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E-book223 pagine2 ore

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Info su questo ebook

“Siamo venuti solo a guardare, lo sai”, disse Humphrey.
Erano le prime parole che pronunciava dopo essere stato a lungo in silenzio, ed erano arrivate così all’improvviso che a Miles sembrarono diffondersi nell’aria immobile come un’onda tagliente. Il rumore parve disturbare gli abitanti di quel luogo ameno, perché un uccello si allontanò all’improvviso da un albero, librandosi in aria con un verso spaventato che alle orecchie dei bambini risuonò come una malinconica melodia, e un ratto d'acqua abbandonò il suo rifugio tuffandosi con un tonfo sordo per allontanarsi verso la parte opposta dello stagno. Numerosi insetti volavano in superficie, e un paio d’api ronzavano svogliatamente spostandosi da un fiore all'altro. Le fronde più esterne del ramo sporgente a tratti accarezzavano l’acqua con un pigro fruscio, mosse dalla brezza che le faceva ondeggiare dolcemente avanti e indietro, e le ninfee danzavano assecondando il lieve movimento delle onde.
Ogni cosa, in quel luogo, emanava un senso di pace e di isolamento, e quell’aura sognante contagiò anche i bambini, tenendo Humphrey in silenzio e suscitando nel piccolo Miles una vaga tristezza.
"Andiamo via, Humphrey".


Unica traduzione integrale in italiano del romanzo, che restituisce all'opera la sua connotazione iniziale di lettura adatta a un pubblico maturo e interessato alla psicologia dell'infanzia.
A cura dello Studio Tethis, specializzato in edizioni critiche, nuove traduzioni e collezioni letterarie
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2020
ISBN9791220233170
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    Anteprima del libro

    Incompreso - Florence Montgomery

    Florence Montgomery, Incompreso

    tit. or. Misunderstood, 1869

    Traduzione e adattamento: Luisa Vardiero © 2020

    Studio Tethis

    Tutti i diritti riservati

    In copertina:

    William Turner, Tramonto sul lago, 1840 (particolare)

    Prefazione

    PRIMA PARTE

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    SECONDA PARTE

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    Prefazione

    Quella che seguirà non è una storia per bambini. È destinata a coloro che a essi sono interessati, e che sono disposti a chinarsi per vedere come l’esistenza dei più piccoli appare se intesa dalla loro particolare prospettiva, a entrare per una mezz'ora nella variopinta molteplicità dei piccoli interessi, speranze, gioie e tentativi che ne costituiscono il tutt’uno.

    Si è sempre ritenuto che la ricostruzione che i bambini operano sugli eventi della loro vita sia per forza di cose manchevole, che il disegno che essi ne tracciano pecchi sempre, e inevitabilmente, di una sorta di mistificazione. Gettare una luce, per quanto flebile, sul reale valore della loro visuale soggettiva è uno degli intenti oggettivi di questa piccola storia.

    Tanto di essa è stato direttamente attinto dall'osservazione, e dal ricordo, che l'autrice non può fare a meno di sperare di non fallire del tutto nel suo intento.

    Settembre, 1869.

    INCOMPRESO

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO I

    Il pranzo nella stanza dei bambini era terminato ormai da tempo, e la pioggia continuava a riversarsi sui campi, sui prati e sui giardini, sui tetti e sui frontoni della vecchia Abbazia di Wareham, nella contea del Sussex.

    Appena la tavola venne sparecchiata, due testoline ricciute si avvicinarono alla finestra e due paia di occhietti preoccupati si sollevarono verso il cielo nuvoloso. Che orribile, umidissimo pomeriggio! E a rendere il tutto ancora più fastidioso era il fatto che il padre sarebbe tornato a casa proprio in giornata, e aveva dato loro il permesso di venirgli incontro alla stazione.

    Nel calesse non ci sarebbe stato spazio per Virginie; pertanto, se avessero promesso di non salirvi usando la ruota come scaletta, di sedersi in modo composto, di non balzare fuori a corsa inoltrata o di non lasciarsi tentare da qualsiasi altro genere di siffatte monellerie, sarebbero stati affidati al vecchio Peter, il cocchiere. E sarebbe stato un vero spasso!

