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I tre grandi romanzi per ragazzi: INCOMPRESO / IL RICHIAMO DELLA FORESTA / L'ISOLA DEL TESORO
I tre grandi romanzi per ragazzi: INCOMPRESO / IL RICHIAMO DELLA FORESTA / L'ISOLA DEL TESORO
I tre grandi romanzi per ragazzi: INCOMPRESO / IL RICHIAMO DELLA FORESTA / L'ISOLA DEL TESORO
E-book497 pagine6 ore

I tre grandi romanzi per ragazzi: INCOMPRESO / IL RICHIAMO DELLA FORESTA / L'ISOLA DEL TESORO

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Info su questo ebook

Tre tra i romanzi per ragazzi più belli mai scritti. Forse i più belli in assoluto. Romanzi d’avventura e anche romanzi di formazione. Per la prima volta in un unico volume tre mondi diversi, ognuno affascinante nel suo particolare modo. Dalla grande casa vibrante di tenerezze e di emozioni all'immenso freddo dell'Alaska ai paesaggi assolati e salsi dei mari tropicali. Leggere questi racconti vuol dire provare esperienze indimenticabili. Per i ragazzi e per gli adulti.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2021
ISBN9791220849999
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    Anteprima del libro

    I tre grandi romanzi per ragazzi - Robert L. Stevenson

    INCOMPRESO

    Traduzione

    Nazzareno Luigi Todarello

    PARTE PRIMA

    I

    Quella che sto per raccontarvi è la storia di un bambino. Un bambino colpito da una grande sventura. Perché ha perso la madre. Nel senso che sua madre è morta troppo presto. Quindi una storia triste. Molto triste. Ma è anche una storia piena di cose belle e anche allegre, perché la gioia di un bambino, alla fine supera tutto, anche la morte.

    Pioveva forte sui campi e sui prati, sui giardini e sulle aiuole, sui tetti e sulle guglie di Wareham Abbey, nella contea di Sussex. Non si era fermata un minuto, finito il pranzo nella nursery. Sparecchiato, due piccole teste piene di riccioli si schiacciavano, una vicino all'altra, contro i vetri della finestra della nursery, e due paia di occhi fissavano incantati il gioco delle nuvole nel cielo.

    Pomeriggio piovoso! Noiosissimo! Soprattutto perché i due piccoli non vedevano l’ora che arrivasse il momento di andare a prendere il padre alla stazione. Aveva promesso di tornare quel giorno.

    Sarebbero andati col calesse. Posto per Virginie non ce n’era, ma potevano andare con il cocchiere, Peter. Sarebbe stato un gran divertimento. Certo dovevano promettere di stare seduti e fermi, di non mettere il piede sulla ruota per salire, e anche di non saltare giù prima che il calesse fosse fermo… Ma comunque!

    Stare un po’ senza Virginie, che pacchia! La tata sembrava fatta apposta per impedire che si divertissero. Sempre in allarme. Vedeva pericoli dove loro vedevano solo divertimento. Ogni momento: Ne faites pas ceci, ne faites pas cela¹. Ne avrebbero fatto volentieri a meno. Anzi l’avrebbero condannata a qualche severa pena, se avessero potuto. Eppure Virginie era una brava donna, dai buoni propositi. Era solo ansiosa, molto ansiosa. Sentiva la grande responsabilità di accudire i figli di un uomo senza moglie, vedovo, molto spesso lontano da casa. Responsabilità che le rendeva la vita difficile, tanto più che i due erano diavoli scatenati, senza paura di niente, spericolati e disubbidienti. Preghiere e rimproveri con loro erano del tutto inutili.

    Il minore, il piccolo Miles, da solo era abbastanza buono e lei riusciva a domarlo. Forse perché era ancora piccolo. Ma Monsieur Humphrey! Quando ne parlava con il padre non poteva fare altro che alzare le mani e gli occhi al soffitto, non volendo dire parole troppo severe.

    Sir Everard Duncombe era membro del Parlamento. Stava quasi sempre a Londra durante la sessione, all'infuori di qualche scappata nel weekend. I suoi figli, in quel periodo dell'anno, lo vedevano poco. Quando era a casa, quelle poche volte, Virginie lo soffocava di lamentele: Monsieur Humphrey si è arrampicato su alberi altissimi e si è buttato giù. E poi è entrato nelle scuderie e si è ficcato sotto gli zoccoli dei cavalli. E si è infilato nella cuccia vicino al cane da guardia. E per miracolo non è caduto nello stagno. Eccetera eccetera. Il racconto delle sue malefatte non finiva mai. E quel che è peggio è che le fa fare anche al piccolo. Miles voleva imitare il fratello più grande. Faceva tutto quello che faceva lui. Pronto a seguirlo.

