L'arte di Khem
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Mimmo Mastrangelo
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Anteprima del libro
L'arte di Khem - Stefano Santarsiere
segreti.
* Due *
Nessuno di noi aveva ancora quindici anni quando conobbi Egidio Fulcanelli, in un caldo mattino di giugno. Mi si parò davanti come un albero maestro, gli occhietti chiari che sfidavano la luce, i capelli turchini e scarmigliati, le mani sottili.
Non ebbi modo di guardarlo a lungo; gli ero finito quasi addosso con la mia bicicletta alla svolta di un vicolo e lui non aveva fatto un solo movimento per evitarmi. Si era semplicemente arrestato davanti a me, senza tendere la mano, e io avevo fatto appena in tempo a frenare alla disperata con mani e piedi. Mi sentii fulminare da quello sguardo freddo come acqua sorgiva.
— Prudenza, ragazzo — si limitò a dire. E appena superai lo spavento, in cuor mio lo ringraziai, perché qualunque altro paesano si sarebbe messo a sproloquiare. Ma Fulcanelli era un estraneo, e i piccoli incidenti come quello non lo avrebbero mai neanche solleticato.
Quella stessa mattina (la prima di una lunga estate che non avrei dimenticato mai più) mi ritrovai alla pinetina con Marco Orlandi, che chiamavamo ‘Il Rozzo’ per via di certi suoi modi detestabili nel mangiare e nel comportarsi con gli altri; e Rino Folena, che si faceva chiamare ‘Edgar’ perché sognava di diventare scrittore di romanzi polizieschi.
Aspettavamo all’ombra dei pini altri tre nostri coetanei che sarebbero giunti dalla direzione opposta. La pinetina era l’ideale per i nostri appuntamenti. Era a metà strada fra le case di noi tutti, con due o tre panchine di ferro battuto quando i nostri sederi ne avevano abbastanza delle biciclette, e una fontana che gettava acqua freddissima anche d’estate. Senza contare che il luogo era abbastanza isolato e ci permetteva di discutere di qualsiasi cosa, senza il timore di essere presi per scemi.
Gli altri tre erano Giovanni Faralli, che chiamavamo ‘Faro’ per gli occhiali nuovi che sua madre gli aveva comprato il giorno del tredicesimo compleanno e che gli davano un aspetto che ci pareva strampalato. Sembrava un professorino, con tanto di pettinatura con la riga e l’aspetto timido. E poi Giuseppe Paladin, il ‘Nordico’, che proveniva da una strana famiglia di vicentini trapiantati al sud, il padre commesso viaggiatore e la madre parrucchiera senza lavoro.
Infine Roberta Centoni, l’unica ragazza del gruppo, la più radiosa, la più rubiconda, e di certo il membro della comitiva più rispettato. Fu proprio durante quell’estate che mi resi conto come per anni fosse rimasta tra noi alla pari (e persino in posizione di superiorità, almeno in certi momenti) come fosse un maschio. In effetti la sua presenza non era mai in discussione e il fatto che fosse femmina non importava a nessuno. Neanche a lei, che a quanto pare non si era mai chiesta se fosse più sano frequentare le altre ragazze piuttosto che noi.
Questo era il mio gruppo di quell’estate, e più o meno delle precedenti e di altre due o tre a venire. Un piccolo club esclusivo che ci allontanava dalle nostre case e ci risparmiava interminabili giornate di solitudine. Le nostre famiglie erano tutte benestanti, salvo forse quella del Nordico, e tuttavia distratte e piene di ambizioni continuamente represse. Ma non importava, finché eravamo in gruppo e finché potevamo sperimentare la nostra libertà.
Il giorno in cui mi ero imbattuto per la prima volta in Fulcanelli avevamo deciso di organizzare una burla semplice ma ingegnosa. Come al solito l’idea era venuta al Nordico, il più folle di tutti, e in un lampo si era diffusa nel gruppo.
Avevamo deciso di salire sulla collina che dominava il paese da est. Il Nordico, che aveva l’hobby della fotografia, aveva portato un bellissimo apparecchio con una mezza dozzina di filtri e il teleobiettivo, più il cavalletto per fissarla ben dritta in qualunque condizione di terreno. Tutta l’attrezzatura gli era stata regalata da un vecchio zio di sua madre, probabilmente l’unica persona facoltosa esistente nella famiglia Paladin.
Edgar, invece, si curò di portare una canna da pesca sottratta di nascosto a suo padre, dichiarando che se fosse stato scoperto avrebbe fatto la fine dell’impiccato nell’omonimo racconto di Bierce.
Imboccammo tutti e sei il sentiero che saliva sulla collina, dopo aver lasciato le biciclette dietro il muretto che costeggiava la strada. Il cammino non fu difficile, anche se il sentiero era già mezzo divorato dai rovi spinosi che crescevano fra gli alberi. Raggiungemmo il luogo in meno di quindici minuti: un largo spiazzo privo di alberi nel bel mezzo della parete della collina, con delle pietre bianche enormi che affioravano dal terreno.
