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Il maestro di sci
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E-book215 pagine2 ore

Il maestro di sci

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Info su questo ebook

In un paesino di montagna, Mario, un vecchio maestro di sci in pensione, in una sera di fine novembre, nella taverna del suo amico Franz, durante il solitario pasto serale, vedendo due ragazzi che si scambiano tenerezze, ripensa alla sua vita passata, alternandola a episodi di quella presente.
La solitudine, caratteristica predominante nell’uomo moderno, è una situazione creata o viene subita inconsapevolmente? una scelta per soddisfare il proprio egoismo, per non avere responsabilità se non nei propri confronti o un modo di vivere? e, soprattutto: c’è rimedio?
L’isolamento in cui è caduto Mario lo porta, con un crescendo di emozioni, a mettersi in discussione, complice anche un amore giovanile ritornato sul suo palcoscenico.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2014
ISBN9788868856908
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    Anteprima del libro

    Il maestro di sci - Claudio Pellacchia

    CPellacchia

    I - MARIO

    Faceva freddo in quella sera di fine ottobre.

    Mario, parcheggiato il suo vecchio e malandato fuoristrada al solito posto, scese, chiuse lo sportello e s’incamminò verso il ristorante di Franz. Il passo era lento perché, oltre ad essere la strada in salita, tirava un forte vento di tramontana che gli fece volare il cappello, costringendolo, mestamente, a ritornare sui suoi passi.

    Brutta storia pensò se continua così la neve quest’anno non tarderà ad arrivare.

    Aveva lavorato duro tutto il giorno al suo distributore di carburante, situato sulle Alpi al confine con l’Austria. Seppur fuori stagione, si erano avvicendati molti degli automezzi di una ditta che stava riparando gli impianti di risalita. Oltre che rifornire di gasolio gli autocarri e le ruspe, aveva dovuto assisterli anche in piccole riparazioni meccaniche, rimanendo all’aperto per tutto il giorno. Talmente impegnato, non aveva avuto la possibilità di riscaldarsi nel suo box, largo 2 metri e lungo 1 metro e mezzo, che lui chiamava "La mia tana", tanto era piccolo e puzzolente, ma caldo come un’isola tropicale, così almeno immaginava.

    Mario era un omone alto un metro e ottantacinque per 110 chilogrammi di peso. Il suo viso, grande e rosso, sembrava essere appena ritornato da un incontro di pugilato con Belzebù. I lineamenti, con i suoi capelli biondi, lunghi fin sulle spalle e la barba fluente, lo facevano rassomigliare ad un antico guerriero vichingo. Le mani, poi, erano così grandi e potenti che riuscivano ancora a schiacciare due noci contemporaneamente, stringendole nel palmo di una sola mano.

    Era nato 60 anni fa in un paesino di sette case arroccato a 1.800 metri di quota, dove d’inverno non si poteva uscire da casa, tanta era la neve che scendeva. Lì aveva vissuto fino al compimento del sesto anno d’età quando, per la morte del padre, era dovuto scendere a valle dove la madre aveva trovato lavoro come governante.

    «Questa sera quanto è distante quella taverna?» disse a voce alta «cammino da due ore» falso «e non sono ancora arrivato?»

    Diceva così perché gli facevano male le gambe e la schiena, non essendo abituato a restare in piedi per molto tempo, in questa parte della vita, tanto che in quei momenti gli sembrava di scalare, come amava dire quando voleva esagerare, il monte Everest. Finalmente, alzando la tesa del cappello, intravide l’insegna luminosa della taverna.

    «Taverna del Gallo» lesse.

    «Come Del Gallo! Si sarebbe dovuta chiamare: "Del Muflone, Della Marmotta, Del Cervo» disse alzando la voce.

    Bizzarri questi osti, pensò.

    Parlava sempre a voce alta quando voleva spiegarsi meglio il significato delle cose o proporsi un concetto per lui complicato o quando, ragionando, si confermava la bontà del suo pensare. I suoi amici, o per meglio dire i suoi conoscenti, lo prendevano in giro per questo suo modo di fare, ma lui non ci faceva caso, tanto era impegnato ad ascoltarsi.

