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Una mala jurnata per Portanova.: Siracusa, 1964
Una mala jurnata per Portanova.: Siracusa, 1964
Una mala jurnata per Portanova.: Siracusa, 1964
E-book172 pagine2 ore

Una mala jurnata per Portanova.: Siracusa, 1964

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Info su questo ebook

Siracusa, giugno 1964. Due giorni dopo l’attracco della nave Esperia, mentre al Teatro Greco si rappresenta la Medea di Euripide, alla Marina viene ripescato il corpo senza vita di un ragazzo. È quello di Sebastiano Spicuglia, figlio di un cordaro della città. Tra le caotiche indagini al porto, la scomparsa del padre del ragazzo e l’arrivo del nuovo giudice istruttore Piccolo, le cose al commissariato Abela si faranno sempre più asfissianti. Il commissario Portanova e il suo sigaro Toscano, lontani dalla moglie Carla, dovranno fare i conti con un apparente caso senza fine, dove niente è come sembra.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2015
ISBN9788869431036
Una mala jurnata per Portanova.: Siracusa, 1964

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    Anteprima del libro

    Una mala jurnata per Portanova. - Alberto Minnella

    Avviso al lettore

    La lingua utilizzata per raccontare questa storia è una sintesi dei dialetti siciliani che ho ascoltato, parlato e assorbito nel corso della mia vita.

    Fatti e personaggi di questo romanzo sono immaginari, eccetto quello di Paolo Portanova, realmente esistito nei pensieri bui di qualche commissario siciliano degli anni Sessanta e nella paura, spesso scambiata come innocente e necessario disordine, di certe vite disperate che hanno finito per svuotarsi e poi rompersi; quelle per cui è sempre una mala jurnata.

    I

    A metà giugno, il termometro stava ancora fisso sui sedici gradi sopra lo zero e per ogni siracusano che fosse tale, data la stagione, quello era freddo da orbi.

    In via Cavour s’era spenta l’ultima finestra. Poco più avanti, nella piazza in cui s’affacciava il Tempio di Apollo, l’orologio a lampione segnava le due e mezza di notte. Un secondo dopo, vidi un randagio orinarci sotto senza fare tanti complimenti.

    Il mio sigaro era acceso, il mio turno era finito e le mie ferie appena iniziate.

    L’indomani, avrei finalmente raggiunto Carla a Catania per qualche giorno.

    Un’ora prima, stavo ancora seduto alla mia scrivania nuova di zecca. La schiena mi scricchiolava come una porta mal ridotta.

    Accesi quello che sarebbe stato il penultimo sigaro della giornata. Firmai un rapporto sull’arresto di un ladro di galline, affondai le spalle nella poltrona e mi rilassai.

    La testa mi furriò sulle ultime cose successe e non riuscii a fare a meno di incollarmele addosso, appresso a tutto quello che già mi era capitato nell’anno addietro.

    M’ero convinto – tutto da solo, ma in quel momento rivestii il ragionamento di verità assoluta e incontestabile – che certe volte avrei dovuto starmene fermo, immobile, proprio com’ero in quell’istante, con una mano sulla coscia e lo sguardo rintronato rivolto al soffitto.

    E prima di fare o dire qualsiasi cosa, avrei dovuto contare fino a dieci e, se non fosse bastato, magari fino a cento e poi, non ancora soddisfatto, riempire un bicchiere di vino bianco gelato e addurmàrmi un altro mezzo sigaro e ricominciare la conta. Perché tutte le volte che avevo agito di testa mia e d’istinto, per farla breve, m’ero trovato in lotta e impreparato contro una bestia ancora più feroce di me, istigata da me, impaurita e per questo incazzata solo ed esclusivamente con me.

    Su quell’espressione algebrica di ragionamenti ci misi il carico e, non contento, m’addossai le colpe di un paio di omicidi irrisolti, tre denunce per abuso d’ufficio e, infine, quella sorta di solitudine d’amore che stavo vivendo.

    Preso dallo sconforto, corsi ai ripari; succhiai l’Extravecchio con più calma e mi persi a occhi chiusi in mezzo agli sbuffi di tabacco, abbandonandomi senza difese.

    Non potevo farne a meno. Del resto, questa era la mia natura di siciliano di origine incontrollata.

    E con tutta la buona creanza, cercai di non farmene nemmeno una colpa, ma con scarsi risultati e, nonostante le cose buone accadute o che comunque mi erano piombate dall’alto di fortuna, come il primo bacio strappato a mia moglie o l’essere sopravvissuto alla guerra da partigiano, tutte le sante volte che la notte mi calava sul collo, inevitabilmente, mi ci asdirubbàvo malinconico dappresso.