    Miles è diverso dal fratello. Humphrey è a prova di bomba contro i raffreddori, la tosse e ogni genere di malanni. Il piccolo invece è di salute cagionevole. È debole di polmoni. Correnti d’aria, piedi bagnati e cose del genere gli possono fare molto male e….

    Miles era di natura timida e gentile, affettuoso e tenero, la gioia di suo padre. Gli slanci di Sir Everard erano dedicati quasi esclusivamente a lui.

    Lady Duncombe, già un po' di tempo prima di morire, si era accorta della parzialità di suo marito nei riguardi del minore e spesso l'aveva ripreso su quel punto.

    - Miles è una creaturina così tenera - rispondeva lui. Prendeva in braccio il piccolo e gli accarezzava la testa ricciuta. Miles, felice, si nascondeva contro la sua spalla. - Vedi, quando prendo Humphrey in braccio, lui fa di tutto per divincolarsi e scendere, per potersi arrampicare sulle sedie e sui tavoli.

    - Humphrey ha tre anni di più - ribatteva Lady Duncombe. - Non puoi pretendere che un bambino di quell'età se ne stia tranquillo seduto come uno che non ha ancora due anni. Anche lui è tenero e affettuoso… in modo diverso.

    - Può darsi, ma mi sento sciogliere quando tengo in braccio un cosino come Miles. È capace di starsene così per ore.

    Lady Duncombe non rispondeva, ma il suo sguardo andava a posarsi sul maggiore dei suoi bambini, che per tre anni era stato il suo unico figlio. Per lei Humphrey era motivo d’orgoglio. Le piacevano i suoi modi virili, il suo non stare mai fermo, la sua pronta intelligenza. Le ruvide carezze di quelle mani non le erano meno care di quelle del piccolo. Le piaceva vederlo irrompere a rotta di collo nella stanza e saltarle in braccio, anche se, correndo così, rovesciava una sedia o buttava all’aria il suo cestino da lavoro, sporcando poi il divano con i suoi stivaletti infangati. Che importava? Non la baciava con ardore sulle guance? Le sue care piccole braccia grossolane non la abbracciavano? La mamma sapeva che cuore batteva sotto l’apparente noncuranza. Che cosa importava se dimenticava ogni ordine e ogni promessa? Purché non dimenticasse lei! Degli altri non le importava. Le bastava che continuasse a desiderare i baci e gli abbracci della mamma.

    Fu un triste giorno per il piccolo Humphrey Duncombe quello in cui la sua mamma fu portata via, lontano, il giorno che la lunga malattia devastatrice si concluse nella morte. Gli occhi incavati erano rimasti posati su di lui fino all'ultimo istante. Poi si chiusero. Qualcuno le dispose in croce sul petto le mani delicate. Quel petto nel quale non avrebbe mai più nascosto la testa, singhiozzando, confessando e pentendosi.

    Sir Everard, sopraffatto dalla sciagura che l'aveva colpito, vide ben poco i bambini durante i primi giorni del suo lutto. Quando li rivide, fu sorpreso di costatare che Humphrey era rimasto lo stesso: sempre rumoroso e sfrenato, sempre pronto a qualsiasi mascalzonata. Come se non fosse successo niente. È senza cuore pensava dentro di sé mentre osservava il suo primogenito, vestito a lutto, inseguire gli agnelli nei prati.

    Sir Everard era convinto che il ragazzo era rimasto lo stesso perché lo vedeva nei suoi momenti d'oblio. In quei momenti la natura e l'infanzia facevano trionfare i loro diritti. L’esuberanza di Humphrey scacciava il pensiero e il dolore. Ma non lo vedeva quando lo prendeva l'angoscia della perdita. Non lo vedeva trasfigurarsi in viso quando lo assaliva il ricordo. Non sentiva il mamma pronunciato a metà, soffocato da un singhiozzo. Non vedeva il suo correre nel salotto con qualche nuovo tesoro, qualche nuovo progetto da raccontare a lei… e l'improvviso arrestarsi quando, di colpo, gli arrivava il pensiero che ora, sul divano, non c'era più la mamma sorridente ad aspettarlo. Non lo avrebbe mai più ascoltato. Non avrebbe partecipato alla sua vita. Niente baci. Nessuna parola affettuosa. Niente. Il padre non sentiva i singhiozzi d'angoscia, quando abbandonava le braccia lungo i fianchi e correva fuori, all'aria aperta, via, via, lontano, in qualunque posto, per sfuggire al dolore, alla nostalgia, a quel desolato vuoto.