    Arrivato alla porta della taverna fece per aprirla quando, per una raffica di vento improvvisa, questa gli sfuggì di mano, andando a sbattere contro una sedia dimenticata dietro di essa. Il rumore fu così forte ed improvviso da far sobbalzare i sei avventori presenti, mentre una folata di aria gelida entrò nel locale.

    «Mario, ci vuoi far prendere un colpo? Chiudi quella benedetta porta!» disse Albert, che sedeva con Josef al tavolo appena a destra dell’entrata.

    «Vecchi ubriaconi!» ringhiò Mario «Cosa volete che vi faccia un po’ d’aria, visto tutto quell’antigelo che avete nelle vene! Non siete mica sull’Everest?» esclamò, con quel tono indispettito che usava sempre quando era convinto di essere nel giusto. «A dir poco sarete qui dalle tre d’oggi pomeriggio a bere e a giocare, mentre io sono stato fuori tutto il giorno a lavorare anche per voi».

    «Come anche per noi!» ribatté Anton dal fondo del piccolo locale, appollaiato su di uno sgabello ed appoggiato al bancone insieme con un tizio che Mario non conosceva.

    «Dico per voi perché, se non sbaglio, tua moglie, Anton, ha un albergo vicino alla funivia e la mamma del tuo compare ha un negozio di cianfrusaglie lì accanto» apostrofò con tono ancora più risentito Mario e puntando il dito in direzione di entrambi.

    «Quindi... vedete un po’ di farvi gli affari vostri, che non è serata!»

    Non capendo fino in fondo quelle affermazioni, i due ritennero di non insistere. Conoscendo il soggetto, sapevano che non dovevano farlo scaldare più di tanto, per evitare di ritrovarsi sotto i tavoli con un occhio nero o la testa rotta. In paese, infatti, era conosciuto con il soprannome di tornado da quando, per la festa annuale di Ferragosto, preso di mira dai soliti bulletti per i suoi modi schivi, aveva reagito con veemenza ed irruenza. Dal campo sportivo, dove si svolgeva la sagra, si era alzato un polverone di proporzioni tali da far pensare, appunto, al fenomeno atmosferico da cui prese l’appellativo.

    Sentendo il vocione di Mario, Franz apparve dalla porta della cucina tutto trafelato. «Cosa sta succedendo qui!»

    «Nulla» rispose Albert «Sai come è fatto Mario…lui si scalda per niente!»

    L’omone lo guardò in cagnesco, senza dire nulla. Era davvero troppo stanco anche per parlare e non vedeva l’ora di sedersi, mangiare e andarsene a dormire.

    In ogni modo, capendo che quella poteva essere la calma prima della tempesta, i quattro, dopo che Albert e Anton si erano scambiati occhiate d’intesa, capirono che non era il caso di andare oltre.

    «Ciao Franz, ciao Mario» disse Albert «credo sia ora di andare a mettere qualche cosa sotto i denti» e s’incamminò verso l’uscita con Josef che non disse nulla, imbarazzato com’era dallo scambio di battute.

    «Arrivederci a tutti» fece eco Anton e, prendendo per la manica il suo compare di bevute che non aveva afferrato la situazione, uscì in tutta fretta.

    «A domani ragazzi» esclamò Franz, sollevato senza darlo a vedere.

    Mario non rispose ai saluti e rimase immobile vicino all’uscio, piazzato come una roccia del Neolitico. Gli avventori, per uscire, dovettero mettersi di traverso e sgusciare silenziosi, come lontre nell’acqua gelida, seguiti dal suo sguardo torvo.

    Franz, avvicinandosi a Mario, chiuse la porta e gli mise una mano sulla spalla sinistra e disse: «Non te la prendere troppo per quei due, sai come sono fatti. Le parole gli escono dalla bocca senza che il cervello abbia avuto modo d’intervenire».

    «Va tutto bene Franz» rispose Mario «Quei due vagabondi m’innervosiscono! La loro occupazione principale è quella di passare tutto il giorno qui da te a bere». Poi, pentendosi «Scusami, non volevo offenderti».

    «Non ti preoccupare» lo interruppe Franz «se me lo potessi permettere li caccerei a calci nel sedere, ma sono pur sempre dei clienti, buonissimi clienti» disse sommessamente.