    L’apice della felicità umana consisteva per loro nel poter restare anche solo per un po’ lontani da Virginie: quella donna sembrava essere stata creata apposta per interferire con ogni promessa di piacere o per individuare situazioni pericolose laddove essi vedevano solo divertimento, sempre allungando l'ombra del suo eterno Ne faites pas ceci, ne faites pas cela!¹ lungo il luminoso percorso dettato dai loro progetti e passatempi di fanciulli.

    Se la povera Virginie avesse mai dovuto essere sottoposta al verdetto del loro giovanile tribunale, sarebbe stata certamente condannata, e senza alcun ricorso alla minima circostanza attenuante. Eppure era, in linea di massima, una buona donna, colma di ottime intenzioni, solo molto gravata dall’avere su di sé la responsabilità dei figli di un vedovo, inoltre spesso assente da casa. Questo, unito al fatto che aveva a che fare con la coppia di creature più spericolata che si fosse mai vista al mondo, la più sprezzante del pericolo, incurante delle conseguenze, sorda a ogni supplica o rimprovero, la faceva vivere in un continuo stato di allerta. Come le capitava spesso di ribadire al padre dei bambini, il piccolo Miles, il minore dei due, quando il fratello era assente si comportava abbastanza bene e si poteva perfettamente gestire, perché avendo solo quattro anni era ancora suscettibile al richiamo dell’autorità. Ma il signorino Humphrey! Al solo nominarlo, le parole le si smorzavano in gola. Si limitava a sollevare le mani, alzando gli occhi al cielo, con un’esclamazione soffocata.

    Sir Everard Duncombe era un membro del Parlamento, e durante la sessione risiedeva quasi interamente a Londra; così, a parte i fine settimana dal sabato al lunedì, che egli trascorreva all’abbazia, i suoi figli in quel periodo dell’anno avevano scarse opportunità di vederlo.

    Durante le sue visite fugaci veniva regolarmente sopraffatto dalle lamentele riguardo a tutto ciò che il signorino Humphrey aveva combinato durante la settimana: come avesse scalato alberi impossibili per saltare da altezze pericolose; come fosse fuggito nelle stalle per andare a ficcarsi proprio sotto gli zoccoli dei cavalli, o si fosse rifugiato nella cuccia insieme al cane da guardia; come avesse evitato per un pelo di cadere dalla carrozza un giorno, per poi scivolare nello stagno quello seguente. La rassegna dei suoi misfatti era davvero infinita.

    Ma il punto su cui Virginie insisteva di più era il fatto che egli trascinasse il fratellino in ogni sua scorribanda: ogni cosa che Humphrey faceva, la ripeteva anche Miles, e ovunque Humphrey andasse, Miles era pronto a seguirlo. La questione, per Miles, era molto più delicata, come andava spesso ripetendo Virginie. Humphrey sembrava immune da ogni rischio legato al freddo o a incidenti di qualunque tipo, ma Miles era molto più fragile, e aveva inoltre una tendenza a sviluppare malattie ai polmoni; ogni attenzione era rivolta al tenerlo lontano da correnti gelate, dalle cadute in acqua e da qualsivoglia altri strapazzi. 

    Timido e gentile per natura, espansivo e affettuoso per indole, era l’unica consolazione del padre, e su di lui Sir Everard riversava quasi tutto il suo affetto.

    Lady Duncombe, nel periodo di poco precedente la sua morte, aveva avuto modo di rendersi conto della predilezione che il marito nutriva per il secondogenito, e più di una volta aveva ritenuto di doverlo riprendere su quel punto.

    Miles è una così tenera creaturina, aveva risposto lui in una di queste occasioni, prendendo il bambino tra le braccia e accarezzando la testolina ricciuta che egli aveva annidato compiaciuto sulla sua spalla. Se al suo posto adesso ci fosse Humphrey, farebbe di tutto per scendere; magari per andare ad arrampicarsi sul tavolo o sulle sedie.

    Humphrey ha tre anni più di lui, aveva ribattuto Lady Duncombe; non ci si può aspettare che si accomodi così, placido e remissivo come un bambino che non ne ha ancora due: ma è affettuoso quanto Miles; soltanto, in un modo diverso.

