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Il dono dei cefiri e l'estorsione
Il dono dei cefiri e l'estorsione
Il dono dei cefiri e l'estorsione
E-book443 pagine6 ore

Il dono dei cefiri e l'estorsione

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Info su questo ebook

È sabato mattina 26 giugno 1971, Angelo e Cinzia proprietari di una tenuta, passeggiano assieme alla figlia Fiorenza di dieci anni, seduti sul calesse trainato dal cavallo Modesto, nella bassa costa a poca distanza dal mare, mentre l’altro figlio Pierpaolo di dodici anni è in groppa al cavallo bianco Focoso che trotterella a po­chi passi dal calesse. All’improvviso una mosca cavallina pizzica Focoso, che per il dolore fa uno scatto fulmineo senza freno, finché a limite del precipizio non s’è bloccato di colpo, catapultando Pierpaolo giù in mare tra i flutti. Se pur le ricerche per il ragazzo sono state vane, inaspettatamente il quinto giorno il ragazzo è rientrato nella fattoria. Dopo abbracci e baci con i famigliari ancora increduli che fosse vivo, Pierpaolo ha cominciato a rivelare che sott’acqua s’è sentito risucchiare da un vortice in una cavità che l’ha trascinato in una delle tante grotte enormi per metà piene d’acqua, che sprofondano sotto il mare e risalgono nelle viscere della montagna, impreziosite da stalagmiti e stalattiti che riverberano il barlume di luce, che entra attraverso i sifoni sottomarini e che in altre ancor più sfarzose ha incontrato i cefiri.
LinguaItaliano
Data di uscita17 apr 2020
ISBN9788831666084
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    Anteprima del libro

    Il dono dei cefiri e l'estorsione - Paolo Piras

    fi­gli.

    Presentazione

    Il ro­man­zo re­ga­la emo­zio­ni in­ten­se, gra­zie all’au­to­re ch’è in gra­do con la pro­pria fan­ta­sia di di­so­rien­ta­re e stu­pi­re il let­to­re, con il po­te­re dei pro­ta­go­ni­sti che rie­sco­no a: sal­va­re del­le per­so­ne da mor­te si­cu­ra, sbro­glia­re si­tua­zio­ni com­ples­se, a ri­flet­te­re sui fat­ti, a crea­re del­le mes­sin­sce­ne a fin di be­ne e ca­pa­ci di di­vul­ga­re con le lo­ro de­scri­zio­ni, i sen­ti­men­ti che apro­no il cuo­re e la vi­va­ci­tà all’in­te­ra nar­ra­zio­ne, che fan ben spe­ra­re a mol­ti let­to­ri di leg­ge­re il con­ti­nuo.

    Se­re­na

    SINOSSI

    È sa­ba­to mat­ti­na 26 giu­gno 1971, An­ge­lo e Cin­zia pro­prie­ta­ri di una te­nu­ta, pas­seg­gia­no as­sie­me al­la fi­glia Fio­ren­za di die­ci an­ni se­du­ti sul ca­les­se trai­na­to dal ca­val­lo Mo­de­sto, nel­la bas­sa co­sta a po­ca di­stan­za dal ma­re, men­tre l’al­tro fi­glio Pier­pao­lo di do­di­ci an­ni, è in grop­pa al ca­val­lo bian­co Fo­co­so che trot­te­rel­la a po­chi pas­si dal ca­les­se. All’im­prov­vi­so una mo­sca ca­val­li­na piz­zi­ca Fo­co­so, che per il do­lo­re fa uno scat­to ful­mi­neo sen­za fre­no sbuf­fan­do dal­le fro­ge, fin­ché a li­mi­te del pre­ci­pi­zio non s’è bloc­ca­to di col­po, ca­ta­pul­tan­do Pier­pao­lo giù in ma­re tra i flut­ti.

    Pur­trop­po le ri­cer­che di due gior­ni e due not­ti, fa­te dai ca­ra­bi­nie­ri con i som­moz­za­to­ri e la guar­dia co­stie­ra, so­no sta­te va­ne: no­no­stan­te i lo­ro im­pe­gno as­si­duo.

    Ma al quin­to gior­no, sul far del­la se­ra, ina­spet­ta­ta­men­te i toc­chi del bat­tac­chio al por­ton­ci­no del­la fat­to­ria non han­no smes­so fi­no a che la do­me­sti­ca non ha aper­to; e vi­sto ch’era Pier­pao­lo sta­va per sve­ni­re.

    Do­po ab­brac­ci e ba­ci con i fa­mi­glia­ri, an­co­ra in­cre­du­li che fos­se vi­vo, Pier­pao­lo ha co­min­cia­to a ri­ve­la­re che sott’ac­qua s’è sen­ti­to ri­suc­chia­re da un vor­ti­ce in una ca­vi­tà, tra­sci­na­to in una grot­ta che spro­fon­da sot­to il ma­re e ri­sa­le nel­le vi­sce­re del­la mon­ta­gna.

    Nean­che la bel­lez­za del­le sta­lag­mi­ti e sta­lat­ti­ti e il ri­ver­be­ro del­la lu­ce, che at­tra­ver­sa i si­fo­ni sot­to­ma­ri­ni, su­pe­ra­no lo stu­po­re dell’in­con­tro con i ce­fi­ri: i lo­ro cor­pi sen­za pe­li so­no li­sci e tal­men­te per­fet­ti che evi­den­zia­no tut­ti i mu­sco­li, e quan­do ar­ri­va­no al cul­mi­ne del­lo svi­lup­po, rag­giun­go­no all’in­cir­ca l’al­tez­za di un me­tro e ot­tan­ta: i ma­schi han­no la te­sta di del­fi­no bian­ca e gli oc­chi ver­di, men­tre le fem­mi­ne ce l’han­no ro­sa chia­ro e gli oc­chi ce­le­sti.

    Ma quel ch’è più sor­pren­den­te è che ri­man­go­no co­sì per un mil­len­nio, fi­no a che non di­ven­ta­no de­gli spi­ri­ti chia­ma­ti ce­fi­del­fi i ma­schi, e le fem­mi­ne ce­fi­del­fie, che ve­do­no tut­to ciò che li cir­con­da a cen­ti­na­ia di me­tri, an­che at­tra­ver­so le pa­re­ti o qual­sia­si al­tra co­sa, inol­tre se vo­glio­no far­si no­ta­re, han­no il po­te­re di ir­rag­giar­si.

    A quel pun­to ha te­nu­to se­gre­to che i ce­fi­ri gli han­no fat­to il do­no di una po­ten­za fuo­ri dal nor­ma­le, con l’in­ca­ri­co di sal­va­re co­se e per­so­ne in pe­ri­co­lo e ol­tre a ciò, si è pre­so an­che l’in­ca­ri­co (sem­pre con ri­ser­va­tez­za), di riu­sci­re a por­re fi­ne all’estor­sio­ne di due mi­lio­ni di li­re al me­se che su­bi­sce il pa­dre.

    CAPITOLO 1

    In quel­la do­me­ni­ca pio­vo­sa del 22 set­tem­bre 1968, Cin­zia es­sen­do in pen­sie­ro per il ma­ri­to che an­dò a cac­cia, guar­da­va il via­le at­tra­ver­so i ve­tri di una fi­ne­stra del­la fat­to­ria. D’un trat­to sen­tì una schiop­pet­ta­ta che squar­ciò l’aria e in un su­bi­to del­le ur­la di do­lo­re: che pro­ve­ni­va­no da una zo­na col­li­no­sa ric­ca di ve­ge­ta­zio­ne me­di­ter­ra­nea e di sel­vag­gi­na.