    Così dicendo, strizzò l’occhio destro, l’unico rimasto sano dopo che tre anni indietro era caduto in un dirupo. In quell’occasione aveva riportato, oltre alla perdita dell’uso dell’occhio sinistro, una brutta ferita alla gamba destra che lo costringeva a camminare con andamento saltellante, tanto da meritarsi il soprannome paesano di grillo canterino. Proprio così grillo canterino, visto che, oltre a sembrare una molla ambulante, non passava un minuto senza canticchiare, tranne quando si recava alla messa del sabato sera.

    Da fervente cattolico com’era diventato, Franz sosteneva che quella della domenica era, più che un atto di fede, un rituale per la maggior parte dei fedeli. Una consuetudine che serviva a riempire la mattinata, fatta più in funzione degli altri che per convinzione personale. Invece, lui, unico maschietto a partecipare al vespro serale del sabato, sosteneva che il suo era il vero modo di rendere grazie al Signore perché interamente e pienamente sentito.

    Non era stato sempre così, anzi fin da piccolo i suoi genitori avevano avuto il bel da fare per farlo andare a messa. Lui riusciva sempre, o quasi, a farla franca scappando dalla porta della sacrestia, per andare a giocare con gli altri ragazzi nei campi dietro la piccola chiesa. La svolta nel suo rapporto con Dio fu dovuta proprio alla caduta nel burrone che lo aveva invalidato, mentre si trovava a cercare funghi nei boschi vicino a casa sua.

    II - FRANZ

    Un giorno di fine estate, con un sole brillante in un cielo terso, dopo un periodo di piogge intense, Franz disse a sua moglie: «Emma, visto che ho finito di tramutare il vino e che il formaggio al caseificio è pronto solo domani mattina di buon’ora, vorrei andare per funghi. Potremmo cucinarli per cena al Cavalier De Robertis e già mi immagino quanto sarà contento».

    «Va bene. Stai solamente attento a dove metti i piedi. Ti ricordi l’acqua che è venuta giù nei giorni scorsi?»

    «Sì Emma, starò attento, come sempre» rispose sogghignando. Donne! Non perdono mai quel vizio di dirti sempre quello che devi o non devi fare. Forse sarà il loro istinto materno di protezione che le accompagna per tutta la vita? Materno? ma io mica sono suo figlio! E’ dall’età di quattro anni che vado per funghi. Ora ne ho 54 ed ancora devo sentirmi dire le stesse cose dalle mie donne. Capisco che lo fanno per il mio bene... basta, lasciamo correre. Si sta facendo tardi.

    Così pensando, scese le scale della cantina, s’infilò i pantaloni lunghi fino al ginocchio. Indossò con cura una camicia di flanella a quadri bianchi e verdi, calzò gli scarponi da montagna, non senza fatica e si mise a tracolla lo zaino con dentro un giaccone impermeabile e la sua fida roncola.

    «Non si sa mai cosa ti può capitare in mezzo al bosco» disse sottovoce.

    Vestito di tutto punto, uscì dalla cantina e fece solo tre passi quando si bloccò, come se gli fosse colato in testa un camion di cemento. «Sciocco che sono» disse a voce alta «dove li metterò i funghi che trovo, nello zaino? Sai che multe!»

    Tornò indietro, entrò in cantina, prese il canestro, deputato esclusivamente per la raccolta dei funghi, che si trovava sempre a portata di mano appeso ad un chiodo vicino alla porta ed uscì. Percorsi 20 metri si fermò di nuovo. «Dove ho la testa oggi! Il bastone, dove è il bastone?» ripeté a voce alta.

    Ritornò in cantina, prese il compagno di tante escursioni, come lo aveva soprannominato, che era appoggiato alla parte fissa della porta e fece per uscire quando si bloccò sullo stipite, folgorato da un pensiero funesto.