    Può darsi, ma trovo molto più inebriante una piccola creatura che ti si aggrappa in questo modo, standoti accoccolato per ore in braccio.

    Lady Duncombe non aveva risposto, ma i suoi occhi si erano spostati dal piccolino dai capelli biondi per posarsi su quello che per tre anni era stato il suo unico figlio.

    Per lei, almeno, costituiva motivo di orgoglio e di soddisfazione. I suoi modi risoluti e il suo spirito instancabile e attivo la estasiavano, e amava le sue carezze ruvide tanto quanto amava quelle più morbide del figlio minore. Quale gioia provava nel vederlo entrare correndo a capofitto nella stanza per rifugiarsi tra le sue braccia, anche se lungo il percorso avesse come al solito rovesciato una sedia, mandato all’aria il suo cestino da lavoro con tutto il contenuto o sporcato il divano con gli stivaletti infangati. Niente era più importante dell’impeto dei suoi baci, della tenerezza di quelle ruvide braccia che le cingevano il collo. Lei sapeva bene quanto fosse amorevole quel cuore che batteva sotto la sua apparente incuria e negligenza, e cosa importava che avesse dimenticato ogni raccomandazione e ogni buon proposito, se comunque mostrava di non dimenticarsi mai di lei, o che sembrasse indifferente a tutto e tutti, quando il suo sorriso e il suo abbraccio erano qualcosa che egli bramava con tanta perseveranza?

    Per il piccolo Humphrey Duncombe, il giorno più triste fu quello in cui la morte mise fine alla lunga ed estenuante malattia della madre; quando quegli occhi scavati, che fino all'ultimo aveva tenuto posati su di lui, si chiusero per sempre al mondo, e le mani sottili e trasparenti furono piegate per l'ultima volta su quel grembo in cui si era tante volte rifugiato a cercare conforto o perdono.

    Sir Everard, sopraffatto dal dolore, durante i primi giorni dalla scomparsa della moglie non aveva quasi mai avuto occasione di vedere i suoi figli, ma appena questo fu possibile egli fu sorpreso nel constatare quanto Humphrey sembrasse più o meno lo stesso di prima: come sempre rumoroso, irruento e vivace, come se quanto successo non avesse lasciato in lui la minima traccia.

    Sembra che non abbia un cuore, fu il pensiero che lo attraversò un giorno in cui, ancora completamente sprofondato nel suo lutto, gli era capitato di scorgere dalla finestra la piccola figura del figlio che rincorreva degli agnellini lungo il prato.

    Sir Everard non ne aveva notato alcun cambiamento poiché gli era capitato di osservare il bambino solo nei momenti in cui in lui operava l’oblio, o quelli in cui prevalevano le prerogative della sua giovane età, che insieme alla sua indole vivace lo sostenevano nel tenere a bada il dolore. Era completamente all’oscuro dei momenti in cui invece il bambino veniva sopraffatto dal peso della sua perdita, dei cambiamenti nel suo volto quando era oppresso dai ricordi, del suo pronunciare a metà quel nome tanto amato per poi soffocare nei singhiozzi, del suo entrare di corsa in salotto con qualche nuovo tesoro o qualche progetto in mente per poi arrestarsi sull’uscio, stordito dalla consapevolezza improvvisa che sul divano non ci sarebbe stata la madre ad accoglierlo e ad ascoltarlo sorridente. Non ci sarebbero stati baci, nessuna voce avrebbe risposto alla sua. Solo un gemito, le braccia abbandonate lungo i fianchi e il suo correre via all'aperto, in un luogo qualunque, pur di sfuggire al dolore, al rimpianto e al senso di solitudine.

    Solo chi dall’alto è in grado di arrivare fino al cuore della più infima delle creature della terra poteva comprendere l’anima del bambino, vedere il suo cuscino bagnato di lacrime, udire nella notte le urla sgorgare dai recessi del suo piccolo cuore di orfano:

    Oh, mamma, mamma! Cosa farò senza di te?.