    Soltanto Dio, che sta in cielo, ma posa lo sguardo sulle creature della Terra, anche le più umili, sapeva cosa c’era nel cuore del ragazzo. Solo Lui vedeva il cuscino bagnato di lacrime e sentiva, nel pieno della notte, il grido che erompeva da quel povero cuore di orfano: Oh mamma, mamma! Come farò senza di te?.

    Tutto questo era successo circa due anni prima del giorno del quale sto parlando, quando la pioggia batteva incessante davanti ai due piccoli spettatori alla finestra. Dalla mente di Miles il ricordo se ne era andato come se niente fosse. Non si ricordava nemmeno della mamma. Ma nella mente del figlio maggiore la memoria di lei era ancora viva. Potevano anche passare settimane e mesi senza che il suo pensiero si fermasse su di lei, ma poi, d'un tratto, un fiore, un libro, un piccolo oggetto, riportava indietro tutto. Allora il suo petto si sollevava, la testa ricciuta restava china e i vivaci occhi scuri si offuscavano per le lacrime.

    Nel salotto ormai fuori uso di Lady Duncombe c'era un quadro, di grandezza naturale. C’era dipinta la mamma con Humphrey tra le braccia. Quando era triste o quando non aveva voglia di sentire Virginie, il bambino si rifugiava non visto nella stanza e ci restava, accucciato in un angolo sul pavimento, come era accucciato in braccio alla madre nel quadro, e cercava di immaginare il tepore di quelle braccia che lo stringevano e la sua spalla sulla quale appoggiare la testa.

    C’erano giorni in cui facevano le pulizie anche in quella stanza. Le imposte pesanti erano spalancate e la luce del giorno illuminava il quadro.

    Allora i due fratellini stavano in piedi, lì davanti. Il più grande diceva al più piccolo tutto quello che ricordava di lei. Miles aveva il massimo rispetto e la più grande ammirazione per Humphrey. Un bambino di sette anni che porta i calzoni è oggetto di venerazione per uno di quattro costretto ancora al pagliaccetto. L'immaginazione di Miles non andava oltre quello che vedeva. Quella per lui era solo una camera chiusa. Per questo il suo rispetto cresceva nell'ascoltare la vivace descrizione che Humphrey gli faceva del passato, quando quel salotto era tutto un bagliore di luci, alla finestra pendevano le tendine di mussola e tutte le sedie erano coperte di stoffe a grandi fiori… e la mamma stava seduta sul divano, col suo tavolino da lavoro vicino.

    Debole e sbiadita era l'idea che il piccolo poteva farsi di quella mamma di cui il fratello parlava a bassa voce e con gli occhi lucidi. Ma che fosse qualcosa di molto bello e sacro era chiaro anche per lui.

    Sotto questo aspetto il suo senso d’inferiorità di fronte a Humphrey era profondo e la vergogna s’impadroniva di lui quando una delle loro conversazioni veniva bruscamente troncata da Humphrey: È inutile. Non capisci. Non te la ricordi. Allora sulla faccia di Miles si dipingeva un'espressione di malinconia che sembrava ammettere umilmente la sua inferiorità.

    Era appunto l'ammirazione di Miles per il fratello che costituiva il pensiero ansioso della vita di Virginie. Timido di natura, Miles si faceva ardito quando Humphrey dava il la. Di solito era obbediente e sottomesso cioè quando era solo, ma a un cenno di Humphrey si sentiva di sfidare Virginie e voleva diventare un tremendo come lui.

    Che l'union fait la force², Virginie l'aveva scoperto da un pezzo, a tutto scapito dei suoi nervi e del suo umore.

    Ora Virginie aveva detto e ridetto che, se Humphrey si metteva l'impermeabile e le soprascarpe di gomma, avrebbe potuto andare incontro al papà alla stazione. Humphrey aveva consentito, a patto che Miles potesse andare anche lui. Ma su questo punto Virginie fu irremovibile. In una giornata così umida, non sarebbero bastati tutti gli infagottamenti del mondo a impedire che Miles si prendesse un raffreddore. Lo sapeva per triste esperienza. Così aveva deciso: o Humphrey accettava di andare da solo o sarebbero rimasti a casa tutt'e due.

    - Non andare - supplicò il piccolo Miles, con il naso schiacciato contro il vetro della finestra. - Morirò di  noia a casa con Virginie.

    - È una vecchia brontolona - disse Humphrey, - ma non pensarci, Miles: senza di te non vado. Staremo qui a contare le gocce d'acqua sulla finestra per fare passare il tempo in fretta.

    Goccia dopo goccia un'altra mezz'ora passò presto. Il calesse salì lungo il viale e stava quasi per raggiungere l'atrio quando se ne accorsero.

