Se la Grandine a Maggio: Quando l’handicap arriva dopo Dio
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Info su questo ebook
La vita nella sua bellezza somiglia talvolta a una distesa verde di grano maggese che promette una ricca raccolta d’estate, ma che basta la grandinata violenta di un’ora appena per stravolgerla in disperata desolazione.
Esistono due tipologie fondamentali di handicap: quello procurato dal narcisismo e dalla irresponsabilità e quello che appartiene alla lotteria dei cromosomi. Entrambi devastano spesso famiglie felici, o comunque li costringono a rimodulare l’intero percorso esistenziale con esiti talvolta eroici altre volte desolanti.
Nel romanzo di Rolando Rizzo, entrambi i due tipi di handicap piombano come folgori in una famiglia e in una comunità agiata e fortemente religiosa, abbattono comode maschere, luoghi comuni, apparenze esaltanti, per rivelare la vera materia di cui siamo fatti e le scelte di fondo con i quali ognuno deve fare prima o poi i conti quando “cade la grandine a Maggio”.
Il romanzo racconta di solidarietà e di tradimenti, di vite che si intrecciano, che si perdono, che si redimono, che inconciliabili tutte si riconciliano alcune a segnare nuove stagioni di libertà e d’amore.
Chi è l’autore
Rolando Rizzo nasce all’inizio del 1944 a Rossano calabro.
È generato e allevato da un padre analfabeta coltissimo, dolcissimo narratore autoritario e violento, malato, scopre quarantenne la Bibbia e l’adora, ma legge il Nuovo Testamento alla luce del vecchio, è deluso dall’umanità; e innamorato delle donne che stima se sottomesse.
Rolando Rizzo passa solo i primi sei anni con una madre talentuosa, femminista ante litteram, ribelle, indipendente che rifiuta senza se e senza ma ogni forma di sottomissione, di dominio e di violenza maschile per cui presto lascia il tetto coniugale, il paesello e suo figlio per eclissarsi nella città eterna.
L’adolescente Rolando vive sino ai quattordici anni con suo padre, poi è accolto a Firenze dall’Istituto Avventista nel quale sopravvive lavoricchiando da garzone agricolo e da lavapiatti sino ai ventun anni innamorato di calcio e di cinema. Divora Topolino e Tolstoj, Il piccolo Ranger e Malaparte, Il Guerin sportivo e soprattutto la Bibbia.
Scrive il suo primo pezzo sul giornale murale degli studenti di Villa Aurora, poi non smette più… Si diploma in Teologia nel 1972. È pastore avventista, animatore giovanile, conferenziere, autore di divulgazione teologica e di saggistica, divora romanzi. Nel 1990 ritorna come professore di Teologia Pratica nell’Istituto che lo aveva accolto nel 1958, e nel 2008 scrive il suo primo romanzo Il Mulino sul Colognati definito in un editoriale di “Leggere Tutti” dal suo direttore “Un insospettabile capolavoro”.
Seguono Il Viaggiatore, Il terzo treno, Cieli Tamarri, Il Nulla e l’Incanto, Il principino scomparso, Marmellata di prugne gialle, La viola e i gigli della campagna, Se la grandine a maggio. Quando l’handicap arriva dopo Dio.
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Marmellata di Prugne Gialle Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioniQuel Mulino: Profumava di mirto, di farina, di neve Valutazione: 0 su 5 stelle0 valutazioni
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Anteprima del libro
Se la Grandine a Maggio - Rolando Rizzo
Rolando Rizzo
SE LA GRANDINE A MAGGIO
Quando l’handicap arriva dopo Dio
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Indice
Il Calicanto
Johnny
Il capo
La famiglia
Capitano di industria
Zia Gina
Se la grandine a maggio
Dopo la grandine
Todo cambia
Il diario di Susanna
Piove sul bagnato
Benito
La famiglia di Dio
La famiglia
Il libero mercato
Un quaderno nero dal bordo rosso
La lettera
Quel ragazzone biondo
Vita di padre
Il barbone
Un grande progetto
Rinascere
La verità dell’impossibile
Le indagini
Carissimo mio grande papà
Mini biografia
IL MULINO SUL COLOGNATI
QUEL MULINO
IL VIAGGIATORE
IL TERZO TRENO
CIELI TAMARRI
IL NULLA E L’INCANTO
IL PRINCIPINO SCOMPARSO
MARMELLATA DI PRUGNE GIALLE
LA VIOLA E I GIGLI DEI CAMPI
DISTRIBUITO DA
Pubblicato con
Il Servizio Numero 1 in Italia
di Assistenza alla Pubblicazione
per gli Autori Indipendenti
Self Publishing Vincente
www.SelfPublishingVincente.it
Rolando Rizzo
SE LA GRANDINE
A MAGGIO
Quando l’handicap arriva dopo Dio
Romanzo
SE LA GRANDINE A MAGGIO
Quando l’handicap arriva dopo Dio
Copyright © 2020 Rolando Rizzo
Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta
senza il preventivo assenso dell’Autore.
