Giacomo Mancini un avvocato del sud
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A vent’anni dalla morte di Giacomo Mancini, mi sembra giunto il momento di tracciare un quadro storico e biografico del politico calabrese che meglio rappresentò le ragioni della sua terra in un’ottica meridionalista e di difesa della democrazia.
Giacomo Mancini è stato un socialista che ha cambiato lo stato di molte cose. Non mancarono i difetti e le tare. Ma il saldo è a suo favore.
I calabresi che lo hanno incontrato nella loro vita, anche a distanza, incrociandone la sua politica continuano a dire: “Però ha fatto”, in nome di un senso comune che è un’appartenenza. Lui stesso si definì “un avvocato socialista del Sud” e infatti la sua figura di politico meridionalista merita di essere ricordata e costituisce un esempio per la classe dirigente attuale poco incline a sapersi rapportare con la sua storia.
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Anteprima del libro
Giacomo Mancini un avvocato del sud - Paride Leporace
Il rapporto con Cosenza e con il padre Pietro
Giacomo Mancini ha maturato nel corso del tempo un forte legame con Cosenza. Uno dei più autorevoli storici socialisti, Giuseppe Tamburrano, ha spesso sostenuto che la carriera nazionale di Giacomo Mancini fu frenata da quell’attaccamento osmotico alla sua città.
Mi si permetta di contestare questo assioma. Mancini nel suo ragionamento politico si rifaceva molto al pensiero di Mitterand, con cui coltivò una personale conoscenza come con Papandreu e Willy Brandt, e che vuole il politico avere un rapporto molto stretto con l’elettorato del suo territorio. A Cosenza e in Calabria quel rapporto lo rintracciamo ancora con coloro che lo hanno ospitato a casa propria offrendogli un bicchierino di liquore, chi visse con lui le campagne elettorali, chi ha avuto un posto di lavoro all’Anas o in una cooperativa comunale, quelli che hanno chiamato il figlio Giacomo, chi era socialista, quelli di destra, quelli dell’estrema sinistra, i dissidenti del Pci che lo hanno spesso votato. Perché Mancini è stato capace attorno alla sua figura di creare un rassemblement
che è quasi un unicum nella storia della Sinistra italiana. Sono legati ancora a Giacomo Mancini quelli che volevano un’investitura politica, quelli che l’hanno ricevuta, gli avversari che sempre hanno dovuto farci i conti.
Giacomo Mancini un avvocato del Sud diventato ministro e poi sindaco. Ma avvocato lo fu anche qualche volta, come quando difese la parte civile del processo per i fatti di Portella della Ginestra.
Capace di burbere irruenze politiche. A volte cattivo, sempre scaltro con le sue mosse da giocatore di scacchi, anche se amava puntare ai cavalli. Giampaolo Pansa lo definisce in occasione di un’intervista brusco, ironico, polemico, persino spavaldo. Insomma il Mancini di sempre
. Quante volte a salita Liceo un po’ di confidenza di Giacomo ha scacciato una crisi annunciata, un incontro ha sancito un’alleanza. Un giorno bussarono anche i carabinieri. Consegnarono un avviso di garanzia che lo accusava di mafia.
Giacomo Mancini è nato a Cosenza il 21 aprile 1916. E di aprile vedrà la liberazione dell’Italia, diventerà segretario nazionale del Psi, e anche la morte arriverà nel mese del dolce dormire.
Il figlio di Pietro Mancini e Giuseppina De Matera nasce nel pieno della Prima guerra mondiale, in una Cosenza ben diversa da quella attuale. I ceti popolari lottano per il salario e godono del sostegno di una borghesia colta che sta dalla parte degli umili e oppressi. Di questo aspetto ci dà ottima traccia Antonio Landolfi, biografo di Giacomo. Non si può comprendere Giacomo senza ricordare il padre Pietro. Primo deputato socialista di Calabria e Lucania, punto di riferimento nazionale, massimalista, perseguitato dal fascismo, ministro della Repubblica, penalista dal pensiero garantista, grande oratore. Il figlio penerà non poco a raggiungere le qualità comizianti del suo genitore.
Giacomo ha solo sei anni, quando all’indomani del delitto Matteotti, apprende che il padre è stato aggredito su un treno da una banda di fascisti e difeso dai suoi compagni.
Ha ricevuto molto dalla mamma, donna Peppina. Educatrice di ragazzi che insegnava ai figli a cantare La Marsigliese
in francese ai tempi del fascismo.
Dopo la maturità classica al liceo Telesio, che si staglia maestoso davanti alle finestre di Palazzo De Matera, decide di studiare Giurisprudenza a Torino. Una città che formerà molto il suo pensiero politico tra esperienza gramsciana, pensiero azionista e cultura industriale. Nel 1938 si laurea con una tesi sulla classificazione dei reati e dei delinquenti
, primo segno di una cultura garantista che non abbandonerà mai. Non era neanche scevro di cultura antifascista.
Il partigiano
L’8 settembre del 1943 due ufficiali cosentini dell’aeronautica italiana decidono senza esitazioni di prendere un treno e raggiungere Roma. Potrebbero tornare a casa, imboscarsi, invece si uniscono ai tanti italiani che hanno scelto di combattere il nazifascismo. Si chiamano Giacomo Mancini e Mauro Leporace, mio zio. Hanno 28 anni e le loro famiglie hanno sempre vissuto insieme, si sono educate ascoltando parole di riscatto sociale e libertà. Hanno fatto studi di Giurisprudenza lontano da Cosenza, Giacomo a Torino, Mauro a Parma. Dopo la laurea, nel 1938 alla vigilia di una guerra imminente, hanno tutti e due il problema di un servizio militare pericoloso e poco condiviso. Sono figli di antifascisti, ma non possono disertare. Si trova un rimedio. Si può diventare commissario d’aeronautica superando un concorso per laureati in legge. Si diventava ufficiale dopo tre mesi di allievi a Roma nella caserma San Michele, che oggi è sede del ministero dei Beni culturali. Giacomo e Mauro iniziano un lungo servizio militare tra Torino e Genova. La fronda inizia a farsi