    - Qu'est-ce que c'est donc!³- urlò Virginie, spaventata. Humphrey era saltato dal davanzale della finestra.

    - C'est mon pére⁴. - Rispose, precipitandosi fuori della stanza.

    - M. votre père! Attendez donc que je vous arrange un peu les cheveux⁵.

    Come parlare al vento. Humphrey stava correndo giù dalle scale.

    Miles invece fu agguantato e spazzolato nonostante la sua strenua difesa. Poi scappò via a raggiungere il fratello.

    Miles arrivò al portone proprio mentre la vettura si fermava. I due accolsero con salti e risa l'alto signore vestito di scuro che intanto si liberava dell'impermeabile e dell'ombrello.

    Il papà si chinò e baciò i due faccini impazienti.

    - E dunque, piccoli, come state? Nessun osso rotto in questa settimana? Niente sbucciature e niente lividi, spero!

    Erano così presi dalla presenza del papà che non si accorsero che non era solo. Un altro signore era sceso dal calesse, ma loro non lo avevano neanche visto. Sir Everard allora ordinò:

    - Ora andate a stringere la mano a quel signore. Chissà se sapete chi è.

    Humphrey guardò in faccia il giovanotto e si accese in volto:

    - Credo che tu sia lo zio Charlie. Sei venuto a trovarci tanto tempo fa, prima di andar per mare e prima che...

    - Esattamente - lo interruppe Sir Everard. - Non credevo che te lo saresti ricordato. Vedi, Charlie, Humphrey non è molto cambiato? Ma quest’altro bambino qui era proprio un bebè quando tu sei partito. - E prese in braccio Miles, guardando il cognato per ottenerne l'ammirazione.

    - Che somiglianza! - Disse lo zio Charlie.

    - E non sotto un solo aspetto, temo. Guarda - e indicò il tenue tracciato delle vene azzurrine sulla fronte e il rossore delle guance delicate.

    Humphrey aveva ascoltato attentamente la conversazione, e poiché suo padre era occupato a dar baci a Miles, era andato davanti allo zio e aveva messo fiducioso la mano in quella di lui.

    - Sei un omino simpatico - disse lo zio Charlie, posando l'altra mano sulla testa ricciuta di Humphrey - e siamo sempre stati amici, noi due. Ma - aggiunse, quasi parlando a se stesso mentre fissava il suo faccino intelligente - tu non assomigli affatto alla tua mamma.

    Risuonò il gong per segnalare che era ora di prepararsi per la cena. Sir Everard si avviò verso la sua stanza. I bambini si avviarono verso la stanza del papà, per aiutarlo, come dicevano loro, mentre si cambiava per la cena.

    Miles si occupò della borsa da viaggio, sperando in qualche regalo. Le attenzioni di Humphrey invece erano per i vari oggetti che tirava fuori dalla tasca della giacca che Sir Everard si era appena tolta.

    Un suono sospetto indusse il papà a voltarsi.

    - Humphrey, che cos'hai preso?

    Humphrey lasciò cadere dalle mani un coltellino aperto. Era appena riuscito ad aprirne le due lame e stava per provare quanto erano affilate sull'unghia del pollice.

    Fallito quel tentativo, le sue dita irrequiete vagarono sul tavolino. Ci fu un profondo silenzio.

    - Humphrey, - gridò il papà - posa subito il mio rasoio.

    Aveva intravisto nello specchio un faccino insaponato e aveva parlato appena in tempo per bloccare l'operazione.

    Al peccato segue sempre la penitenza, e Humphrey fu spedito nella nursery a farsi lavare il viso con la spugna.

    Tuttavia seppe riguadagnare il tempo così spiacevolmente perduto, scendendo le scale in scivolata sulla ringhiera, tanto che arrivò alla porta dello studio nel momento stesso in cui arrivava il papà col piccolo Miles.

    Lo zio Charlie era già lì, vicino alla finestra, bell'e vestito, e poiché il gong risuonò una seconda volta, passarono tutti nella sala da pranzo.

    I due bambini sedevano ciascuno a un lato del papà e di tanto in tanto assaggiavano anche un boccone della sua cena.

    Il pasto proseguiva in silenzio. Lo zio Charlie mostrava di apprezzare molto la minestra e Sir Everard divideva le sue pietanze con i bambini, che le preferivano alle loro.

    - È il compleanno di William, oggi - dichiarò Humphrey, rompendo il silenzio.

    William era il cameriere che li stava servendo. Così improvvisamente chiamato all’attenzione di tutti si fece rosso fino alla radice dei capelli e per poco non lasciò cadere il piatto che stava per deporre sulla tavola, davanti al padrone.