    E i baci e il piombo non li sentivo più.

    Una settimana dopo, Siracusa era una pozzanghera di sudore.

    L’isola s’era spogliata degli addobbi rossastri per la festa di Santa Lucia della quaglie, in ricordo di una nave carica di grano che, approdando al porto, il 13 maggio del 1646 aveva miracolosamente cancellato la carestia in cui versava la città.

    Ma trecentodiciotto anni e un mese dopo, il mare ortigiano aveva deciso per i fatti suoi di interrompere la buona sorte, sputando solo carogne e malanova; i miei due clienti più scomodi.

    La stessa sera, alla Marina, ripescarono al porto il cadavere di un ragazzo. Prelevato a forza dal Teatro Greco, arrivai sul luogo con l’auto di servizio guidata da Iannelli.

    Una larga chiazza d’acqua salata gli lambiva il corpo dall’interno del molo, riflettendo la luce opaca dei lampioni che decoravano, in fila indiana, tutto l’approdo. Aveva un taglio alla gola, da orecchio a orecchio, e un grosso ematoma sullo zigomo sporgente.

    A meno di un metro da me, l’ispettore Gurciullo, inginocchiato davanti al corpo, prendeva appunti sul suo taccuino nero. Era un uomo meticoloso. Così pignolo da spuntare simmetricamente, ogni mattina, i suoi grossi baffi neri, a faccia in avanti contro lo specchio, tenendo con una mano la punta del naso all’insù, fino ad appannare la sua immagine riflessa.

    Delle volte, l’avevo visto con i miei occhi, si aiutava con un pettine, giusto per misurare la lunghezza esatta del pelo, che non doveva superare più di mezzo centimetro.

    Così era anche sul lavoro; scarabocchiava ogni cosa. Per poco non scriveva pure quanta polvere aveva sotto la suola delle scarpe.

    Puntiglioso, sì, ma riguardo all’intuito era una gatta con prole cieca.

    Nel corso degli anni avevamo imparato a dividerci bene il lavoro. Lui era bravo con le faccende d’ufficio e le domande di routine. Io facevo il resto.

    Attorno a noi, oltre a una piccola folla di curiosi e l’assillo dei giornalisti, c’era la squadra in camice bianco della scientifica, indaffarata con i rilievi, e il dottor Viganò, medicus legalis siracusanissimus, accovacciato come l’ispettore e intento a esaminare ogni centimetro del defunto con un paio di guanti nuovi di zecca, accompagnando il movimento degli occhi con una torcia portatile.

    «Allora, dottore?» disse Gurciullo.

    Vincenzo Viganò si alzò lentamente in piedi.

    «Come ho già detto al giudice, dalla ferita alla gola c’è una grossa probabilità che sia morto prima d’esser stato gettato in mare.»

    Gurciullo annuì, gli occhi fissi sul foglio. Scriveva adagio, tenendo il polso molto rigido e le dita avvinghiate alla punta della penna, costringendolo a una scrittura disordinata. La sua.

    Ascoltavo in silenzio la messa.

    «Ora del decesso?»

    Viganò spense la torcia e la ripose nella tasca del camice.

    «Ancora non posso dirtelo con precisione – tolse i guanti con parsimonia – ma non dovrebbe avere più di quarantotto, settantadue ore. I pesci sono riusciti a mangiare solo una parte dell’occhio sinistro, qualche polpastrello e brandelli di carne vicino alla ferita.»

    L’ispettore mandò giù in gola un chicco di saliva che, a giudicare dalla faccia, mi sembrò solido come pietra. Scostò lo sguardo dagli appunti e ci guardammo disgustati.

    Sistemò bene sul naso gli occhiali.

    «Devono avergli legato un peso alla vita, ma mi gioco la laurea che il nodo è stato fatto in fretta, tanto da farlo andare a destra e a manca fino al molo. È cosa certa che non deve essere stato a mollo per più di due o massimo tre giorni.»

    Tirai fuori dalla giacca il mio stortignaccolo. Portai la fiamma vicino all’involtino di tabacco e l’accesi.

    «Allora, di chi è la salma?» chiesi.

    Gurciullo riavvolse di qualche pagina il taccuino.

    «Si chiamava Salvatore Spicuglia, di anni venti. È figlio del cordaro Giovanni Spicuglia, titolare della ditta omonima. Un ragazzo tranquillo, a quanto dicono.»

    «Chi l’ha trovato?»

    «La segnalazione è arrivata dall’avvocato Mancuso. Era in quel veliero – me ne indicò uno blu ormeggiato fra altre imbarcazioni, poco lontano da noi – e dice di aver sentito un colpo sulla chiglia. Si è affacciato e ha visto il cadavere.»

