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Dove Eravamo: Vent'anni dopo Capaci e Via D'Amelio.
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Dove Eravamo: Vent'anni dopo Capaci e Via D'Amelio.
E-book125 pagine4 ore

Dove Eravamo: Vent'anni dopo Capaci e Via D'Amelio.

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Info su questo ebook

23 maggio e 19 luglio 1992: la mafia e i suoi complici di Stato uccidono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, otto agenti delle scorte e Francesca Morvillo. L’Italia è in ginocchio, scossa, ferita. Sembra il colpo mortale alla speranza di battere la mafia. E invece c’è una cittadinanza che reagisce, c’è il coro “fuori la mafia dallo Stato” urlato di fronte alla cattedrale di Palermo, ci sono i fischi e gli insulti alle autorità, le lenzuola bianche, le associazioni antimafia, il consolidamento di una cultura che ha portato la Sicilia e l’Italia intera a uscire dal silenzio, ad aver meno paura e a reclamare una verità che tarda ad arrivare.

Dove eravamo noi in quel momento? Come abbiamo guardato al futuro, in che misura siamo cambiati e quanto le stragi del ‘92 hanno inciso sulla nostra vita e sulle nostre scelte? A vent’anni dagli attentati di Capaci e via D’Amelio, questo libro prova a raccontare quei giorni drammatici attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti. Non solo familiari, magistrati, giornalisti, poliziotti, persone all’epoca già in prima linea nella lotta alle mafie, ma anche donne e uomini che, a partire da quei giorni, hanno iniziato, ognuno nel proprio ambito, a combatterle.

Edizione ebook nuova aggiornata con il contributo di Gian Carlo Caselli
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2015
ISBN9788897567202
Dove Eravamo: Vent'anni dopo Capaci e Via D'Amelio.

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    Anteprima del libro

    Dove Eravamo - Massimiliano Perna

    ancora.

    Introduzione

    di Massimiliano Perna

    La voce di Rosaria Schifani, vedova di Vito, uno degli agenti della scorta di Falcone, il suo volto affranto, le sue parole pronunciate cercando di resistere al tremendo dolore che l’aveva colpita, mentre il sacerdote la sosteneva: una scena che non dimenticherò mai. È la memoria di una società che era stata ferita, dilaniata da uno squarcio profondo nel cuore della sua storia, ma che era decisa a non rassegnarsi, a reagire, a rifiutare il marchio definitivo della sconfitta.

    Sono passati venti anni da quel maledetto 1992 che sembrava aver messo al tappeto l’Italia e con essa tutti i cittadini onesti, i quali avevano sperato in quella coppia di magistrati che sapeva come fermare la mafia e riusciva a farlo intendere anche a chi non seguiva costantemente la cronaca giudiziaria o l’andamento dei processi. Un periodo lungo, ricco di cambiamenti, di momenti difficili ma anche di successi, di catture eccellenti, di sgretolamento di poteri che sembravano intoccabili, un periodo in cui l’Italia è cambiata, riuscendo a reagire, a guardare avanti, mostrando un tessuto connettivo ancora sano, forte, nonostante tutto.

    Capaci e via D’Amelio hanno rappresentato la fine della vita terrena di Falcone e Borsellino, ma non delle loro idee, del loro sogno di cambiamento e di vittoria. Da quella voragine sull’autostrada e sulla facciata del palazzo di via D’Amelio è venuta fuori la voglia di giustizia di chi ha cominciato con forza a chiedere verità, senza accontentarsi delle spiegazioni scontate, delle promesse. I magistrati che hanno continuato ad indagare, cercando di far luce sui mandanti reali di quelle stragi, si sono trovati meno soli di quanto non lo siano stati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi siamo giunti a un punto di svolta, perché adesso sappiamo dell’esistenza di una trattativa tra mafia e Stato, dell’esistenza di collusioni, di un intreccio perverso tra Cosa nostra e pezzi dello Stato che è costato la vita ai due magistrati, a Francesca Morvillo e agli agenti Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vito Schifani, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.