    - Oggi compie ventidue anni - continuò Humphrey; - me l'ha detto lui stamattina.

    Sir Everard si sforzò di mostrare un interesse adeguato a una così importante notizia.

    - A che ora sei nato, William? - proseguì Humphrey, rivolgendosi al timido domestico, che stava in piedi vicino al buffet, e faceva segni al suo tormentatore, nella vana speranza di convincerlo a tacere.

    Sir Everard infilò in bocca al figliolo un pezzo di rombo sulla punta della sua forchetta, Humphrey masticò per un po’ ma non aveva ancora del tutto inghiottito il boccone che eccolo di nuovo:

    - Che cosa regali a William per il suo compleanno, papà? - domandò, appoggiando i gomiti sulla tavola e prendendo il mento tra le mani, per guardare bene in faccia il padre e aspettare la risposta.

    La testa dello zio Charlie si andava sempre più abbassando sul piatto per trattenere le risa.

    - Io lo so che cosa gli piacerebbe, - concluse Humphrey - perché me l'ha detto lui.

    Lo sventurato cameriere afferrò un piatto di portata e fece per andare via, ma l'inesorabile maggiordomo gli passò la maionese ed egli fu costretto a ritornare da padrone per servirlo.

    - Gli ho detto questa mattina - continuò Humphrey, orgoglioso di avere avuto le confidenze di William: - se papà avesse intenzione di farti un regalo per il tuo compleanno, che cosa vorresti? Te ne ricordi, vero, William? E lui allora mi ha risposto, vero, William?...

    Quell'attacco diretto era più di quanto una creatura umana potesse sopportare. William si precipitò verso la porta col vassoio pieno a metà e, nonostante le occhiate furibonde del maggiordomo, scomparve proprio mentre lo zio Charlie scoppiava in una risata.

    - Non devi chiacchierare così a cena, bambino mio - disse Sir Everard, quando la porta si chiuse; - lo zio e io non abbiamo potuto scambiare una parola. Ti assicuro, - soggiunse in tono più sommesso a suo cognato - questi bambini mi tengono costantemente sulle spine: non so mai cosa stanno per dire.

    Quando la servitù ricomparve, i signori, con grande sollievo di William, stavano parlando di politica. Humphrey scavava buche nel sale, seppellendovi cadaveri immaginari, le pallottoline che faceva col pane del papà.

    - Vorresti venire a darmi una mano per la cena della settimana prossima, Charlie? - domandò Sir Everard. - Ho intenzione di invitare gli indigeni, e avrò certo bisogno di un po' di aiuto. Sono ormai più di due anni che non mi occupo dei miei elettori. Mi pare che sia ora di pensarci.

    - Che parolone - commentò Humphrey sottovoce, dando l'ultimo tocco a una montagnola di sale e mettendoci in cima una foglia di prezzemolo caduta dal piatto del pesce. - Papà - continuò, - che cosa sono gli indi... indi...

    - Gli indigeni? - completò lo zio Charlie. - Sono uomini selvaggi dei boschi, Humphrey: metà creature e metà animali.

    - E papà vuole invitarli a cena? - disse Humphrey sbigottito.

    - Sì - confermò lo zio Charlie, prendendo gusto allo scherzo, sarà un bel divertimento per te e per Miles, no?

    - Eccome! - convenne Humphrey, che con un balzo fu giù dalla sedia. - Oh, papà! Prometti, senza domandare a Virginie, che quella sera ci permetterai di scendere a cena a vederli!

    - Mah! quanto alla cena, staremo a vedere - rispose Sir Everard; - i bambini sono piuttosto d'impaccio in simili occasioni, specialmente quelli che non sanno tenere la lingua a posto. Ma verrete tutt'e due nello studio per vederli arrivare.

    In quella fece capolino sulla porta la poco desiderata Virginie e la sua voce sgradita proclamò:

    - M. Humphrey, M. Miles, il faut venir vous coucher⁶.

    Obbedirono molto a malincuore, perché la conversazione si svolgeva ora intorno a un argomento interessantissimo, e Humphrey aveva ancora cento domande da fare sugli indigeni.

    Salirono le scale in silenzio, seguiti da vicino da Virginie, che preferiva sempre vederseli ben davanti.

    Quella sera, però, erano troppo presi dai selvaggi dei boschi che avrebbero dovuto vedere venerdì per poter pensare ad altro, e raggiunsero la stanza da letto della nursery senza causare scosse al sistema nervoso di Virginie.

    L'argomento, anzi, continuò finché furono spogliati e lavati e rincalzati nei loro lettini uno vicino all'altro.

    Virginie chiuse le imposte e, con un respiro di sollievo, andò a cena.