Da quel punto si distingueva nitidamente quasi tutto il centro storico, a forma di semicerchio, cinto dalla Provinciale che andava verso nord. Sotto di noi c’era la strada che incrociava la Provinciale all’altezza della chiesa della Madonna del Carmine e correva verso la vecchia diga, scavalcando il fiume con il ‘ponte vecchio’, e inerpicandosi in vigorosi saliscendi lungo il fianco della collina. Fra questa strada e la Provinciale, sempre sulla destra, sorgeva la collinetta bassa dove spiccava ciò che chiamavano ‘il Castello’. A quell’epoca era un solo un vecchio rudere di pietra, poco più di una mezza parete che restava di un’antica costruzione signorile. Per noi era un luogo dove nascondersi o osservare la Provinciale da una posizione privilegiata; niente di ciò che sarebbe diventato in seguito, prima del crollo della collinetta.
Dietro quei resti c’era tutto uno spiazzo rettangolare infestato di rovi, dove un tempo si allungava la costruzione.
Roberta aveva portato qualche bottone di forma e colori diversi; e anche il Nordico ne aveva presi nel laboratorio di sua madre.
Io mi ero curato di costruire un disco volante con due piattini di plastica sovrapposti e avvolti nella carta di alluminio, con antenne e piedini per l’atterraggio. Il Nordico si era complimentato per il lavoro, ma per quello che dovevamo fare il mio disco era troppo grande. I bottoni di Roberta erano più adatti.
L’idea era scattare delle foto del paese da quella posizione, con i filtri e il teleobiettivo per cogliere particolari artistici. Su una delle panoramiche del paese, poi, sarebbe apparso il misterioso Ufo. Edgar avrebbe tenuto la canna da pesca in modo da far oscillare il bottoncino legato al filo proprio davanti all’obiettivo, il Nordico avrebbe scattato le foto negli istanti in cui il bottoncino levitava sul paese. Io e il Rozzo avremmo fatto attenzione alle macchine che passavano sui tratti di strada dai quali potevamo essere avvistati.
All’inizio avremmo proposto le foto senza l’Ufo nei bar, per chiunque le volesse acquistare, o anche soltanto ammirare. E dopo qualche giorno avremmo tirato fuori quelle con il misterioso oggetto volante, dicendo di averlo visto e fotografato mentre appariva sui cieli del paese. Il Faro, che di solito parlava veramente poco, disse di anticipare la notizia facendo rinvenire strane tracce circolari nei campi, oppure orme mostruose lungo le rive del fiume dove andavamo a farci il bagno con altri ragazzi. Il Rozzo aveva proposto di diffondere nel paese suoni bassi e profondi durante la notte, in modo che tutto questo potesse collegarsi alle foto dei dischi volanti.
L’idea era affascinante, ma non credevo che gli abitanti ci sarebbero cascati. Forse occorreva qualcosa di più clamoroso.
— E cosa? — mi chiese il Nordico, un po’ spazientito.
— Non so — risposi — forse la diffusione di una strana malattia. Oppure la scoperta di una zona della pineta completamente carbonizzata, come da un raggio spaziale.
Edgar e Roberta si guardarono esterrefatti. — Ehi, stavo scherzando — dissi. — Ma dovete ammettere che sarebbero proprio stupidi a farsi abbindolare.
Io passavo per il più assennato del gruppo. Idee come questa mi interessavano più per quanto offrivano dal punto di vista creativo che per gli effetti che si proponevano. Perciò mi ero messo a fabbricare il disco volante con la carta d’alluminio, pur sapendo che non sarebbe servito a niente. In ogni caso, le mie opinioni erano tenute in uno certo conto, e in quel momento era calata un po’ di delusione nel gruppo. Forse lo scherzo era davvero senza speranza.
Il Faro incrociò le braccia e si mise a sedere su una pietra. Edgar se ne stava con la sua canna da pesca in mano, con espressione passiva. Il Rozzo lo guardò e disse che sembrava un idiota.
Per fortuna, in momenti come quello c’era sempre qualcuno che ci rivitalizzava, che ci spronava a tentare anche le cose più assurde, con ogni tipo di argomenti, e di solito era il Nordico.
— Proviamoci lo stesso, ragazzi. Siamo venuti fin qui per farlo e lo faremo. Non ci perdiamo niente.
— È vero — disse Roberta. — Ho rubato i bottoncini a mia madre e non voglio riaprire quella scatola per rimetterceli dentro.
— Io conosco il tecnico delle luci del ‘Millenium’ — disse il Rozzo — è un mio buon amico. Posso farmi prestare un faro, o un riflettore. Immaginate cosa si dirà in paese se appariranno dei lampi colorati durante la notte, in zone diverse.
L’idea riprese forza, il Nordico sistemò il cavalletto. A me andava bene. Nonostante il mio realismo, ero contento che qualcuno ci rimettesse sulla strada dell’irrealtà.