    Venti anni dopo le stragi c’è una maggiore consapevolezza, non solo in chi quei giorni li ricorda bene, ma anche in tantissimi giovani che nel 1992 non erano nemmeno nati o erano troppo piccoli per ricordare. Questo è il più grande risultato che il movimento generatosi in risposta agli attentati ha conseguito: l’educazione alla legalità di migliaia di ragazzi, attraverso gli incontri nelle scuole, le iniziative realizzate in ogni parte d’Italia, compreso quel Nord che si sentiva immune e lontano, ma che sta scoprendo oggi di vivere in un territorio compromesso dalla presenza mafiosa. Il valore della testimonianza, della memoria, della cultura si respira nelle parole di tutti coloro che hanno contribuito a questo libro, ciascuno a suo modo, con il proprio stile, raccontando non solo come hanno vissuto la notizia degli attentati, ma anche tutto quello che è accaduto prima e dopo. Ci sono aneddoti inediti, sofferenze personali, ricordi diretti di Falcone e Borsellino, testimonianze di chi aveva già perso un familiare per mafia, il racconto di come la propria vita personale o professionale è cambiata a seguito delle stragi, rimanendone profondamente condizionata. Ci sono le riflessioni su quello che era ed è oggi l’Italia e c’è anche la descrizione del quadro storico nel quale si sono svolte Capaci e via D’Amelio.

    Ognuno dei ventidue testimoni di questo libro ha messo una parte di sé al servizio della memoria, nella speranza di offrire al lettore l’opportunità di comprendere al meglio quel periodo drammatico e cruciale, il significato profondo che ha avuto per tanti italiani e per l’Italia nel suo insieme. Un’occasione privilegiata per apprezzare il valore di chi in quegli anni faceva il proprio dovere in una condizione di totale isolamento, non solo i magistrati ma anche le scorte, coraggiose e fiere di stare accanto a chi cercava di sconfiggere la mafia.

    Il lungo applauso a Borsellino, intervenuto a un incontro pubblico, qualche settimana prima della sua morte, è stato, come racconta Nando Dalla Chiesa, un gesto spontaneo con cui la gente ha voluto rimediare al fatto che Falcone, ucciso un mese prima, quell’applauso da vivo non lo avesse mai ricevuto. Erano due uomini soli, in lotta contro un gigante di pietra, costruito con le mani sporche di mafia e Stato, quello stesso Stato in cui i due magistrati credevano e che cercavano di liberare. Le parole di Salvatore Borsellino e di Maria Falcone, nelle loro testimonianze, danno l’idea di come al dolore e alla rabbia siano poi, pian piano, subentrate la speranza e la consapevolezza di realizzare il sogno di liberazione di Paolo e Giovanni. Un sogno che è ancora in corso di compimento.

    Leggendo le parole di tutti i testimoni di questo libro si coglie quella splendida sensazione che, pur essendo ancora lunga la strada, alla fine quel sogno diventerà realtà. Anche dopo di noi.

    Dalla parte di Giovanni Falcone

    di Gian Carlo Caselli

    magistrato, ex procuratore capo della Repubblica di Palermo e di Torino

    Quel 23 maggio del 1992 ero a Torino. Vi ero tornato dopo i quattro anni trascorsi a Roma come consigliere del csm (1986-90) e svolgevo le funzioni di presidente della Corte d’Assise. La notizia che vi era stato un grave attentato a Capaci la appresi dalla televisione. Le prime cronache parlavano di un Falcone soltanto gravemente ferito, ma la dinamica della spietata e crudele aggressione rendeva purtroppo chiaro che c’era ben poco da sperare.