    Da quel mo­men­to, Cin­zia si pre­oc­cu­pò non po­co, sa­pen­do che il ma­ri­to era pro­prio in quel­la zo­na: a tal pun­to che do­po un quar­to d’ora, de­ci­se di an­da­re a chie­de­re la col­la­bo­ra­zio­ne del fat­to­re e del­lo stal­lie­re, per usci­re in­sie­me a cer­ca­re il ma­ri­to… Nel men­tre che sta­va per sco­star­si dal­la fi­ne­stra; in­tra­vi­de con la co­da dell’oc­chio il ca­les­se trai­na­to dal ca­val­lo chia­ma­to Mo­de­sto, che trot­te­rel­la­va sul via­le gui­da­to dal ma­ri­to fi­no a che non si fer­mò di fron­te all’in­gres­so del­la fat­to­ria e aprì il por­ton­ci­no. Di lì a po­co, Cin­zia cor­se su­bi­to dal ma­ri­to e men­tre lo ab­brac­ciò scop­piò in la­cri­me di gio­ia. Poi, guan­cia con­tro guan­cia, gli chie­se: «Ca­ro, tut­to a po­sto?»

    «Sì mia ca­ra, tut­to a po­sto… Cin­zia, l’hai sen­ti­ta la schiop­pet­ta­ta e quel­le ur­la di do­lo­re?»

    «Sì, e non ti di­co quant’ero pre­oc­cu­pa­ta, fi­no a che non t’ho vi­sto, sa­no e sal­vo… A pro­po­si­to, sai co­sa è suc­ces­so?»

    «No, non so nien­te. Co­mun­que se è suc­ces­so qual­co­sa di mol­to gra­ve, do­ma­ni senz’al­tro ci sa­rà l’ar­ti­co­lo sul L’UNIO­NE SAR­DA… Mia ca­ra, vi­sto che il tem­po ten­de a peg­gio­ra­re, e per di più sia­mo an­che un po’ scos­si per quan­to ab­bia­mo sen­ti­to, cre­do che sia me­glio rien­tra­re nel­la no­stra abi­ta­zio­ne di Quar­tu Sant’Ele­na… Se non al­tro fi­ni­re­mo di pas­sa­re que­sta do­me­ni­ca con i no­stri due ama­ti fi­gli, an­zi­ché star­se­ne qui da so­li e con que­sto tem­pac­cio… Che mi di­ci, va be­ne per te?»

    «Ma cer­to ca­ro, an­ch’io pre­fe­ri­sco rien­tra­re.»

    «Ascol­ta Cin­zia, nel frat­tem­po che io ri­por­to Mo­de­sto nel­la scu­de­ria, tu pre­pa­ra le co­se che dob­bia­mo ri­por­ta­re a ca­sa e met­ti­le nel co­fa­no dell’au­to; co­sì non ap­pe­na tor­no, ce ne an­dre­mo su­bito.»

    L’in­do­ma­ni mat­ti­na, il ma­ri­to uscì di buon’ora per com­pe­ra­re il gior­na­le e quan­do rien­trò, dis­se al­la mo­glie, men­tre ap­pron­ta­va la co­la­zio­ne per il fi­glio di no­ve an­ni: «Ca­ra, sul gior­na­le c’è l’ar­ti­co­lo di ciò che ab­bia­mo sen­ti­to ie­ri… In sin­te­si c’è scrit­to che un cac­cia­to­re di Ca­glia­ri è sta­to col­pi­to sul vi­so per pu­ro ca­so da pal­li­ni va­gan­ti, che gli han­no sfre­gia­to le guan­ce e l’oc­chio si­ni­stro, a tal pun­to che a quell’oc­chio non ci ve­drà più… Que­sta sì ch’è sca­lo­gna, po­ve­rac­cio.»

    «Cer­to che ades­so sa­ran­no ca­vo­li ama­ri, per il cac­cia­to­re che gli ha spa­ra­to.»

    «A quan­to pa­re mia ca­ra, il cac­cia­to­re fe­ri­to ha te­sti­mo­nia­to ai me­di­ci dell’ospe­da­le che non sa chi è sta­to a con­ciar­lo in quel mo­do… Ora pen­sia­mo al­le co­se che dob­bia­mo fa­re que­st’og­gi.»

    A quel pun­to Cin­zia pen­sò: non so per­ché, ma ho l’im­pres­sio­ne che An­ge­lo si tie­ne se­gre­to qual­co­sa di mol­to gra­ve.

    Que­sta fa­mi­glia, co­me tan­te al­tre di quel tem­po, a Quar­tu Sant’Ele­na era con­si­de­ra­ta fa­col­to­sa: poi­ché ave­va una vi­ni­co­la… e fuo­ri dal­la cit­tà, in lo­ca­li­tà di Ge­re­meas, tra le mon­ta­gne e le col­li­ne con­fi­nan­ti con del­le spiag­ge ba­gna­te dal ma­re, ave­va una gran­de te­nu­ta pie­na di al­be­ri, sia or­na­men­ta­li sia da frut­to; men­tre nel­le par­ti non col­ti­va­te, ri­sal­ta­va la mac­chia me­di­ter­ra­nea che spri­gio­na­va odo­ri pro­fu­ma­ti che me­sco­lan­do­si con la brez­za del ma­re di­ven­ta­va­no più gra­de­vo­li. Es­sen­do­ci una sor­gen­te sul mon­te, l’ac­qua non man­ca­va mai, sia per ab­be­ve­ra­re il be­stia­me sia per le per­so­ne che ci la­vo­ra­va­no sia per il fat­to­re con la mo­glie e i lo­ro quat­tro fi­gli che abi­ta­va­no in una por­zio­ne del­la fat­to­ria: da­to che l’al­tra por­zio­ne do­ve­va es­se­re sem­pre li­be­ra in qual­sia­si mo­men­to per i co­niu­gi e pro­prie­ta­ri del­la te­nu­ta, An­ge­lo e Cin­zia e i due fi­gli Pier­pao­lo e Fio­ren­za: che di so­li­to sog­gior­na­va­no sol­tan­to ogni set­ti­ma­na, dal ve­ner­dì se­ra all’al­ba del lu­ne­dì.

    Pier­pao­lo era del 1959 e ave­va gli oc­chi vi­va­ci con il vi­so gio­via­le, al­to un me­tro e cin­quan­ta con un fi­si­co slan­cia­to e i ca­pel­li on­du­la­ti ca­sta­ni. Men­tre Fio­ren­za era del 1961 e ave­va gli oc­chi lu­cen­ti e il vi­si­no ca­ri­no, al­ta un me­tro e qua­ran­ta con un fi­si­co ag­gra­zia­to e i ca­pel­li li­sci ca­sta­ni.

    Ogni vol­ta An­ge­lo, per sca­ri­car­si le cin­quan­ta ore tra­scor­se nell’uf­fi­cio del­la sua vi­ni­co­la, fa­ce­va un’escur­sio­ne nel­la sua te­nu­ta in grop­pa a un ca­val­lo... e poi­ché no­tò, che tut­te le vol­te che pre­se con sé il fi­glio Pier­pao­lo si di­ver­ti­va tan­to a ca­val­ca­re, l’in­se­gnò a co­mu­ni­ca­re con il ca­val­lo e sta­re be­ne in sel­la.

