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Non puoi fermare il cavallo che corre
Non puoi fermare il cavallo che corre
Non puoi fermare il cavallo che corre
E-book397 pagine5 ore

Non puoi fermare il cavallo che corre

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Info su questo ebook

Gianni e Bruno, due studenti universitari, trovano Carla, la governante un po’ suonata che parla un italiano arcaico e poco comprensibile, in lacrime sulla soglia di casa. La donna è disperata perché Altiero, il vecchio cavaliere (non sanno nemmeno loro perché lo chiamano così), sembra non risvegliarsi più. È l’amico fraterno del padre di Gianni, tormentato dal rimorso di averne causato la morte durante un viaggio in barca a vela a Malta. Con la complicità di Carla, del cane Poldo, della tartaruga Olga e di un pappagallo che dice solo parolacce, vengono inviati nel passato grazie a una mappa magica.
In mezzo a storiche battaglie: Platea, la conquista dell’impero azteco da parte di Cortés, Waterloo e Lepanto, devono raccogliere immagini di cavalli e cavalieri per recuperare la memoria di Altiero, ultimamente piuttosto compromessa. Sono però perseguitati dagli iayalar, sanguinari corsari inviati da Uluç Alì, che vuole controllare il tempo per riportare in vita il suo ammiraglio, Dragut, ucciso dai cavalieri di Malta. Finiranno persino nel cervello di Altiero dove scopriranno chi siano realmente lui e Carla e chiariranno i dettagli del suo incubo.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2020
ISBN9788866603528
Non puoi fermare il cavallo che corre

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    Anteprima del libro

    Non puoi fermare il cavallo che corre - Luca Durelli

    vita

    Prologo

    Qualche giorno fa è passato a trovarmi in ufficio uno dei miei studenti. È uno di quelli che a lezione si notano poco: siedono nelle ultime file, o, se riescono, addirittura dopo l’ultima, cioè per terra, in fondo all’aula, cercando di farsi vedere il meno possibile dal professore. Gianni aveva appena sostenuto con me l’esame di Clinica Neurologica e io gli avevo proposto uno stiracchiato diciotto che lui aveva rifiutato. Non avevo idea del perché mi avesse chiesto quel colloquio.

    Mi salutò con gli occhi bassi e un sorriso forzato, di circostanza: «Professore, volevo ringraziarla per il modo con cui lei fa lezione: l’abbiamo veramente apprezzato».

    Non capivo dove volesse arrivare. Era chiaramente imbarazzato, così condussi io il discorso: «Sono contento che tu abbia rifiutato il diciotto; ti avrebbe rovinato la media. Di più però non potevo darti. Vedi: tu, da un lato, sembri avere una conoscenza approfondita del funzionamento e delle patologie del cervello, come se ne avessi avuto un’esperienza, come dire, quasi diretta; ma, d’altro canto, dai l’impressione di non aver nemmeno toccato i libri. La terminologia che usi non sta né in cielo né in terra: l’altro pezzo del cervello, invece dell’altro emisfero; qui a destra o qui a sinistra, un po’ sotto o un po’ sopra, invece di mediale o laterale, prossimale o distale; e poi, cos’è che sei persino riuscito a dire? Ah, sì! Amildòlla invece di Amigdala».

    «Ma, professore, è una terminologia difficile».

    «Difficile? È dal primo anno, dalle prime lezioni di anatomia, che vi ripetiamo di imparare il modo corretto di esprimersi. È fondamentale, sia per capire bene sia per spiegarsi chiaramente con i colleghi, anche con quelli stranieri, e oggi più che mai dovete essere pronti a esercitare la vostra professione in un mondo globalizzato. Molti termini medici derivano dal latino o dal greco; un po’ dovresti averli nell’orecchio dai tuoi ricordi del liceo».

    «Greco? Ma io ho fatto lo scientifico. Il greco non l’ho mai studiato».

    «Comunque», tagliai corto, «hai fatto bene a rifiutare il diciotto. Leggi un paio di volte il libro, o almeno gli appunti delle lezioni, e vedrai che la prossima volta andrà meglio».

    Gianni ripeté l’esame nella sessione successiva e prese un bel ventotto.

    Venne nuovamente a trovarmi; questa volta aveva uno schietto sorriso, uno di quei sorrisi che generano subito simpatia. Spalancando gli occhi, mi fissò con il suo sguardo intenso e sincero di ragazzo: «Beh, professore, ha visto che ce l’ho fatta. Poi, il vero motivo», era, come nel nostro precedente incontro, a disagio ma si vedeva che aveva qualcosa di importante da dirmi, «è che vorrei raccontarle un episodio familiare che ci tenevo proprio conoscesse».

