l’una nell’altra quella nicchia ecologica giusta per loro, senza bisogno di tanti infingimenti o spiegazioni. Con Grazia era tutto semplice, le cose erano chiare, gli obiettivi definiti e, soprattutto, non c’era mai nulla di cui avere paura. Quando Leda era con lei sapeva che non le sarebbe mai potuto succedere niente di brutto e si sentiva sicura, se stessa. Senza maschere: LedaBravaBambina fu la prima maschera di Leda che Grazia derise e scardinò con una sola mezza battuta; LedaVittimaDelDivorzioDiMammaEPapa fu la seconda a cadere insieme a LedaNessunoMiCapisce; per LedaSempreInnamorataAllaFollia, che tra i 12 e i 14 anni andava per la maggiore, oltre a un paio di delusioni cocenti fu sicuramente il colpo di Grazia a decretarne la caduta. Grazia sapeva sempre come farla ridere, come smontare le sue costruzioni artificiose, le sue elucubrazioni alla deriva dalla concretezza.

    E forse ora, ora che di concretezza sentiva il bisogno di nutrirsi, ora più che mai rivederla l’avrebbe aiutata. Non era tardo pomeriggio e non era un venerdì, ma era quello il momento giusto per chiudere la soffitta e andare a cercare Grazia.

    6.

    Nel piazzale davanti alla casa due ragazzini giocavano a calcio e uno, un braccio rotto, li guardava seduto su un tavolo dondolando i piedi. Quando Leda scese dalla macchina i tre si fermarono e la guardarono.

    «Maaamma, c’è una signora. Vieni!» gridarono in direzione della stalla non appena Leda scese dalla macchina.

    Grazia, schiena dritta, pelle scura, una mano fasciata, i capelli neri ribelli nonostante i denti di una pinza sbilenca, gli occhi brillanti e piccoli nella messa a fuoco dell’ospite. Non appena gli sguardi si riconobbero, un sorriso attraversò i due volti anticipando di qualche attimo il calore dell’abbraccio che ne seguì.

    «Allora? Cosa ti porta qui? Ti sei presa qualche giorno di vacanza?» chiese Grazia versando il caffè.

    «No, non sono in vacanza.» Leda si guardava intorno. La cucina di Grazia era grande e piena di cose, diversa da come la ricordava, ma ugualmente accogliente nella luce calda del pomeriggio: legno, marmo e cotto i materiali dominanti, al centro una grande tavola dove avrebbero potuto sedere dieci persone. Era evidente che fosse il cuore pulsante della casa, il regno di Grazia, che ci si muoveva sicura e rapida. Lo sguardo di Leda indugiava sui disegni dei bambini che tappezzavano le pareti, il frigorifero, i fogli sparsi qua e là sugli scaffali e sulla tavola.

    «Sei venuta per provare a vendere la casa di tua nonna?»

    «No, no. Non credo. Non è in programma almeno. Non adesso, no.»

    Grazia restò un attimo in attesa, mentre Leda si guardava intorno sorridendo senza dire nulla, forse ripescando qualche ricordo venuto a galla.

    «Capisco… È una bellissima casa, del resto, e oggi forse non riuscireste neanche a venderla per il prezzo che vale.»

    «Sì, infatti. Lo penso anche io. Anche qui è bellissimo. Non bello come ricordavo, forse più bello. Si vede che c’è il tuo tocco adesso. Se fossi nata qui, anche io non me ne sarei voluta andare.»

    «Non credere che non ne abbia mai avuto la tentazione.» Grazia si sedette di fronte a Leda e guardò l’amica, i suoi occhi grandi e vivaci, le rughe leggere che le solcavano gli angoli del sorriso, quelle più profonde tra le sopracciglia, la fronte alta, più alta di come la ricordasse. «Dalla tentazione all’azione però ce ne passa…» proseguì Grazia. «Ed eccomi qui. Mi ritrovi dove mi hai lasciata! Ma dimmi un po’ tu invece… Che giri hai fatto? Che cosa ti ha riportato qui?»

    «Sono un po’ in fuga e un po’ a caccia. Potrei dirti che fuggo da Roma, dal caos, dalle code nel traffico, da un lavoro stressante, da colleghi invidiosi… Non ti mentirei, ma non è questo che mi ha fatto scappare.» Leda ebbe un attimo di esitazione. Alzò lo sguardo dalla tazzina di caffè agli occhi di Grazia, accoglienti come la sua cucina, lo stesso tono di marrone e la stessa solidità della tavola. «… E, al solito, la storia è molto più banale e scontata: pensavo fosse quello giusto, 6 anni insieme senza mai un litigio te lo fanno pensare. Bello, ricco, simpatico, pensavo che avrei voluto vivere il più a lungo possibile accanto a lui, avevo anche smesso di fumare, pensavo che sarebbe stato il padre dei miei figli… Ma c’era proprio su questo qualche intoppo e i figli non arrivavano. Dopo una serie di esami viene fuori che avremmo avuto bisogno di un aiuto, avremmo dovuto tentare con l’inseminazione. Fiduciosi e ottimisti decidiamo di andare avanti.» Leda si fermò, abbassando lo sguardo e inspirando profondamente. Tra le sopracciglia le due rughe verticali si fecero più nette.

    «Avevo già il camice, io più puntuale che mai, lui, come sempre, in ritardo. Alla quinta chiamata mi risponde e mi dice che non se la sente, che non verrà. Non ero all’altare con la chiesa gremita di parenti e amici, un prete in imbarazzo e un pranzo di nozze in preparazione… Ma credo che la sensazione sia più o meno la stessa. Unici testimoni un’infermiera in preda al panico e un medico scocciato. Dopo qualche minuto di completo stordimento mi sono rivestita, mi sono scusata e sono uscita, in cerca di aria fresca. Ma niente, anche in strada mi mancava l’aria, mentre continuavo a domandarmi come potevo essere stata così cieca e sorda, per tutto quel tempo, in mezzo a tutti quei discorsi, a tutte quelle, evidentemente solo mie, speranze e aspettative.»

    Grazia ascoltava in silenzio, immobile. Leda bevve un sorso di caffè e proseguì.

    «Te li puoi immaginare i pensieri, non te li racconto. L’unica consolazione era pensare che, se non altro, mio figlio si era evitato un padre di merda. E poi, come da copione, impacchettai le sue cose e gliele spedii. Non ci siamo parlati, non gli ho più risposto al telefono. Andavo al lavoro, facevo più o meno finta di niente, non ne parlavo con nessuno. Dopo due settimane mi sentivo sempre col fiato corto, non miglioravo. Polmonite. Chiusa in casa per un mese, da sola: mi ha assalito un mondo di pensieri che non credevo neanche di riuscire a produrre. Quando sono riemersa, quando ho rimesso piede fuori mi è subito risultato chiaro che niente di quel che mi circondava faceva più per me. Ho provato con le solite cose: yoga, passeggiate, una psicoterapia… Risultati scarsi. Stavo sempre male, c’è poco da dire, il succo è questo. Ci voleva una strategia d’uscita fatta a modo, senza colpi di testa. Ho pensato ai luoghi dove sono stata bene e dove avrei voluto, potuto vivere. Pieveradice era tra questi. La casa di via Mazzini di nonna Ada era toccata a me in eredità e ancora non ci

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