    D’al­lo­ra: ogni vol­ta che an­da­va­no nel­la te­nu­ta, il sa­ba­to all’al­ba usci­va­no in­sie­me ognu­no con il suo ca­val­lo a far­si la pas­seg­gia­ta. Fi­no a che, il ve­ner­dì del 25 giu­gno 1971, quan­do ar­ri­va­ro­no nel­la fat­to­ria, Pier­pao­lo dis­se al pa­dre: «Se me lo con­sen­ti, do­ma­ni vor­rei pro­va­re a ca­val­ca­re il bel ca­val­lo bian­co chia­ma­to Fo­co­so.»

    Gli ri­spo­se: «Fi­glio­lo, hai sol­tan­to do­di­ci an­ni e sta­re in sel­la a quel ca­val­lo è un po’ ri­schio­so per te..., vi­sto che più del­le vol­te è im­pre­ve­di­bi­le e im­pul­si­vo; tan­to è ve­ro, che l’ab­bia­mo mes­so il no­me Fo­co­so, pro­prio per que­sto mo­ti­vo.»

    Vi­sto che il fi­glio ci ri­ma­se un po’ ma­le, gli dis­se: «Suv­via! Non ab­bat­ter­ti co­sì Pier­pao­lo... Se mi pro­met­ti che non ti di­strar­rai nep­pu­re un at­ti­mo, te lo fa­rò ca­val­ca­re... Va be­ne?»

    Ri­spo­se: «Gra­zie bab­bo, ve­drai che non suc­ce­de­rà nien­te, per­ché mi im­pe­gne­rò al mas­si­mo.»

    In­tan­to all’im­bru­ni­re, lo stal­lie­re, bus­sò con il bat­tac­chio al so­li­do por­ton­ci­no del­la fat­to­ria... Nel sen­tir la ca­den­za di quei toc­chi in­con­fon­di­bi­li, la do­me­sti­ca dis­se con la vo­ce squil­lan­te: «En­tra, en­tra Ge­sual­do! Il por­ton­ci­no è soc­chiu­so, ac­co­mo­da­ti nel so­li­to po­sto... Dot­tor An­ge­lo!... Dot­tor An­ge­lo! Giù nel sa­lot­ti­no c’è Ge­sual­do che l’aspet­ta.»

    Ri­spo­se. «Un at­ti­mo e ven­go Lia… In­tan­to, co­min­cia a of­frir­gli i sa­la­ti­ni con l’ape­ri­ti­vo.»

    Do­po quat­tro mi­nu­ti, An­ge­lo sce­se dal pia­no su­pe­rio­re e an­dò da Ge­sual­do, che su­bi­to sa­lu­tò: «Ciao Ge­sual­do, tut­to a po­sto?»

    Ri­spo­se con en­tu­sia­smo: «Buo­na­se­ra dot­tor An­ge­lo, tut­to a po­sto, gra­zie... e lei e i suoi fa­mi­glia­ri?»

    Ri­ba­dì sor­ri­den­te: «Tut­ti be­ne, gra­zie.»

    Al­lo­ra gli chie­se: «Dot­to­re, do­ma­ni all’al­ba, deb­bo sel­la­re Ge­ne­ro­so e Mo­de­sto?»

    Ri­spo­se: «No Ge­sual­do, do­ma­ni per mio fi­glio­lo Pier­pao­lo, de­vi sel­la­re il ca­par­bio Fo­co­so, per me il mio pre­fe­ri­to Ge­ne­ro­so... e ver­so le ot­to met­ti i fi­ni­men­ti a Mo­de­sto e lo im­bri­gli al ca­les­se; co­sì, an­che mia mo­glie e mia fi­glia Fio­ren­za si fa­ran­no un gi­ro nel­la te­nu­ta: giac­ché so­no più di due me­si che non si fan­no una pas­seg­gia­ta.»

    Gli chie­se con to­no scet­ti­co: «Mi scu­si dot­to­re se m’im­pic­cio su co­se che non mi ri­guar­da­no, ma lei cre­de che suo fi­glio sia all’al­tez­za di sta­re in sel­la a Fo­co­so?»

    Ri­spo­se: «Per co­me ti co­no­sco e per l’af­fet­to che pro­vi per me e i miei fa­mi­glia­ri, que­sta tua do­man­da me l’aspet­ta­vo e ti di­co su­bi­to che ho ten­ta­to a dis­sua­der­lo di ca­val­ca­re Fo­co­so, ma vi­sto che ci tie­ne tan­to, ho ce­du­to al­la sua ri­chie­sta, pur sa­pen­do che ciò è mol­to ri­schio­so. Deb­bo sol­tan­to spe­ra­re che non gli suc­ce­da nien­te, per­ché se gli ac­ca­dreb­be qual­co­sa..., vi­vrei con il ri­mor­so fi­no a che re­ste­rò in vi­ta.»

    Al che gli dis­se: «Sia se­re­no dot­to­re, fa­rò tut­to ciò che mi ha or­di­na­to... Buo­na­not­te! A do­ma­ni.»

    Do­po che l’ac­com­pa­gnò al por­ton­ci­no, ri­spo­se nel men­tre che lo chiu­de­va: «Buo­na­not­te Ge­sual­do..., buo­na­not­te!»

    Pri­ma che il so­le sor­ges­se, Pier­pao­lo per quant’era tre­pi­dan­te si sve­gliò e non ve­de­va l’ora di ca­val­ca­re il pos­sen­te ca­val­lo bian­co; tant’è che s’al­zò dal let­to pri­ma de­gli al­tri... e men­tre pas­sa­va nel di­sim­pe­gno per an­da­re in ba­gno a la­var­si, ur­tò ap­po­sta una se­dia per far sì che il ru­mo­re sve­glias­se suo pa­dre.

    Quan­do il gal­lo in­co­min­ciò a can­ta­re: Pier­pao­lo era nel­la sua ca­me­ret­ta già pron­to per usci­re e, as­sor­to in pen­sie­ri, guar­da­va at­tra­ver­so il ve­tro del­la fi­ne­stra il via­le ze­bra­to dal­le om­bre de­gli al­be­ri, per ef­fet­to del so­le ra­dio­so an­co­ra bas­so.

    Nel men­tre, dal­la stan­za dei ge­ni­to­ri si per­ce­pi­va­no dei ru­mo­ri, che fa­ce­va­no in­tui­re che il pa­dre si era al­za­to; co­me si per­ce­pi­va­no giù in cu­ci­na, quel­li che fa­ce­va la do­me­sti­ca, men­tre ap­pa­rec­chia­va il ta­vo­lo per fa­re la co­la­zio­ne.

    Sep­pu­re era ten­ta­to di scen­de­re in cu­ci­na per an­ti­ci­pa­re i tem­pi: per ri­spet­to nei con­fron­ti del pa­dre, ri­ma­se nel­la sua ca­me­ret­ta aspet­tan­do che fos­se il pa­dre a chia­mar­lo per fa­re la co­la­zio­ne in­sie­me.