Ogni riferimento a persone esistenti o
a fatti realmente accaduti è puramente casuale
1 a edizione Aprile 2020
A Gabriella e a Salvatore Avarello
coniugi coraggio che
con amore e organizzazione
non hanno lasciato alla grandine
il loro splendido giardino.
Il Calicanto
Introduzione dell’autore
È rigido, come raramente in questi anni
Questo gennaio duemiladiciassette
Parrebbe senza neve
Che invece, candido sudario di morte,
Ci giunge dalle rovine di Amatrice,
Ci penetra le ossa e l’anima.
E invade le villette nel verde
del boom anni 60.
Tante comode case disuguali tra pini e betulle
E mille e mille aiuole che a marzo
Profumeranno di giacinti
E sorrideranno di crochi e di viole.
Ma ora li umilia un gelo inatteso.
Eppure una fragranza fine e forte
delicata e intensa invade l’aria
Come un sogno gentile, come la speranza.
Ma può profumare questo gelo senza sole
Che persiste lungo i miei passi?
Possibile non averlo mai incontrato
Né mai aver visto il fiore che lo canta
In queste mie lunghe e numerose stagioni?
Eppure è li dai tempi della creazione
Che si distingue appena, tra i pioppi spogli
E le betulle nude,
Dal biancospino rugginoso.
Da lungi ha minuscole escrescenze ferrose,
anonime,
Ma da presso una corona di petali giallognoli,
Eleganti e discreti,
Onorano un nucleo marroncino
E un profumo che stordisce:
Solo il fioraio all’angolo me ne da il nome:
Il Calicanto.
Mi ricorda tanti di nomi di fratelli
Che hanno profumato i miei inverni:
Maria è il loro campione
Camminava lieve e invisibile
Tra un marito presuntuoso e rude
E figli rozzi e bellicosi.
Indossava sempre un grembiule candido,
Pronunciava poche parole di sola pace,
Ma dall’incastro perfetto.
Produceva armonie impossibili.
Mi ricorda Franco, il Calicanto:
Diacono gentile in una comunità rissosa
Presuntuosa e arrogante
E lui come Maria con il passo leggero,
Parole poche, lievi e di concordia,
E vicinanza silenziosa al dolore.
Creava eufonie celesti
Proprio come i grumi del Calicanto
In questo inaspettato gelo.
Johnny
Capitolo 1
Giorgio, che da anni non viveva che giornate di splendido sole e notti di luna e di lucciole e che mai avrebbe immaginato ciò che gli sarebbe accaduto, come ogni mattina, sollevò il lenzuolino colorato di paperi azzurri e bianchi e prese nelle sue mani i due piedini caldi, dolcemente palpitanti del suo ultimo bimbo; due batuffolini merlati di rosa, tessuti nel sole. Il bimbo, come ad ogni alba, sentì il piacere di essere carezzato da mani che parevano di seta e continuò a ronfare come i porcellini dal codino arrotolato dei cartoni Disney.
Giorgio gli aggiustò delicatamente il lenzuolino sul collo e, come ogni volta, contemplò commosso l’oro dei riccioli che gli coprivano il viso lasciandogli scoperte solo le labbruzze imbronciate odorose di latte.
Era un capitano di industria Giorgio. Gestiva un’impresa che produceva attrezzi agricoli minuti, alcuni di sua stessa invenzione, in un immenso capannone da cui partiva ogni giorno una piccola flotta di pulmini che rifornivano i Consorzi agricoli dell’intera regione, ma anche un tir che serviva numerosi punti vendita in altre parti d’Italia.
Ormai da anni lasciava il suo studio privato all’alba per andare verso il suo centro direzionale lontano un centinaio di metri, un ufficio al centro di un cubo industriale di vetro e di acciaio.
I suoi impiegati e i suoi operai entravano alle otto in punto, ma lui era sempre al suo tavolo di lavoro dalle sei precise. Quelle due ore erano le più preziose e le più produttive poiché, riposato e con la mente fresca, preparava la giornata esaminando ognuna delle priorità in ogni settore della sua azienda.