    Guardai perplesso la barca.

    «Non ha visto o sentito altro?»

    «Giura di no.»

    «Era solo, l’avvocato?»

    «Solissimo.»

    «Vive in quel veliero?»

    «Da circa tre mesi, da quando si è separato dalla moglie.»

    «Va bene. Fai i soliti controlli su di lui e se spunta qualcosa fammi sapere. Immediatamente.»

    «Agli ordini, commissario.»

    Mi sentii le membra contorcersi. Guardai l’orologio. Non erano ancora scoccate le venti e la mia fame atavica bussava insistentemente allo stomaco.

    «Cos’altro abbiamo?»

    «Molto poco. Il ragazzo sbrigava delle commissioni al porto per conto del padre. L’ultima volta è stato visto proprio qui, due giorni fa, verso le sette di sera, per consegnare gli ormeggi nuovi per l’approdo dell’Esperia.»

    Feci un lungo tiro al sigaro, mentre mi chinavo impacciato sulla testa del ragazzo. Avevo la camicia sudata sulla schiena. Una copia de l’Unità spuntava a testa sotto dalla tasca destra della giacca, mostrando le prime lettere di un articolo su Moro che confermava il rinvio delle riforme. Nella tasca opposta, fuoriusciva appena il libretto della Medea.

    Viganò, che in quanto a coglionamento era campione regionale, me lo fece notare a modo suo, con la faccia spigolosa che si ritrovava e gli occhi infossati che gli anticipavano la voce.

    «Ti sei divertito a teatro?»

    Lo guardai con aria di sufficienza.

    «Sì Vincenzo, una pacchia» sbiascicai.

    «Sempre permaloso tu. Mai una risposta carina.»

    Forse aveva ragione, ma non gliela diedi vinta.

    «Ah sì? Quindi, sarei io quello permaloso?»

    S’alzò in piedi.

    «Commissario...» mi disse Gurciullo invitandomi alla calma.

    «Piuttosto – mi ridimensionai – l’hanno ammazzato da queste parti?» chiesi a Viganò.

    «Non ho ancora la palla di vetro, Paolo, ma credo che l’assassino l’abbia sgozzato non lontano da qui e poi deve aver legato al cadavere qualcosa di non molto pesante, ma abbastanza da mandarlo al fondo in fretta e furia.»

    «Perché non molto pesante?»

    «Perché un uomo da solo come fa a caricarsi qualcosa di molto pesante e, dopo avergli legato il corpo, gettare tutto in mare?»

    «Magari non era da solo» risposi.

    Viganò rimase interdetto. Bravo, sì, nel suo lavoro, ma come qualche siracusano con cui avevo avuto a che fare, di quelli che hanno la Grecia che gli scorre nelle vene, esattamente come Gurciullo, ogni tanto fallava i ragionamenti per eccessiva frettolosità.

    «Ma lo sai che sei bravo?» concluse accennando un inchino.

    Questa volta non lo degnai neanche di uno sguardo.

    «Gurciullo – tagliai corto – i suoi genitori li abbiamo rintracciati?»

    «Sì e no.»

    «Come sì e no? O sì o no!»

    «Eh no, commissario. Il sì è perché sono riuscito a rintracciare la madre, che ha riconosciuto il cadavere del figlio e al momento l’aspetta al commissariato, insieme al giudice Piccolo. Con loro c’è anche la zia del ragazzo.»

    «E il no?»

    «E il no è perché pare che il padre sia scomparso dalla faccia dello scoglio da due giorni.»

    «E nessuno ha denunciato niente, immagino...»

    «No, commissario. Infatti, è strana ‘sta cosa.»

    Sistemò nuovamente gli occhiali. Pettinò i baffi con i polpastrelli. Era evidente che non gli tornava.

    «Magari è stato il padre» azzardò.

    «Ecco, bravo – applaudii. – È stato il padre. Abbiamo risolto il caso. Complimenti.»

    «La mia era solo un’ipotesi.»

    «Fatta di prescia, come al solito,» sentenziai.

    Gurciullo crucciò la fronte. Mi conosceva bene. Mi guardò dritto negli occhi.

    «La vedo più preoccupato del solito. Sicuro che...»

    «Sicuro, che?»

    «Per caso il vicecommissario era ancora nervosetto?» mi disse Viganò rincarando la dose.

    «Vincenzo, per favore. Lasciamo perdere. Ha ancora il sangue che gli bolle per via dell’arresto di quel Dukas, il tunisino, e il fatto che quelli di Catania gliel’hanno fottuto sotto il naso. Stasera a teatro non parlava d’altro. M’ha sminchiato la prima volta che avevo l’opportunità di vedere la Medea. Per non parlare poi del questore,

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