    Quan­do fi­ni­ro­no di man­gia­re; s’ap­pre­sta­ro­no a usci­re per pren­de­re i ca­val­li dal­la scu­de­ria: che tro­va­ro­no già ben pu­li­ti e sel­la­ti, pron­ti a ca­val­car­li, te­nu­ti al­le bri­glie da Ge­sual­do, che do­po il re­ci­pro­co sa­lu­to, au­gu­rò ai due ca­va­lie­ri di fa­re una buo­na pas­seg­gia­ta. E co­sì, do­po fa­te le ul­ti­me rac­co­man­da­zio­ni i due ca­va­lie­ri si mi­se­ro in grop­pa ai ca­val­li e si av­via­ro­no trot­te­rel­lan­do.

    Il vi­so di Pier­pao­lo espri­me­va una gio­ia im­men­sa, per­ché si sen­ti­va im­por­tan­te co­me un prin­ci­pe, in grop­pa a un ca­val­lo bian­co co­sì bel­lo e vi­go­ro­so... e an­che il pa­dre era fe­li­ce ve­den­do il fi­glio che gioi­va e per co­me sa­pe­va sta­re be­ne in sel­la.

    Do­po che sa­li­ro­no nei per­cor­si dei de­cli­vi; An­ge­lo nel ve­der il suo oro­lo­gio che in­di­ca­va le ot­to, de­ci­se di rien­tra­re nel­la bas­sa co­sta per in­con­tra­re la mo­glie Cin­zia e la fi­glia Fio­ren­za: da­to che ci te­ne­va tan­to a sta­re in­sie­me con Cin­zia a fa­re una pas­seg­gia­ta con il ca­les­se trai­na­to dal ca­val­lo Mo­de­sto in mez­zo al­la mac­chia me­di­ter­ra­nea vi­ci­no al ma­re e re­spi­ra­re quell’aria pie­na di sva­ria­ti pro­fu­mi.

    Quan­do s’in­con­tra­ro­no, An­ge­lo si se­det­te a fian­co di Cin­zia, e men­tre il ca­val­lo an­da­va al trot­to, par­la­va­no e ri­de­va­no, per le bat­tu­te che di­ce­va­no. Sfor­tu­na­ta­men­te pe­rò, la ga­iez­za si tra­sfor­mò in af­fli­zio­ne: per­ché una mo­sca ca­val­li­na piz­zi­cò il ca­val­lo di Pier­pao­lo; tant’è che per il do­lo­re, il ca­val­lo all’im­prov­vi­so scat­tò ful­mi­neo sen­za fre­no sbuf­fan­do dal­le fro­ge, fi­no a che, all’estre­mi­tà del pre­ci­pi­zio non si bloc­cò di col­po, fa­cen­do co­sì ca­ta­pul­ta­re Pier­pao­lo giù in ma­re tra i flut­ti.

    Quand’an­che i suoi ge­ni­to­ri e la so­rel­li­na ar­ri­va­ro­no sul po­sto; si mi­se­ro a cam­mi­na­re sull’or­lo, spe­ran­do di ve­de­re Pier­pao­lo, ma nel mo­men­to in cui non lo vi­de­ro sul pun­to do­ve cad­de, pre­si dal­lo scon­for­to gri­da­ro­no co­me paz­zi at­ti­ran­do l’at­ten­zio­ne a dei pe­sca­to­ri che ti­ra­va­no le re­ti so­pra il na­tan­te: che poi ri­but­ta­ro­no su­bi­to in ma­re per po­ter cer­ca­re il po­ve­ro di­sper­so.

    Nel frat­tem­po, ar­ri­va­ro­no i ca­ra­bi­nie­ri con i som­moz­za­to­ri e la guar­dia co­stie­ra; ma no­no­stan­te i lo­ro im­pe­gno as­si­duo per due gior­ni e due not­ti, non tro­van­do il cor­pi­ci­no di Pier­pao­lo ab­ban­do­na­ro­no le ri­cer­che.

    In­tan­to, era­no pas­sa­ti già quat­tro gior­ni da quel dì che Pier­pao­lo cad­de in ma­re, e i fa­mi­glia­ri per quant’era­no af­flit­ti, sog­gior­na­va­no an­co­ra nel­la fat­to­ria.

    Ma al quin­to gior­no, sul far del­la se­ra, all’im­prov­vi­so i toc­chi del bat­tac­chio al por­ton­ci­no non smi­se­ro fi­no a che la do­me­sti­ca non s’ac­co­stò in­di­gna­ta e dis­se: «Chi è che bus­sa co­sì in­tem­pe­ran­te?»

    Ri­spo­se: «So­no Pier­pao­lo.»

    Gli dis­se: «Non so chi tu sia..., ma ciò è mol­to de­plo­re­vo­le in que­sto mo­men­to tri­ste e do­lo­ro­so, si­mu­la­re la vo­ce di Pier­pao­lo; per­ciò, se vuoi che io apra que­sta por­ta, ti pre­go di dir­mi chi sei real­men­te.»

    Al che, le dis­se: «Per fa­vo­re Lia apri la por­ta… Dim­mi co­sa deb­bo fa­re per tran­quil­liz­zar­ti, che so­no ve­ra­men­te Pier­pao­lo.»

    A quel pun­to ur­lò: «Oh mio Dio!... Dot­tor An­ge­lo! Dot­tor An­ge­lo! Die­tro al por­ton­ci­no c’è uno che..., che af­fer­ma di es­se­re suo fi­glio Pier­pao­lo. La pre­go, con­trol­li lei, per­ché io..., io sto per sve­ni­re.»

    Nel sen­ti­re quel­le pa­ro­le, An­ge­lo e la mo­glie Cin­zia, pen­sa­ro­no che Lia stes­se im­paz­zen­do... e da­to che era­no nel­la ca­me­ra ma­tri­mo­nia­le del pri­mo pia­no, apri­ro­no la fi­ne­stra e s’af­fac­cia­ro­no per ve­de­re chi c’era real­men­te di fron­te al por­ton­ci­no. In quell’istan­te il ra­gaz­zi­no, nel sen­tir la fi­ne­stra stri­de­re sui car­di­ni, si vol­tò all’in­sù mo­stran­do il suo vi­so ai ge­ni­to­ri, che non ap­pe­na lo vi­de­ro, con gran­de stu­po­re escla­ma­ro­no: «Oh Dio!… È ve­ro è ve­ro! È no­stro fi­glio­lo!»

    La tri­stez­za si tra­sfor­mò in un tri­pu­dio qua­si fol­le... e pri­ma che Pier­pao­lo rac­con­tas­se la con­ve­nien­te av­ven­tu­ra, con im­men­sa gio­ia si guar­da­ro­no con gli oc­chi lu­ci­di e si ab­brac­cia­ro­no.

    Quan­do riu­sci­ro­no a cal­mar­si; Pier­pao­lo in­co­min­ciò a ri­ve­la­re quant’era sta­to for­tu­na­to a uscir­ne sa­no e sal­vo da una si­tua­zio­ne co­sì pe­ri­co­lo­sa: «Do­po che il ca­val­lo mi ha ca­ta­pul­ta­to fa­cen­do­mi fa­re un tuf­fo di ven­ti me­tri sui flut­ti del ma­re; mi son sen­ti­to ri­suc­chia­to da un vor­ti­ce in una ca­vi­tà che m’ha tra­sci­na­to in una grot­ta enor­me per me­tà pie­na d’ac­qua, che spro­fon­da sot­to il ma­re e ri­sa­le nel­le vi­sce­re del­la mon­ta­gna, im­pre­zio­si­ta da sta­lag­mi­ti e sta­lat­ti­ti che ri­ver­be­ra­no il bar­lu­me di lu­ce, che en­tra at­tra­ver­so i si­fo­ni sot­to­ma­ri­ni: pro­prio sta­mat­ti­na, ho po­tu­to am­mi­rar que­sta bel­lez­za, men­tre m’in­cam­mi­na­vo all’usci­ta per rien­tra­re in ca­sa.»