Molti industriali lavorano sino a notte fonda. Giorgio invece rientrava a casa non oltre le cinque del pomeriggio per dedicarsi alla famiglia sino alle dieci di sera. Da allora e sino alle cinque del mattino dormiva profondamente. I suoi collaboratori avevano l’ordine tassativo di non chiamarlo mai in quelle ore. Soleva dire: «Ho collaboratori fidati a capo di ogni settore della mia azienda, se anche andasse a fuoco la fabbrica tutto sarà risolto al meglio senza di me. Dalle cinque del pomeriggio alle sei del mattino fate che io non esista. Diversamente, presto non esisterebbe la mia famiglia».
Johnny era l’ultimo nato in casa Garelli, il quinto di altri quattro eredi: due maschi e due femmine. Domenico detto Nico, Giovanni detto Gianni, poi Angelina trasformata in Ina e Rosalia che tutti chiamavano Lia. L’ultimo soltanto aveva ricevuto un nome straniero per onorare la nonna ormai molto vecchia che pareva rivivere quando ascoltava il suo cantante preferito di nome Johnny.
Giorgio aveva amato ed amava tutti i figli che aveva sempre coccolato, ma ciò che nel rapporto con loro lo aveva sempre maggiormente emozionato era carezzar loro i piedi da bimbi nel sonno del primo mattino. Si ripeteva ogni volta il medesimo incanto, anche se non tutti i figli erano stati belli come Johnny che pareva un putto disegnato da Raffaello.
Cinque figli non erano pochi, ma quando qualcuno glielo ricordava soleva ripetere che, per come gli erano venuti, ne avrebbe accettati anche il doppio.
La moglie Susanna non si lamentava, ma tra il serio e il faceto diceva che cinque potevano proprio bastare
.
Parevano fortemente uniti Giorgio e Susanna. In pubblico erano reciprocamente gentili, complimentosi, affettuosi. I figli, si sa, qualche volta li facevano arrabbiare ma per motivazioni di poco conto. Sui valori di fondo, tutte le relazioni erano più che buone. Straordinaria famiglia!
dicevano sinceramente gli amici, i vicini, i conoscenti, i dipendenti che idolatravano Giorgio. Un padrone anomalo che veniva dalla gavetta e che in nessuna occasione dimenticava il suo passato di operaio.
Era stata breve e incredibile la carriera di Giorgio. Si era sposato con Susanna quando era un operaio semplice figlio di contadini romagnoli non poverissimi ma nemmeno agiati.
I suoi erano proprietari e coltivatori di un piccolo podere di montagna che dava il necessario, ma non di più.
Ultimo rampollo di una famiglia assai numerosa guidata da un padre onesto e gran lavoratore, ma dalle vedute assai limitate, Giorgio conseguì come tutti i suoi numerosi fratelli soltanto la quinta elementare. Frequentò una multi classe allestita in un localino adiacente un’antica chiesetta di pietra al centro di un quadrivio tra i pascoli, a ottocento metri di altitudine.
La sua fortuna fu di scendere a Sernafolice, la bella cittadina della piana, assunto come garzone da un anziano zio vedovo e senza figli che mandava avanti un’antica botteguccia di articoli da orto e da giardinaggio. Pochi anni prima aveva ricavato il negozio nell’antica cascina dei genitori, in aperta campagna, ma la città l’aveva ormai raggiunta e prometteva di superarla.
Era proprio un buchetto quel locale ottenuto nell’antica stalla sotto l’abitazione, aveva davanti la vecchia aia confinante con una piantagione di peschi.
Sul largo spiazzo in primavera e per tutto l’autunno lo zio accatastava sacchi di concime, vasi di terracotta, attrezzi e plateau di piantine da giardino e da orto. Il tutto veniva lasciato incustodito la notte data la tradizionale onestà contadina che vigeva confortevole nella zona.
Giorgio quando scese in città alla fine degli anni ‘40 aveva ventun anni. Non era un adone. Non molto alto, aveva comunque un fisico compatto e snello, folti capelli scuri e un viso dai tratti rudi ma armoniosi. Era un giovane naturalmente allegro; esprimeva sempre ottimismo ed aveva un eloquio simpatico, quasi sempre in romagnolo perché l’italiano lo parlava con approssimazione. Aveva un difetto che però ne aumentava la simpatia rendendo spontaneamente buffa la sua risata: una piccola fessura naturale al centro della dentatura inferiore. Quasi che gli mancasse metà di un dente.