Quel mattino scattammo una quindicina di foto, tre delle quali con il bottone. Dovevamo presentare diverse foto per molti giorni prima di rivelare la foto con l’Ufo, altrimenti il tutto sarebbe parso artificiale. Avevamo in mente di scattare foto anche in altri punti del territorio comunale, e di venderle durante le sagre estive; nel frattempo avremmo pensato a quali segni premonitori si potevano architettare in nome della presunta invasione aliena. Il Nordico avrebbe sviluppato le prime foto nella sua camera oscura per verificare l’effetto del bottoncino sul panorama del paese, e prometteva meraviglie.
Infatti, quando ci riunimmo dopo pranzo dietro casa sua, nell’ora più calda della giornata, rimanemmo impressionati. Il Rozzo disse che sembravano le foto di Ufo più vere che avesse mai visto. Il Faro aveva portato alcuni giornali dove si parlava di avvistamenti alieni e constatammo che le nostre foto non avevano niente da invidiare a quelle pubblicate. Il bottoncino appariva come un dischetto nero appena sfocato, suggeriva una sottile sensazione di movimento sul cielo luminoso del paese. Anche le altre foto erano molto belle, pur senza elementi estranei. Facemmo tutti i complimenti al Nordico.
Verso le sette e mezza eravamo di nuovo su quella collina. Scattammo altre cinque o sei foto e corremmo a casa del Nordico per vedere il risultato. Dopo meno di un’ora avevamo fra le mani le nuove foto, e questa volta ricevemmo una strana sorpresa.
La qualità delle foto era sempre molto buona, con la luce del crepuscolo che si rifletteva con riflessi bronzei sui tetti e i terrazzini nascosti; ma su una finestra semi nascosta del centro storico c’era una lucetta intensa, a forma di stella, che brillava. E c’era in tutte le foto. Il Nordico non capiva.
— Forse è un riflesso — azzardò il Faro.
— Non può essere un riflesso — disse il Nordico — perché le foto hanno angolature leggermente diverse, e la luce è sempre lì, sulla stessa finestra.
— Ma com’è possibile che non l’abbiamo notata, lassù? — dissi io.
La luce era una stelletta chiarissima, fra il bianco e l’azzurrino. Non poteva essere uno specchio perché il sole stava tramontando e il colore era troppo chiaro. Per lo stesso motivo non poteva essere una candela. Forse si trattava di un riflettore o un faretto molto potente. Il Rozzo, che aveva esaminato a lungo una delle foto, seguendo con un dito le stradine e identificando le case, a un tratto dichiarò: — Ho capito dov’è la finestra. Perché non andiamo a vedere se la luce è ancora lì?
Inforcammo le biciclette e dopo un minuto eravamo a destinazione, nel pieno del labirinto del centro storico, in direzione della chiesa Madre.
La casa che ci interessava era una delle costruzioni più vecchie. Dava su una stradina che portava dritta alla casa del parroco. Come in tante case di paese l’ingresso principale era al primo piano e la vecchia scala che vi conduceva partiva dall’angolo di una graziosa piazzetta, con una fontanina e un olmo che sorgeva nel mezzo come un gigante gobbo. La finestra era nella mansarda, al secondo piano, ma le imposte erano chiuse.
Notammo che anche un’altra finestra al primo piano era ben chiusa, mentre quelle delle case vicine erano spalancate per approfittare della prima frescura della sera. Riguardammo le foto, stabilimmo che non c’era possibilità di errore: la finestra con la luce era proprio quella. Ma chi abitava in quella vecchia casa?
Roberta, che conosceva la gente del paese meglio di tutti, disse di sapere a chi apparteneva, ma le risultava disabitata da diverso tempo.
All’improvviso udimmo un rumore di chiavistelli. La porta della casa si aprì e uno strano figuro ne uscì a passo risoluto.
Nello stesso tempo, tutti noi che eravamo ancora sulle biciclette scorgemmo una luce intensissima spegnersi repentinamente all’interno.
L’uomo discese le scale, si allontanò attraverso la piazzetta, senza fare caso a chiunque si trovasse in strada e scomparì in un vicolo dall’altra parte.
Era l’essere più esotico che ognuno di noi avesse mai visto. Era basso e piuttosto massiccio, con una testona larga e nera, gli occhietti stretti come capocchie di spillo. In quei brevi istanti che potemmo vederlo e scrutarlo senza ritegno, pensai che doveva venire da molto lontano. Un qualche posto del sud-est asiatico o una terra ancora più remota.
Il Nordico propose di pedinarlo. Roberta e gli altri si erano già risvegliati dall’incantesimo e si apprestavano a inseguirlo in bicicletta, ma io dissi che non era una buona mossa.
— Meglio non metterci a dargli dietro come fosse un fenomeno da circo.
— Ma chi diavolo sarà? — domandò il Rozzo. — In questo paese non si era mai visto uno così
— Chiederemo in giro. Qualcuno lo avrà visto arrivare — dissi. — E la casa, qualcuno deve avergliela aperta.
— La luce — disse Roberta. — L’avete vista?
Rispondemmo di sì. Come potevamo non averla notata? Era talmente intensa che per qualche istante c’era rimasta negli occhi, a pulsare.
Ed era dello