    In quel mo­men­to, Fio­ren­za l’in­ter­rup­pe e gli do­man­dò: «Ma non hai vi­sto al­tre bel­lez­ze du­ran­te i quat­tro gior­ni tra­scor­si in quel­la grot­ta?»

    Ri­spo­se: «Al­tro­ché se ne ho vi­sto!... Quan­do mi son tro­va­to a fior d’ac­qua nel­la grot­ta, ero fra­stor­na­to e sen­za fia­to.

    Do­po che mi son ri­pre­so, ave­vo ca­pi­to che ero so­lo e an­che di non sa­pe­re, se dal­la grot­ta si po­te­va usci­re all’ester­no; tant’è che pur es­sen­do in pre­da al­la pau­ra, quan­do ho vi­sto di fron­te un rial­zo, ho pen­sa­to che era un pun­to per to­glier­mi i ve­sti­ti e gli sti­va­li per ri­po­sar­mi e guar­da­re tut­to quel che po­te­vo scru­ta­re... e co­sì mi son mes­so a nuo­ta­re fi­no al rial­zo, da do­ve ho no­ta­to le al­tre sa­le, an­tri e fes­su­re spriz­za­re ac­qua dol­ce e ac­qua cal­da: da­to che l’ho vi­sta fu­man­te e in quel mo­men­to ho ca­pi­to per­ché la tem­pe­ra­tu­ra è co­sì mi­te.

    Vi­sto ciò, mi son mes­so a ri­flet­te­re per tro­va­re la so­lu­zio­ne mi­glio­re al mo­men­to dif­fi­col­to­so, ma pur­trop­po, nel­la mia men­te non ave­vo nean­che un fi­li­no di lu­ce per ri­sol­ve­re il pro­ble­ma, con­si­de­ran­do che ogni aper­tu­ra po­te­va es­se­re quel­la giu­sta o quel­la sba­glia­ta; per­ciò, sol­tan­to la dea ben­da­ta, os­sia la for­tu­na, po­te­va aiu­tar­mi a uscir­ne fuo­ri. Quin­di, a quel pun­to, vi­sto che non po­te­vo fa­re al­tro, so­no an­da­to a ve­de­re il tut­to da vi­ci­no: nel pri­mo an­tro non so­no nep­pu­re en­tra­to, per­ché sen­za ave­re una tor­cia è im­pos­si­bi­le per quan­to è te­ne­bro­so; do­po mi so­no ad­den­tra­to in una sa­la ap­pe­na il­lu­mi­na­ta da una fie­vo­le lu­ce; tant’è che son sci­vo­la­to in ac­qua e in quel mo­men­to del­le ostri­che gran­dis­si­me si so­no se­mia­per­te, emet­ten­do dall’in­ter­no dei bel­lis­si­mi rag­gi ful­gen­ti, il­lu­mi­nan­do co­sì, an­che tut­ta l’ac­qua, met­ten­do in mo­stra sul fon­da­le e sul­le pa­re­ti una mi­ria­de di co­lo­ri e tut­to ciò che c’è: co­me le gor­go­nie vio­la­cee, gial­le, ros­sa­stre, bian­che e ros­se; spu­gne az­zur­re e di al­tri co­lo­ri, stel­le ma­ri­ne, ca­val­luc­ci ma­ri­ni, pe­sci va­rio­pin­ti e al­ghe di ogni for­ma e di va­ri co­lo­ri, co­me lo stes­so le pian­te con del­le bac­che e di frut­ti suc­cu­len­ti.

    Vi­sto che la sa­la è im­po­nen­te e il­lu­mi­na­ta; con uno slan­cio son sal­ta­to fuor dall’ac­qua, per an­da­re a esplo­ra­re le al­tre sa­le co­mu­ni­can­ti, spe­ran­do di sen­tir qual­che spif­fe­ro d’aria, che m’in­di­cas­se l’usci­ta.

    Quan­do so­no en­tra­to nel­la se­con­da sa­la ho vi­sto del­le al­ghe, del­la frut­ta e del­le bac­che già es­sic­ca­te e am­mon­tic­chia­te, co­me quel­le che ave­vo vi­sto sot­to l’ac­qua..., al­lo­ra ho pen­sa­to: ac­ci­den­ti! Qui ci abi­ta del­la gen­te, mi au­gu­ro che non sia­no in mol­ti e mal­va­gi. Tant’è che sep­pu­re non sen­ti­vo lo scal­pic­cio di pas­si, ave­vo l’im­pres­sio­ne di es­se­re pe­di­na­to; ma poi­ché ero stan­co e ave­vo fa­me, mi so­no mes­so a man­gia­re del­la frut­ta sec­ca, che per quan­to è buo­na, ne ho man­gia­to fi­no a sa­ziar­mi; poi, mi so­no ada­gia­to in un an­go­lo in pe­nom­bra e mi so­no ad­dor­men­ta­to fi­no all’in­do­ma­ni.

    Do­me­ni­ca mat­ti­na, quan­do mi so­no sve­glia­to, non ve­den­do le pa­re­ti del­la mia ca­me­ret­ta e ri­cor­dan­do­mi l’in­tri­ca­ta si­tua­zio­ne, mi so­no nuo­va­men­te rat­tri­sta­to; pe­rò, sen­za per­der­mi d’ani­mo mi so­no re­ca­to nel­la ter­za sa­la, pie­na di sta­lat­ti­ti con del­le gem­me in­ca­sto­na­te, di ru­scel­li, di la­ghet­ti e stret­te fes­su­re, che zam­pil­la­va­no ac­qua cal­da e fred­da: che per tan­ta bel­lez­za e per il dol­ce pro­fu­mo del­le er­be che si span­de­va in tut­to l’am­bien­te, non ho re­si­sti­to a non far­mi il ba­gno.

    Do­po di che, mi so­no re­ca­to nel­la quar­ta sa­la, do­ve nel ve­der tut­te le pa­re­ti e la vol­ta ri­ve­sti­ta di la­pi­slaz­zu­li e di fram­men­ti d’oro, son ri­ma­sto in­can­ta­to; da­to che mi ri­cor­da­va il cie­lo in una not­te stel­la­ta. A quel pun­to, so­no tor­na­to in­die­tro nel­la se­con­da sa­la per man­gia­re la frut­ta sec­ca e do­po nel­la sa­la stel­la­ta per dor­mi­re fi­no all’in­do­ma­ni.

    Lu­ne­dì mi so­no sve­glia­to di so­pras­sal­to, per­ché a un pas­so da me, m’è par­so di ve­de­re una stra­na crea­tu­ra; ma vi­sto che non c’era nes­su­no, ho pen­sa­to che in quel mo­men­to sta­vo so­gnan­do. Do­po di che, mi so­no in­cam­mi­na­to nel­la quin­ta sa­la, spe­ran­do di tro­va­re qual­che usci­ta, che non ho tro­va­to; ma per quan­to ho po­tu­to ve­de­re, cre­do che in tut­to il mon­do non esi­sta una me­ra­vi­glia su­pe­rio­re a quel­la im­men­sa sa­la, pie­na di og­get­ti di gran va­lo­re.»