    - Sono contento che se ne sia andata, - disse Humphrey - perché adesso possiamo fare una bella chiacchierata sui selvaggi.

    - Oh, Humphie - implorò il piccolo Miles che non riusciva ancora a pronunciare la r - ti prego, non parliamone più, adesso che è buio. Oppure, se proprio devi parlarne, dammi la tua mano, perché mi fa tanta paura.

    - Allora non parliamone - disse il fratellino maggiore, portandosi tutto sulla sponda del letto e mettendo un braccio intorno al piccolo con aria di protezione. Miles si strinse stretto a lui e con le guance una contro l'altra e le manine avvinte si addormentarono.

    Povere testoline ricciute, sulle quali una mamma amorosa non si chinerà questa sera, mormorando dolci parole di tenerezza e di benedizione! Poveri faccini paffuti, sui quali non si poserà il lungo bacio materno!

    Fuori, nei prati, gli agnelli si coricano vicino alla pecora. Su, tra i rami degli alberi, gli uccellini si scaldano al tepore dell'ala materna. Ma nessun passo leggero, nessun fruscio di gonna, nessuna lampada velata accompagnerà il riposo senza sogni dei due fratellini.

    II

    Sir Everard Duncombe non comparve nella sala da pranzo prima delle nove, ma già molto tempo prima tutta la casa era informata dei suoi movimenti. Perché subito dopo le otto i due bambini si misero di sentinella fuori della sua porta e, non potendo ottenere accesso alla sua camera, si accontentarono di registrare i progressi dei suoi preparativi con voce che risuonava da un capo all'altro dell'edificio.

    - Hai quasi finito di fare il bagno, papà?... Adesso ti stai insaponando?... E ora, che fai?... Ti stai passando la spugna, ora? Che rumore fa papà nell'acqua!... Adesso si starà asciugando: è così tranquillo!

    Poi si udì scattare la maniglia di una porta e quattro piedini lesti si diedero alla fuga.

    - I miei rallegramenti per il pieno confort con cui hai provveduto alle tue abluzioni del mattino - fu il saluto dello zio Charlie, quando Sir Everard entrò in sala per la colazione tenendo i bambini per mano.

    Sir Everard si mise a ridere.

    - In questa casa non ci sono misteri, come vedi - gli rispose, stringendogli la mano. - Che splendida giornata!

    - Magnifica, ma farà un bel caldo. Se ben mi ricordo, la strada per andare alla chiesa è tutta all'ombra. Vengono in chiesa questi due piccoli?

    - Miles no, ma di solito porto Humphrey con me. Incredibile a dirsi, lì se ne sta tranquillo come non mai. Credo proprio che la chiesa sia l'unico posto al mondo dove sia capace di stare fermo.

    Durante tutta la colazione Humphrey fu occupato a sfogliare le pagine del suo libro di preghiere. Era troppo assorbito per chiacchierare.

    - Ecco! - Disse trionfante, dopo che ebbe collocato l'ultimo segnalibro. Si contenne con uno sforzo violento perché stava proprio per lanciare per aria il volume. - Adesso li ho messi a posto tutti.

    - Allora faresti bene ad andarti a vestire - gli disse il papà, così non farai aspettare lo zio e me.

    Humphrey li raggiunse in anticamera proprio all'ultimo momento, ritardato da una scaramuccia con Virginie.

    La strada per la chiesa passava attraverso il giardino e lungo il viale alberato. Uscirono da una porta laterale, lasciando Miles a seguirli sconsolato con lo sguardo.

    Camminarono in silenzio per un po' di tempo.

    Sir Everard si godeva la calma bellezza di quel mattino estivo. Humphrey inseguiva le farfalle e lo zio Charlie si guardava intorno. Ammirava la bellezza dei fiori nel giardino, testimoni muti del gusto squisito di sua sorella, e rievocava col pensiero l'ultima volta che c’era passato per recarsi in chiesa, con lei al suo fianco.

    - Quel bambino avrà troppo caldo prima che si arrivi in chiesa - disse poco dopo Sir Everard. - Mi domando di cosa è fatto, per correre in una giornata come questa.

    - È un bel ragazzo - disse lo zio Charlie. - Ha un aspetto sano e robusto come più non si potrebbe desiderare.

    - Sì. Humphrey non ha mai fatto un giorno di malattia in vita sua. È del tipo della mia famiglia. Crescerà alto e forte come tutti noi.

    - Assomiglia molto ai ritratti degli antenati che guardavo questa mattina. La stessa bella figura eretta e ben fatta, gli stessi occhi scuri. Miles è proprio diverso, invece, così biondo e sottile.