Straordinario lavoratore, sempre disponibile, presto conquistò il cuore dello zio che gli aumentò giorno dopo giorno le responsabilità. Avrebbe dovuto abitare nel modesto appartamento sopra il negozietto per breve tempo ma il vecchio lo convinse a vivere con lui, entrambi assistiti da una giovinetta che puliva la casa e preparava da mangiare.
Era Susanna la ragazza; aveva diciotto anni e abitava la casa di fronte ultima figlia di una famiglia contadina romagnola che a quell’età sapeva già fare di tutto in casa e nel podere.
Dopo tre mesi appena i due ragazzi si innamorarono, ancora tre mesi e si unirono in matrimonio con uno speciale permesso della Curia e del Comune. Vedere i due assieme non parevano adolescenti, ma bambini in quanto a spontaneità e gioia di vivere, adulti oltre la loro età in fatto di affidabilità e buon senso.
La vecchia cascina sopra il piccolo emporio era grande e aveva stanze alte e ampie, oltre a una grande cucina dalle pareti coperte da antiche batterie di rame sopra quattro punti fuoco di pietra lasciati lì ancora funzionanti. Un fratino di castagno spesso e otto sedie impagliate, ancora in buono stato, completavano l’antico arredamento che allo zio ricordava l’infanzia e la sua grande famiglia che gradatamente, anno dopo anno, lo aveva lasciato solo. Ultima, poco prima che Giorgio venisse dai monti, se n’era andata la moglie.
Quel matrimonio fu per il vecchio il ritorno della vita nelle vecchie stanze e sull’aia. Diede facoltà ai due sposini di abitare la casa e trasformarla secondo i loro gusti a patto che la cucina rimanesse intatta, soprattutto la batteria di rame sopra i fuochi che copriva la parete da almeno un secolo. Potevano aggiungervi quello che volevano ma senza nulla togliere sino alla sua morte.
Per tre anni vissero d’amore e d’accordo con due frugoletti che allietavano ogni stagione. Poi improvvisamente lo zio morì. Non aveva ancora ottant’anni e nessuna malattia. Lo trovarono un mattino di giugno sorridente sul letto che stringeva nella destra la pipa spenta. Parve essere morto di felicità.
Nel testamento i due ragazzi erano nominati eredi universali. Nei fatti ereditavano la casa, i due ettari del pescheto di fronte e un modesto gruzzoletto. Ma Giorgio, quasi analfabeta vedeva lontano, molto lontano.
Il capo
Capitolo 2
Era piovuto tutto il giorno. L’aria della notte era fresca e tersa, un venticello leggero aveva spinto ogni nuvola verso sud e il cielo limpido pareva volta blu ricamata di luci. Si sentiva forte lo scorrere del Montone in fondo alla valle e nel giardino amoreggiavano discrete stormi di lucciole.
Quattro dei loro cinque figli erano andati tutti nel fondovalle ad una festa. Johnny soltanto già ronfava stanco della consueta giornata da piccolo terremoto.
Sotto il patio, Giorgio e Susanna si tenevano per mano silenziosi abbandonati su un dondolo di bambù, regalo dei propri operai per le loro nozze d’argento celebrate qualche giorno prima.
Era un po’ freddino, ma lo spettacolo della vallata e del cielo, nel silenzio assoluto e raro della loro casa, era troppo bello per perderselo. Un morbido plaid di lana provvedeva al tepore necessario.
Il cuore non poteva che correre felice verso i ricordi.
«Susanna cara, ci pensi che sono passati venticinque anni? Quante cose sono accadute! Ricordi quante ansie avevi e quanto piangesti quella volta che volesti vedere i conti e ti accorgesti che avevamo diversi milioni di lire di debiti?» disse Giorgio con soddisfazione un po’ narciso. Susanna era innamorata e stimava il marito, ma nonostante lo straordinario successo ottenuto in tutti i campi, qualche amarezza le rimaneva nel cuore e non ne faceva mistero anche in momenti magici come quella notte.
«Tra le cose accadute ci sono anche i miei capelli tutti bianchi che non si vedono perché li tingo. Me li hanno portati proprio quelle ansie che durarono a lungo. Per anni abbiamo vissuto nei debiti».
«Ma erano investimenti. Ti ho sempre spiegato».
«Sì, ma erano investimenti che tu facevi senza mai chiedermi se ero d’accordo».
«Ma tu saresti mai stata d’accordo?».
«Mai, debiti mai e per nessun motivo!».
«Eppure puoi ben vedere che avevo ragione! Tutto ciò che abbiamo costruito non ci sarebbe se avessi ragionato con le tue ansie».
«È