    Al­lo­ra il pa­dre, per ve­ri­fi­ca­re se Pier­pao­lo era in gra­do di de­scri­ve­re be­ne ciò che ave­va vi­sto lo stuz­zi­cò di­cen­do: «Ma dai Pier­pao­lo, non esa­ge­ra­re! Ora co­me ora, non puoi va­lu­ta­re che quel­la sa­la è la mi­glio­re, da­to che co­me tut­ti noi, an­che tu non hai an­co­ra vi­sto tut­te le bel­lez­ze del mon­do.»

    Ri­spo­se ag­grot­tan­do la fron­te: «Que­sto è ve­ro; pe­rò, se riu­sci­rò a de­scri­ve­re tut­to ciò che ho vi­sto al pun­to di far­ve­lo im­ma­gi­na­re, cre­do che mi da­re­ste ra­gio­ne.»

    Ri­ba­dì il pa­dre: «Va be­ne rin­co­min­cia..., sia­mo tutt’orec­chi.»

    Al che, dis­se: «Im­ma­gi­na­te­vi una sa­la lun­ga più di due chi­lo­me­tri, lar­ga qua­si sei­cen­to me­tri e al­ta in cer­ti pun­ti an­che ses­san­ta me­tri, sud­di­vi­sa da­gli im­po­nen­ti sta­lag­mi­ti de­co­ra­ti con dia­man­ti in ben do­di­ci na­va­te, col­me di sta­lat­ti­ti di di­ver­se for­me e di gran­dez­ze, che ri­flet­to­no splen­di­di co­lo­ri, co­me: l’az­zur­ro, il ro­sa, il por­po­ra, il gial­lo-oro, il fuc­sia, il gri­gio-tur­che­se, il blu e l’aran­cio­ne... e que­sto, gra­zie al­la ric­ca e straor­di­na­ria raf­fi­na­tez­za del­le de­co­ra­zio­ni rea­liz­za­te con fram­men­ti d’oro, diaman­ti, zaf­fi­ri, per­le, opa­li, ru­bi­ni, sme­ral­di, tur­che­si, ame­ti­ste, to­pa­zi e al­tre gem­me; co­me lo stes­so, so­no le pa­re­ti ai la­ti, do­ve si apro­no de­gli an­tri con spor­gen­ze e ca­vi­tà di ogni for­ma, col­me d’oro con pie­tre pre­zio­se: co­ro­ne, scet­tri, brac­cia­let­ti, ca­te­ni­ne, anel­li, orec­chi­ni, ca­li­ci, am­pol­le, ca­raf­fe, al­tri og­get­ti e de­gli al­tri an­tri con zam­pil­li, ru­scel­li, ca­sca­te e dei la­ghet­ti a spec­chio, che ri­flet­to­no tut­to ciò che sta in­tor­no; che co­me per ma­gia, im­pre­zio­si­sco­no tut­to il com­ples­so ra­dio­so per il suo me­ra­vi­glio­so splen­do­re.»

    Tut­ti ri­ma­se­ro stu­pi­ti e nel­lo stes­so tem­po in­cre­du­li, che esi­stes­se d’av­ve­ro una me­ra­vi­glia del ge­ne­re; tant’è che il pa­dre, pri­ma gli fe­ce i com­pli­men­ti e poi per ave­re la con­fer­ma che Pier­pao­lo di­ces­se la ve­ri­tà, dis­se: «Ma di chi sa­rà tut­to quel te­so­ro? E co­me mai non l’han­no mai tro­va­to? E tu Pier­pao­lo..., co­me mai non hai pre­so nul­la?... Ep­pu­re ba­sta­va pren­der­ne due man­cia­te di quei dia­man­ti per di­ven­ta­re mol­to ric­co, lo sai?... O pre­fe­ri­sci che an­dia­mo in­sie­me be­ne equi­pag­gia­ti, per pren­der­ne tan­ti, ora che co­no­sci il po­sto e sai co­me ar­ri­var­ci?»

    Al­lo­ra Fio­ren­za tut­ta eu­fo­ri­ca escla­mò: «Che bel­lo! Che bel­lo!... Co­sì an­ch’io, po­trò am­mi­ra­re tut­te quel­le grot­te me­ra­vi­glio­se.»

    Da­to che Pier­pao­lo non po­te­va ac­con­ten­ta­re i suoi ca­ri, dis­se lo­ro: «Mi di­spia­ce e mi rin­cre­sce mol­tis­si­mo de­lu­der­vi... e giu­ro che mi sa­reb­be pia­ciu­to rian­dar­ci con voi, ma pur­trop­po non è pos­si­bi­le, sia per me sia per voi e per tut­ti quel­li che vor­reb­be­ro an­dar­ci pas­san­do dai per­tu­gi che ci so­no nel­la ter­ra; poi­ché si può en­tra­re sol­tan­to dal fon­do del ma­re, co­me è ac­ca­du­to a me per ca­sua­li­tà, nel mo­men­to che s’è aper­to il si­fo­ne che c’è sott’ac­qua: pe­rò, con l’ec­ce­zio­ne che a me, d’ora in poi mi fa­ran­no en­tra­re, se do­ves­si tro­var­mi in cir­co­stan­ze pe­ri­co­lo­se. Tan­to è ve­ro, se ciò do­ves­se ac­ca­de­re: per av­vi­sar­li del­la mia pre­sen­za, do­vrei sof­fia­re que­sta pic­co­la con­chi­glia sott’ac­qua (che m’han­no do­na­to e che ter­rò sem­pre in­fi­la­ta nel­la mia ca­te­ni­na che por­to al col­lo), in quel­la zo­na del ma­re do­ve emet­te dei suo­ni soa­vi, che so­la­men­te lo­ro sen­ti­reb­be­ro per far­mi en­tra­re.»

    Non ap­pe­na che Pier­pao­lo con­clu­se; Cin­zia pre­oc­cu­pa­tis­si­ma guar­dò il ma­ri­to An­ge­lo, per quel che sen­tì di­re dal fi­glio e poi gli dis­se: «Fi­glio­lo, non sa­rà me­glio che ora vai a ri­po­sar­ti e ci rac­con­ti tut­to do­ma­ni mat­ti­na?... Sai, quan­do una per­so­na è mol­to stan­ca, sen­za ac­cor­ger­se­ne può rac­con­ta­re an­che del­le fan­do­nie... Non è ve­ro An­ge­lo?»

    Ri­spo­se An­ge­lo: «Cer­to che può ca­pi­ta­re, spe­cial­men­te do­po un’av­ven­tu­ra del ge­ne­re.»

    Pier­pao­lo ca­pì su­bi­to che i suoi ge­ni­to­ri non cre­det­te­ro a quel che rac­con­tò, inol­tre pen­sò, che cre­de­va­no che stes­se im­paz­zen­do; tant’è per non con­trad­dir­li, sa­lu­tò e an­dò nel­la sua ca­me­ret­ta a ri­po­sar­si.