    «Non che io sia superstizioso» disse tra se. «Un avvertimento del destino per non farmi andare? Cosa ti passa per la mente Franz. Sarà forse la vecchiaia che si avvicina? Ma che vecchio, ho da poco superato la cinquantina. Allora Abramo, che ne ha 82, cosa dovrebbe fare, buttarsi sotto un treno, tanto è poco il tempo che gli rimane da vivere? Basta! Io lo so da dove vengono tutti questi brutti pensieri. Lo avevo detto ad Emma che non avrei digerito le cipolle messe nell’insalata. Sì, sono sicuro! Deve trattarsi proprio di questo, ma io ho il rimedio adatto».

    Rincuorato dalla sua lettura degli avvenimenti, aprì la cerniera anteriore dello zaino e prese una piccola fiaschetta di grappa sempre pronta per le evenienze, come amava dire. Ne bevve un lungo sorso, si asciugò la bocca con il dorso della mano sinistra e mentre il liquore stava ancora scendendo giù nell’esofago esclamò: «Ahh, ora cominciamo a ragionare!»

    Accostò dietro di sé la porta della cantina, controllò se fosse ben chiusa e s’incamminò su per la strada che s’inerpicava dentro un bosco di pini e betulle. Emma aveva ragione pensò l’acqua di ieri ha creato dei ruscelli dove normalmente ci sono i sentieri e le pietre sono diventate molto scivolose. Dovrò fare molta attenzione se non voglio rischiare di ritrovarmi con una gamba rotta.

    Il sole, che aveva fatto la sua comparsa fin dal mattino presto, stava facendo evaporare l’umidità rimasta sui fili d’erba. L’impressione che si aveva era quella di entrare in una sauna talmente perfetta che solo Madre Natura era in grado di creare, senza necessità di stravolgere l’ambiente. Franz, seppur avesse visto tante volte un tale fenomeno, ne rimaneva sempre sorpreso e restava assorto in contemplazione, rapito dalla bellezza di quella semplice complicità.

    La raccolta dei funghi proseguiva spedita, quasi che fossero loro a saltare da soli nel canestro, quando vide due porcini, grandi come dei meloni, che spuntavano da un prato di muschio, ancora bagnato di rugiada.

    «Funghi, siete miei!» esclamò, ma non appena poggiato il piede sul letto d’erba che li circondava, scivolò su di una pietra resa liscia dalle piogge, posta appena sotto la superficie. Fece per riprendersi, iniziando ad annaspare nell’aria con braccia e gambe, come un ragno che cerca di sfuggire alla lucertola. Niente da fare. La forza di gravità ebbe il sopravvento su quella umana e Franz iniziò a rotolare giù per la collina urtando rocce, alberi, sterpi.

    Si fermò contro un grosso abete che sembrava essere nato lì apposta. Ancora due metri e sarebbe finito in un burrone così profondo da essere stato soprannominato, da un vecchio conte venuto a visitare il paese tanti anni prima, Lasciate Ogni Speranza. Nel ruzzolare aveva perso lo zaino, il bastone e il cappello. La gamba destra aveva assunto una posizione strana, irreale. L’occhio sinistro era tumefatto e si stava gonfiando sempre di più. Dai capelli alla punta dei piedi era tutto un dolore. Con sua somma incredulità, però, riusciva ancora a sentirsi.

    Dalla tasca dei pantaloni prese il fazzoletto, che assomigliava ad un piccolo lenzuolo ed iniziò ad asciugarsi il sangue che colava dal viso. Rimise l’arto inferiore in parallelo con l’altro, fece un profondo respiro e: «Fammi telefonare a casa» sussurrò. Si tastò la tasca della camicia. Il telefono non era rintracciabile. «Forse sarà in quella posteriore dei pantaloni?»

    Era lì. Appena lo ebbe in mano tutta l’eccitazione che si era creato svanì in una frazione di secondo: somigliava ad una sogliola.

    «Calma» disse tra sé «posso sempre chiamare aiuto» ed iniziò ad urlare, dapprima piano poi sempre più forte. Con il passare delle parole la voce si affievoliva con moto inversamente proporzionale alla disperazione.

    Fece per alzarsi, ma il dolore lancinante al ginocchio gli impedì di tirarsi su. «Non preoccuparti» si ripeté «questi boschi sono così trafficati che qualche volta sembra di essere all’uscita della messa domenicale». Il suo istinto di sopravvivenza cercava di sdrammatizzare, ma lo scorrere

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