    - Temo che Miles abbia ereditato la costituzione di sua madre - rispose il baronetto con voce preoccupata. - È molto delicato sai, Charlie, e il minimo raffreddore si trasforma subito in angina, o in una tosse insistente. Sono molto in pensiero per lui.

    - Può darsi che gli passi. Crescendo. Anch’io ho avuto i polmoni delicati alla sua età, ma ora non si nemmeno di averli.

    Avevano ormai percorso un buon tratto del viale e Humphrey non si vedeva.

    - Non lo aspetto mai - disse Sir Everard, aprendo il cancello del parco. -

    Finisce sempre per saltare fuori di nuovo.

    Erano circa a metà del cimitero davanti alla chiesa, quando il ragazzo li raggiunse, rosso e trafelato.

    Lo zio Charlie si sentì venir meno al pensiero di aver vicino un essere così irrequieto per tutte le due ore della funzione religiosa, con quel caldo, e seguì i movimenti del nipote con aria preoccupata.

    Giunti sotto il portico della chiesa, Humphrey si tolse il cappello, e scuotendo all'indietro i capelli ricciuti dalla fronte sudata, entrò silenziosamente nella casa del Signore.

    Aprì la strada verso il coro, dove c’era l'antico banco di famiglia.

    Poi si fermò, perché la spranga della porta era molto al disopra delle sue forze.

    Lo zio l'aprì per lui. Pensava che il bambino, naturalmente, si sarebbe seduto vicino al papà, ma con sua meraviglia, il nipotino andò avanti, fino all'estremo limite del lungo banco e si arrampicò sul sedile imbottito, di fronte a un grosso libro di preghiere con sopra il monogramma Adelaide. I contadini raccolti in chiesa si stupivano che padre e figlio prendessero posto a così grande distanza l'uno dall'altro nel banco che quasi mai era occupato da altri. E il vecchio pastore sorrideva scorgendo dal pulpito a un'estremità le larghe spalle e la barba di quell'omone alto quasi due metri, e all'altra la cima della piccola testa bruna. Ma Sir Everard aveva invitato invano il figlio ad avvicinarsi. Humphrey preferiva isolarsi. Il vedovo pensò, una volta, che quella preferenza forse dipendeva dal fatto che quello era stato il posto di sua moglie, ma non aveva mai pensato che Humphrey fosse facile ai sentimenti. Aveva concluso che si trattava di un capriccio e non si era curato di interrogare il bambino in merito.

    Humphrey, a sua volta, non aveva mai confidato a nessuno tranne che a Miles, come gli era caro sapere che il suo sguardo si fissava sullo stesso quadratino del finestrone a colori sul quale si era posato l'occhio della mamma, che i suoi piedi toccavano lo stesso sgabello che avevano toccato i piedi di lei. E, sebbene il grosso libro di preghiere fosse per lui troppo pesante da aprire, gli piaceva appoggiare il suo volumetto rilegato in pelle e tastare con le dita la scritta Adelaide, il monogramma della madre. Non avrebbe saputo spiegare quel qualcosa che la chiesa antica emanava. Lì, più che in ogni altro posto, tutto gli rievocava la madre. Era così. Quel bambino solitamente irrequieto sapeva stare seduto tranquillo al suo posto, ripensando alla prima domenica in cui era andato in chiesa, quando aveva letto le preghiere con lei dallo stesso libro e aveva ascoltato la sua voce melodiosa che si univa al coro.

    La funzione cominciò. Humphrey si precipitò giù dalla sedia. Gli abitanti del villaggio erano abituati, quando si alzavano in piedi, a vedere il baronetto levarsi alto e forte dal suo scanno, mentre la testolina di suo figlio scompariva completamente. Ma lo zio Charlie non era affatto preparato a un così netto cambiamento di scena e credette che il nipote fosse caduto. Invece no, eccolo là, con i piedi ben posati per terra, con gli occhi fissi sul libro di preghiere, tra le pareti del banco che si alzavano intorno a lui come torri.

    Perché mai non si mette in piedi sullo sgabello? si chiese lo zio Charlie.

    A dire la verità, la tentazione di guadagnare mezzo metro d'altezza e riuscire a vedere quello che succedeva intorno aveva già assalito il piccolo Humphrey, ma era intimamente convinto che la mamma non sarebbe mai salita in piedi sullo sgabello.