    L’in­do­ma­ni mat­ti­na, do­po es­ser­si ben la­va­ti e pro­fu­ma­ti, si se­det­te­ro tut­ti in­sie­me a fa­re co­la­zio­ne... e vi­sto che Pier­pao­lo era se­rio e non ri­pre­se a rac­con­ta­re la sua av­ven­tu­ra, il pa­dre gli chie­se: «Pier­pao­lo, cos’è che non va?... Non hai ri­po­sa­to be­ne?»

    Gli ri­spo­se: «Sì che ho ri­po­sa­to be­ne!... Ho dor­mi­to co­me un ghi­ro e mi sen­to be­nis­si­mo!»

    A quel pun­to la mam­ma gli dis­se: «So­no mol­to con­ten­ta fi­glio­lo che tu ab­bia ri­cu­pe­ra­to le for­ze; co­sì, puoi fi­ni­re di rac­con­tar­ci ciò che t’è suc­ces­so, se ora ne hai vo­glia.»

    Ag­grot­tan­do la fron­te ri­spo­se: «Fi­ni­rò di rac­con­tar­vi tut­to, se non pen­se­re­te che io sia paz­zo, per­ché ca­pi­sco quan­to sia dif­fi­ci­le per voi cre­de­re ciò che vi ho rac­con­ta­to e quel che vi rac­con­te­rò. Co­mun­que se non ci cre­de­te, fa­te fin­ta che sia una fia­ba e che tut­to ciò sia frut­to del­la mia fan­ta­sia.»

    Do­po che An­ge­lo e Cin­zia lo ras­si­cu­ra­ro­no che il suo ra­gio­na­men­to era più che sen­sa­to, ri­co­min­ciò il rac­con­to: «Pur es­sen­do af­fa­sci­na­to dal­lo splen­do­re del­la quin­ta sa­la, l’an­sia di tro­va­re l’usci­ta s’in­ten­si­fi­ca­va, a tal pun­to che so­no an­da­to nel­la se­sta sa­la, do­ve l’am­bien­te gros­so mo­do è si­mi­le al­la quin­ta sa­la: tran­ne che nel­le spor­gen­ze de­gli an­tri, non ci so­no og­get­ti d’oro ma, scul­tu­re in bron­zo, in ala­ba­stro e in ce­ra­mi­ca an­ti­chis­si­me, sta­tue va­rie, va­si, an­fo­re, cop­pe, vas­soi, ur­ne a for­ma di pa­pe­ra, buc­che­ri e an­che mo­ne­te di va­rie epo­che... e ol­tre a ciò, al cen­tro del­la sa­la, tro­neg­gia un ta­vo­lo ton­do e un cen­ti­na­io di scan­ni, ri­co­per­ti di pre­gia­ti mo­sai­ci splen­den­ti.

    Do­po che ho am­mi­ra­to la sa­la, mi son mes­so a cer­ca­re per ore qual­che pas­sag­gio per ri­ve­de­re il cie­lo, che pur­trop­po non ho tra­va­to; al che, pre­so dal­la stan­chez­za, mi so­no sdra­ia­to vi­ci­no all’in­gres­so di un an­tro, do­ve del­le ca­sca­tel­le e dei zam­pil­li, emet­to­no dei suo­ni me­lo­dio­si, che m’han­no fat­to ad­dor­men­ta­re fi­no a mar­te­dì mat­ti­na.

    Men­tre sta­vo apren­do gli oc­chi, ho in­tra­vi­sto di fron­te del­le crea­tu­re stra­ne; co­me quel­le che ho so­gna­to lu­ne­dì; tan­to è ve­ro, che per pau­ra, ho ri­chiu­so gli oc­chi pen­san­do che po­te­va es­se­re un’al­lu­ci­na­zio­ne... e quan­do sta­vo per ria­prir­li, ho sen­ti­to una vo­ce de­li­ca­ta: Tran­quil­lo, non ti fa­re­mo del ma­le (co­me di­te voi es­se­ri uma­ni)... Ades­so apri gli oc­chi e fac­ci un bel sor­ri­so.

    Quan­do ho aper­to gli oc­chi: lo­ro sor­ri­de­va­no, men­tre io non so­no sta­to ca­pa­ce di sor­ri­de­re, per­ché non ap­pe­na ho no­ta­to quel­li es­se­ri, son ri­ma­sto im­pie­tri­to e ho co­min­cia­to a sen­ti­re il cuo­re che mi pul­sa­va ve­lo­cis­si­mo; ma quan­do mi so­no re­so con­to del­la lo­ro be­ne­vo­len­za, an­ch’io ho fat­to un bel sor­ri­so. Do­po di che, m’han­no fat­to ac­co­mo­da­re con lo­ro, at­tor­no al­lo splen­di­do ta­vo­lo ton­do; ove ar­go­men­ta­no di­li­gen­te­men­te per ri­sol­ve­re qual­sia­si pro­ble­ma.»

    All’im­prov­vi­so, Fio­ren­za s’al­zò e dis­se un po’ sec­ca­ta: «Ora ba­sta!... O ri­ve­li co­me son fat­ti que­sti es­se­ri o me ne va­do a stu­dia­re..., vi­sto che mi stai fa­cen­do in­ner­vo­si­re.»

    Al­lo­ra la mam­ma le dis­se: «Ri­las­sa­ti e stai cal­ma Fio­ren­za, ora Pier­pao­lo ci spie­ghe­rà co­me son fat­ti, le lo­ro ori­gi­ni e per qua­le mo­ti­vo vi­vo­no sot­to il ma­re in quel­le grot­te sfar­zo­se.»

    Do­po un lun­go so­spi­ro, Pier­pao­lo ri­co­min­ciò: «Mil­len­ni e mil­len­ni ad­die­tro, la ocea­ni­na Ce­fi­ra, ge­ne­ra­ta dai ti­ta­ni Ocea­no e Te­ti, si fu ac­cop­pia­ta con un bel­lis­si­mo del­fi­no (vi­sto che i ti­ta­ni che le ron­za­va­no in­tor­no era­no mol­to brut­ti); ma quan­do par­to­rì re­stò scon­cer­ta­ta, ve­den­do che il fi­glio ave­va la te­sta di del­fi­no e il cor­po si­mi­le a quel­lo di un es­se­re uma­no mol­to più pic­co­lo ri­spet­to al­la te­sta; tant’è che l’ab­ban­do­nò in mez­zo al ma­re, nel mo­men­to in cui Rea, so­rel­la e mo­glie del ti­ta­no Cro­no, le chie­se la cor­te­sia di al­lat­ta­re il fi­glio­let­to Po­sei­do­ne (che poi di­ven­tò il dio del ma­re).

    Nel frat­tem­po una cop­pia di del­fi­ni; quan­do vi­de­ro in fon­do al ma­re il pic­co­lo ab­ban­do­na­to, gli die­de­ro as­si­sten­za e pro­te­zio­ne co­me un pro­prio fi­glio, fin­ché non di­ven­tò un bel­lis­si­mo gio­va­ne.

    Un gior­no men­tre spa­zia­va sul fon­da­le per rac­co­glie­re del­le al­ghe per nu­trir­si, no­tò una ca­vi­tà un po’ par­ti­co­la­re, che per cu­rio­si­tà s’in­fi­lò den­tro per esplo­rar­la. Quan­do vi­de tut­te quel­le grot­te bel­lis­si­me e co­mu­ni­can­ti, de­ci­se di far­ne la sua di­mo­ra, giac­ché po­te­va cam­mi­na­re.