    Tutto questo era accaduto quasi due anni prima del pomeriggio che vi stavo descrivendo, quello in cui la pioggia si esibiva nel suo consueto, monotono repertorio davanti ai due piccoli spettatori affacciati alla finestra.

    Nella mente del fratello minore, l’immagine della madre era ancora meno che un ricordo sbiadito: non era in grado di rievocarla, e per lui era quasi come se non fosse mai esistita; ma in quella del più grande la memoria di lei, a tratti, emergeva ancora in tutto il suo splendore. Potevano passare settimane o mesi senza che i suoi pensieri si soffermassero sul suo ricordo, ma all'improvviso un fiore, un libro o qualche piccolo oggetto che le era appartenuto avevano il potere di riportare tutto al presente, in un improvviso fremito del cuore. Allora ripiegava il capo piangendo. Nel salotto ormai inutilizzato di Lady Duncombe c’era un quadro a misura reale che la ritraeva con Humphrey tra le braccia, e in questi momenti, o quando sentiva il bisogno di sfuggire all’oppressione di Virginie, il bambino correva a rifugiarsi lì, rannicchiandosi sul pavimento nella stanza buia nella stessa posizione in cui era stato ritratto e forzando l’immaginazione fino a sentirsi di nuovo tra le braccia della madre, la testa appoggiata sulla sua spalla.

    C’erano giorni in cui il salotto veniva pulito e tirato a lucido, le persiane venivano spalancate e il sole era in grado di illuminare con i suoi raggi il dipinto della madre. In quei momenti, poteva capitare di osservare i due fratelli in piedi innanzi al grande quadro, mentre il maggiore spiegava in ogni dettaglio al più piccolo tutto ciò che riusciva a ricordare di lei.

    Miles nutriva per Humphrey il massimo rispetto e una indiscussa ammirazione. Un ragazzino di sette anni, che inoltre indossa già i pantaloni, non può che essere oggetto di venerazione da parte di uno di quattro che è ancora costretto alle camicette². Ma l'immaginazione di Miles non era in grado di espandersi molto oltre gli spazi della biblioteca e della sala da pranzo, ed egli non riusciva a rappresentarsi quel salotto se non come un luogo qualunque e per lui solitamente inaccessibile. Così, il suo rispetto si era intensificato nell’ascoltare le scintillanti descrizioni di Humphrey circa le glorie passate della casa, quando la stanza era invece inondata dalla luce, le finestre erano abbellite dalle tendine di mussola, le sedie ricoperte di raso, e la mamma vi passava le sue ore di svago, seduta sul divano accanto al tavolino del ricamo.

    L’immagine che il suo piccolo compagno si era creato della madre, mentre il fratello la descriveva con toni affettuosi e occhi scintillanti, non riusciva ad emergere del tutto dall’ombra, ma gli restituiva comunque un’idea abbastanza precisa della totale perfezione di lei.

    Su questo argomento aveva sviluppato nei confronti di Humphrey un profondo senso di inferiorità, e un sentimento simile alla vergogna si impadroniva di lui ogni volta che una delle loro lunghe conversazioni veniva bruscamente interrotta dalla definitiva, inappellabile constatazione: Non è affatto facile cercare di farti capire, perché non ricordi. In queste occasioni il suo grazioso visetto veniva oscurato da un’ombra di rammarico, e ad egli non restava che ammettere umilmente tutta la sua inferiorità.

    L'ascendente che Humphrey esercitava sul fratello costituiva il principale motivo di irritazione per Virginie. Timido per natura, Miles diventava sempre più audace man mano che Humphrey gli spianava la strada; obbediente e sottomesso finché era solo, sotto l’ascendente del fratello riusciva a tenerle testa e a scatenarsi tanto quanto lui.

    Da tempo Virginie aveva individuato in quella sorta di l'union fait la force³ la causa del cedimento dei suoi nervi e del suo umore, e nella presente occasione aveva ripetutamente insistito sul fatto che, se Humphrey avesse indossato impermeabile e stivali da pioggia, avrebbe avuto il permesso di andare a prendere il padre alla stazione, mentre Humphrey aveva accettato il compromesso solo a patto che

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