    Humphrey seguì attentamente la funzione finché non cominciarono a cantare. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a tenere il tempo con gli altri. Arrivava sempre in fondo alla strofa troppo presto o troppo tardi. Si era poi reso conto che non conveniva cantare tutto d'un fiato, dal principio alla fine, perché c'erano sempre delle parole o delle frasi che dovevano essere ripetute. Il problema però era capire quale parola o quale frase doveva essere ripetuta. Ammirava i tremolii e le note tenute con le quali il vecchio chierico era solito variare il Te Deum. Una volta si era perfino abbandonato a una impacciata imitazione, finché non vide lo sguardo severo del padre che lo fissava dall'altra estremità del banco.

    Quando il pastore indicò l'inno da cantare quel giorno, lo zio Charlie vide che Humphrey era in gravi difficoltà per trovarlo nel libro. Allora gli fece cenno di avvicinarsi a leggere sul suo libro.. Con un'energica scrollata di testa, Humphrey gli mostrò il proprio e, senza muoversi dal suo posto, lo porse allo zio perché gli trovasse il segno. Nel restituire il volume al nipote, il giovanotto notò sul frontespizio il nome di Adelaide Duncombe nella scrittura a lui ben nota della sua defunta sorella. Allora capì il perché non voleva usare un altro libro. Quando il prete aprì il messale, Humphrey si sedette nell'angolo del banco imitando esattamente il suo papà. Gli ci voleva sempre un po' di tempo per copiare l'atteggiamento del padre e talvolta, non appena c'era riuscito, lui cambiava, accavallava una gamba, o muoveva una mano, e allora doveva ricominciare daccapo.

    Quel giorno però, la posa del papà era semplicissima. Sir Everard incrociò le braccia, accavallò le gambe e, con il viso rivolto al pulpito, si dispose ad ascoltare. Humphrey fece lo stesso. Allora si levò la voce del vecchio pastore:

    - Nel quattordicesimo capitolo del Libro della Rivelazione di San Giovanni, al secondo versetto, troverete la parola di Dio che dice così: E udii una voce dal cielo come rumore di molte acque... e la voce che udii era come il suono prodotto da arpisti che suonano le loro arpe... E cantavano come se fosse un cantico nuovo, e non un uomo poteva imparare il cantico se non quei centoquarantaquattromila, i quali sono stati riscattati dalla terra....

    Accadeva raramente che Humphrey ascoltasse il sermone, ma quel giorno il parroco parlava del Cielo. Gli piaceva stare a sentire perché la sua mamma era lassù.

    Sempre debole sarà la parola umana per dipingere gli splendori di quella patria lontana. Ma quando gli uomini toccano argomenti che riguardano tutti così da vicino, riescono a trasportare il loro uditorio. E così avvenne quella mattina. Man mano che il vecchio predicatore si scaldava e s'infiammava nel suo argomento, i cuori dei fedeli si scaldavano e s'infiammavano a loro volta. Quella volta regnò nella vecchia chiesa un'atmosfera particolare, fatta di silenzio e di attenzione profonda. Persino gli alunni della scuola del villaggio erano meno agitati del solito. E uno o due orfanelli, che si erano messi nella loro posizione abituale - le braccia incrociate sul banco di fronte a loro e la testa appoggiata sopra - si scossero di dosso la sonnolenza dovuta alla lunga camminata al sole e ascoltarono intenti la predica. Infatti, non erano anche loro tutti legati alla Patria che il predicatore stava descrivendo? E c’era tra loro qualcuno, anche uno solo, che potesse dire: A me, che m'importa?.

    Soltanto due volte l'attenzione di Humphrey fu sviata. La prima fu quando vide lo zio togliersi di tasca una matita e sottolineare qualcosa nella Bibbia. Humphrey non aveva mai notato una cosa simile. Scivolò lungo il banco per andare a vedere da vicino. Lo zio gli mostrò la Bibbia e lui vide che il passo segnato era il testo a cui si riferiva il sermone. Mentre tornava al suo posto nello stesso modo silenzioso, decise che in futuro avrebbe portato anche lui una matita e avrebbe imitato l'esempio dello zio Charlie. La seconda distrazione fu più emozionante. Una vespa vagabonda, dopo essersi posata in vari punti della chiesa, fece irruzione nel banco di famiglia e si dedicò allo zio Charlie. Humphrey, attratto dal ronzio, si voltò e vide il poveretto impegnato in una lotta senza speranza. Lo zio si agitava per sfuggire alla puntura e dava manate per aria. Humphrey si sforzò di restare serio. Si tappò la bocca con le due mani per ricacciare la risata che stava per scoppiare. Lo zio Charlie era già molto seccato di dover rinunciare a una predica tanto piacevole e quando vide il nipote che tratteneva a stento una risata, s’innervosì ancora di più. Afferrò un libro sul banco e colpì con quello il nemico che cadde in terra, dove lo pestò col tacco. Con un'espressione di sollievo vide Humphrey darsi

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