    D’al­lo­ra: non ap­pe­na ve­de­va del­le im­bar­ca­zio­ni nau­fra­ga­te con dei gio­iel­li e al­tro di pre­zio­so, li por­ta­va nel­la sua di­mo­ra per ab­bel­lir­la. Co­sì ini­ziò a de­co­ra­re le grot­te con le pie­tre pre­zio­se, con il pen­sie­ro di fa­re una bel­la fi­gu­ra: se un dì aves­se tro­va­to una buo­na e bel­la gio­vi­ne, per unir­si e crea­re una fa­mi­glia.

    Pur­trop­po, do­po an­ni di ri­cer­ca non vi­de un es­se­re si­mi­le a es­so; al­lo­ra pre­so dal­lo scon­for­to an­dò dai del­fi­ni che l’ave­va­no cre­sciu­to, per sa­pe­re do­ve di­mo­ra­va­no i suoi si­mi­li; ma quan­do sen­tì, che era l’uni­co al mon­do e il per­ché: dis­se ai del­fi­ni che pur es­sen­do ric­co e bel­lo, era sgra­de­vo­le e in­si­gni­fi­can­te, non po­ter ac­cop­piar­si e vi­ve­re in­sie­me ad al­tri suoi si­mi­li.

    Vi­sto che ci te­ne­va tan­to a crear­si una fa­mi­glia, i del­fi­ni che l’adot­ta­ro­no, gli con­si­glia­ro­no di pro­va­re ad ac­cop­piar­si co­me fe­ce la sua ma­dre Ce­fi­ra. E poi­ché non c’era­no al­tre so­lu­zio­ni, ini­ziò ad ac­cop­piar­si con tan­te del­fi­ne, fi­no a che non nac­que­ro tre fem­mi­nuc­ce e due ma­schiet­ti si­mi­li a es­so e che nell’età adul­ta mi­se­ro al mon­do dei fi­gli... e i fi­gli dei lo­ro fi­gli fe­ce­ro al­tret­tan­to, fi­no a che, si creò il po­po­lo chia­ma­to Ce­fi­ro (che al tem­po lo chia­mò co­sì, per ri­cor­da­re e ono­ra­re le sue ori­gi­ni).

    Quan­do ar­ri­va­no al cul­mi­ne del­lo svi­lup­po, rag­giun­go­no all’in­cir­ca l’al­tez­za di un me­tro e ot­tan­ta: i ma­schi han­no la te­sta bian­ca e gli oc­chi ver­di, men­tre le fem­mi­ne ce l’han­no ro­sa chia­ro e gli oc­chi ce­le­sti. La for­ma del­la boc­ca as­so­mi­glia mol­to a quel­la del del­fi­no tur­sio­pe, per­ché as­su­me un’espres­sio­ne sor­ri­den­te. I lo­ro cor­pi sen­za pe­li so­no li­sci e tal­men­te per­fet­ti che evi­den­zia­no tut­ti i mu­sco­li; ma quel ch’è più sor­pren­den­te è che ri­man­go­no co­sì per un mil­len­nio, fi­no a che non di­ven­ta­no de­gli spi­ri­ti chia­ma­ti ce­fi­del­fi i ma­schi e le fem­mi­ne ce­fi­del­fie, che ve­do­no tut­to ciò che li cir­con­da a cen­ti­na­ia di me­tri, an­che at­tra­ver­so le pa­re­ti o qual­sia­si al­tra co­sa, inol­tre se vo­glio­no far­si no­ta­re, han­no il po­te­re di ir­rag­giar­si.

    Se pen­sia­mo che esi­sto­no da mil­len­ni e mil­len­ni, la po­po­la­zio­ne non è tan­ta, da­to che so­no ap­pe­na ven­ti­mi­la... e que­sto per­ché di­ven­ta­no adul­ti quan­do su­pe­ra­no i cent’an­ni e la fem­mi­na par­to­ri­sce sol­tan­to una vol­ta e poi non co­no­sco­no co­sa sia il ma­le, le ma­lat­tie, i do­lo­ri e l’in­for­tu­ni, per­ché se ca­do­no an­che da mol­to in al­to, non si fan­no nien­te: con­si­de­ran­do che so­no ela­sti­ci e agi­li più dei gat­ti… e se do­ves­se­ro tro­var­si in dif­fi­col­tà, ci so­no i ce­fi­del­fi o le ce­fi­del­fie a soc­cor­rer­li.

    Man­gia­no po­chis­si­mo e una vol­ta al gior­no i ci­bi che ho vi­sto e man­gia­to an­ch’io; pe­rò, dor­mo­no mol­tis­si­mo, per­ché non han­no co­me noi tan­ti im­pe­gni e ora­ri da ri­spet­ta­re; tan­to è ve­ro, che il po­co la­vo­ro che fan­no, lo tra­sfor­ma­no in com­pe­ti­zio­ne, co­me tut­ti gli al­tri sport che fan­no per di­ver­tir­si; an­che per il mo­ti­vo che non vo­glio­no che cir­co­li­no sol­di…, sep­pu­re so­no ric­chis­si­mi.

    Ora­mai so­no più di un mil­len­nio, che non esco­no più da quel­le mi­ria­de di grot­te per pau­ra di far­si no­ta­re: per­ché se l’uo­mo sco­pris­se do­ve vi­vo­no, stra­vol­ge­reb­be il lo­ro mo­do di vi­ve­re; tant’è che pri­ma usci­va­no e ave­va­no an­che l’in­ten­zio­ne di vi­ve­re in­sie­me a noi es­se­ri uma­ni, ma vi­sto che da sem­pre vi­via­mo in mo­do fol­le e scor­ret­to, ri­scon­tra­ro­no che era mol­to me­glio ri­ma­ne­re nel­le grot­te.

    Co­mun­que, do­po che han­no fi­ni­to di ar­go­men­ta­re sul mio com­por­ta­men­to, uno s’è al­za­to dal­lo scan­no e m’ha det­to: Ca­ro Pier­pao­lo, vi­sto che sei una per­so­na dab­be­ne..., noi tut­ti ti sa­re­mo gra­ti, se tu re­stas­si qui a vi­ve­re, per­ché cre­dia­mo che sa­reb­be mol­to con­ve­nien­te, sia per noi sia per te. Noi t’in­se­gne­re­mo co­me si può vi­ve­re sem­pre fe­li­ce, vi­sto che per voi uma­ni è mol­to dif­fi­ci­le es­ser­lo… e poi tut­to quel che ve­di di­ven­te­rà an­che tuo, ol­tre a ciò, quan­do di­ven­te­rai adul­to, ac­cop­pian­do­ti con la ce­fi­ri­na che ame­rai, vi­vrai un mil­len­nio co­me noi... Di­cia­mo che il tuo cor­po di­ven­te­rà in tut­to e per tut­to co­me il no­stro, tran­ne la tua te­sta che re­ste­rà la stes­sa. Co­sì, si cree­reb­be un’al­tra spe­cie che vi­vreb­be in­sie­me a noi... Che ne di­ci, t’ag­gra­da la no­stra pro­po­sta? Do­po di che, ho ri­spo­sto con ri­ve­ren­za: "Io so­no mol­to ono­ra­to del­la vo­stra pro­po­sta e vi rin­gra­zio im­men­sa­men­te... e se deb­bo es­se­re sin­ce­ro mi fa­reb­be mol­to pia­ce­re vi­ve­re qui con voi,

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