    Che la matrice fosse mafiosa mi sembrò subito evidente. Com’era evidente che si trattava di una feroce rappresaglia di Cosa nostra. Falcone doveva pagare il capolavoro investigativo-giudiziario del maxiprocesso, realizzato con gli altri magistrati del pool creato da Chinnici e poi sviluppato e perfezionato da Caponnetto. Un capolavoro che per la prima volta nella storia italiana aveva portato alla condanna di molti mafiosi doc (capi, quadri intermedi e gregari) per reati ‒ dall’associazione ad una teoria infinita di delitti – commessi per anni e anni e sempre rimasti sostanzialmente impuniti. Condanna definitivamente ed irrevocabilmente confermata in Cassazione, dove fino ad allora – di solito – i mafiosi se l’erano cavata anche grazie a qualche decisione che generosamente ammazzava le rare sentenze sfavorevoli; e dove pensavano che l’avrebbero fatta franca anche questa volta, grazie ad osceni accordi con politici collusi che però alla fine (i mafiosi ne erano certi) avevano tradito.

    Mai successo prima, ripeto, che nel più rigoroso rispetto delle regole, con l’acquisizione di prove solide e sicure, vanificando le trame volte a piegare gli esiti processuali alla volontà della consorteria criminale, si riuscisse a concludere un processo (della portata e del significato anche simbolico del maxi) mandando in frantumi, finalmente, il mito dell’invincibilità – un colosso di argilla! – sul quale la mafia aveva costruito e consolidato il suo potere. E con la condanna a pene detentive pesanti ed irrevocabili. Oltretutto da scontare in un carcere destinato a diventare anche per i mafiosi una cosa seria, non un grand hotel ad ostriche e champagne com’era prima che Falcone (si sapeva che al Ministero stava lavorando proprio a questa riforma) mettesse in cantiere quello che diventerà l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede appunto – per i mafiosi – un trattamento di giusto rigore, capace di impedire loro di comandare anche in galera: come se in questa situazione, che dovrebbe essere la più totalizzante, fosse possibile consentire il persistere di posizioni di comando e perciò di superiorità del potere criminale mafioso rispetto al legittimo potere statuale.

    Tutti questi pensieri si affollavano nella mia mente man mano che scorrevano le notizie sulla strage e sempre meglio veniva delineandosi la sua immensità, con quel chilometro e oltre di autostrada polverizzato da una carica esplosiva di enorme potenza. Un vero e proprio attacco al cuore dello Stato (Falcone avrebbe potuto essere ucciso a Roma senza scorta, coinvolta invece a Capaci proprio per sottolineare che l’attacco era diretto allo Stato), con la possibilità ‒ ben presto ipotizzata ‒ che vi fossero anche obiettivi politici. Pensieri all’inizio confusi, dai quali però cominciava via via ad emergere un quadro più preciso, che ricollegava la strage innanzitutto ad una vendetta postuma di Cosa nostra contro Falcone per il siluro piazzato con il maxi sotto la linea di galleggiamento della corazzata mafiosa; poi al tentativo di cancellare col sangue il metodo Falcone (basato sui criteri della specializzazione e centralizzazione) che l’esperienza palermitana del maxi aveva dimostrato essere vincente; nel momento in cui l’azione di Falcone al Ministero della Giustizia stava ora estendendo quel metodo a tutta l’Italia, attraverso la creazione della dia, della Procura nazionale e delle procure distrettuali antimafia con relative banche dati; progettando nel contempo nuove leggi (quella già citata sul carcere duro e quella sui pentiti) che i mafiosi intuivano perfettamente quanto sarebbero state per loro micidiali.

    Queste riflessioni si intrecciavano inestricabilmente con l’imbarazzante ricordo delle vergognose vicende del csm di cui anch’io avevo fatto parte. Perché fu in quel csm (queste parole saranno pronunziate da Paolo Borsellino nel trigesimo della strage di Capaci) che Giovanni Falcone cominciò a morire: quando la maggioranza del Consiglio, calpestando la regola della professionalità prevista per gli uffici antimafia e già applicata per la nomina di Borsellino a procuratore di Marsala, inopinatamente – per l’Ufficio istruzione di Palermo – privilegiò invece il requisito dell’anzianità ribaltando l’orientamento precedente, così umiliando Falcone col preferirgli un magistrato tutt’affatto digiuno di esperienze antimafia che su di lui

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