    E, preso coraggio, narrò questa vicenda, che mi emozionò profondamente. Gianni aveva allora ventiquattro anni, e ventiquattro o, meglio, venticinque anni prima, cioè proprio attorno al periodo del suo concepimento, la sua mamma dovette fronteggiare due grossi problemi. Aveva già due figli e il padre era assolutamente contrario ad averne un terzo, come lei, invece, desiderava fortemente. Il secondo problema era ben più serio: sulla base dei risultati della risonanza magnetica del cervello (un esame che ne evidenzia con grande precisione la struttura e le eventuali lesioni), le era stata diagnosticata una grave malattia cronica, spesso inesorabilmente progressiva e invalidante. La signora, però, non aveva mai manifestato nessun sintomo della malattia e l’esame le era stato consigliato solo per i frequenti mal di testa. Alcuni medici le avevano detto che quella diagnosi sconsigliava una gravidanza, ma lei, senza darsi per vinta, aveva deciso, non so come, di venire a consultare me, giovane neurologo appena rientrato a Torino dopo un soggiorno negli Stati Uniti, dove mi ero specializzato nella gestione di quella malattia. Io le spiegai che una simile diagnosi non si può stabilire soltanto sulla base della risonanza magnetica. L’esame, infatti, può talvolta evidenziare alterazioni dell’immagine del cervello che non corrispondono a una precisa patologia e che, comunque, non necessariamente evolvono in una malattia. Conclusi quindi che, secondo me, non esistevano controindicazioni assolute per una gravidanza.

    Se fui fortunato o nel giusto ancora non so: certe forme di quella malattia iniziano proprio in gravidanza o nei primi mesi dopo il parto. Sta di fatto che, spinta dall’entusiasmo prodotto in lei dalle mie spiegazioni, la signora convinse il marito, Gianni fu concepito e nacque, appunto, ventiquattro anni prima di quel nostro incontro. Sua madre non ha mai sviluppato la malattia.

    Lo ringraziai molto per avermi reso partecipe di questo episodio della sua vita, ma, soprattutto, lo lodai per non avermelo raccontato prima dell’esame, quando avrebbe potuto sfruttare l’empatia generata da una simile rivelazione per ottenere un voto migliore da parte mia. Avendomelo manifestato dopo l’interrogazione, anzi addirittura dopo il secondo tentativo, aveva dimostrato non solo delicatezza ma anche una grande onestà, che ritenevo presagio di una brillante carriera come medico.

    Diventammo amici e ci frequentammo, anche se soltanto sporadicamente, vista la grande differenza di età. Qualche tempo dopo gli rivelai che continuavo a non capire quale fosse il segreto che gli avesse consentito di dimostrare una sorta di naturale dimestichezza, quasi indicativa di un’esperienza pratica, con le patologie e l’anatomia del cervello; in particolare, ricordavo che era stato pronto e preciso a descrivere i sintomi del morbo di Alzheimer e i meccanismi di memorizzazione nell’ippocampo, un centro cerebrale della memoria.

    «Vede, professore, si potrebbe davvero affermare che io la Neurologia l’ho studiata molto concretamente. Come dire? Proprio sul campo!»

    Aveva il volto atteggiato in modo diverso dal solito, con uno sguardo interrogativo misto a un sorrisetto leggermente ironico, e mi raccontò una recente vicenda della sua vita, così complessa e affascinante che pensai valesse la pena riportarla in un libro.

    Introduzione

    Il vecchio cavaliere è morto?

    Il vecchio cavaliere vive in una cascina di fine ottocento che non si è mai curato di rimodernare. La facciata di mattoni, rettangolare, ha due porte d’ingresso e numerose finestre di foggia particolare: alcune ampie; altre piccole; una, in alto, rotonda. Quasi tutte sono chiuse da persiane tarlate con rugginosi sostegni di ferro e sono ingraticciate di rampicanti: vite vergine, gelsomino e caprifoglio fanno a gara per conquistarsele.

    Di fianco a una delle porte, Carla, la vecchia domestica, sta piangendo seduta su di una panca di legno, le cui assi, in parte rosicchiate dal cane, si stanno scrostando. È una donna alta, grande e solida; il viso molto dolce rimanda a un’antica provocante bellezza, ora perduta tra le numerose rughe dell’età, e gli occhi, grandi e scuri, sono colmi di lacrime. Scuote lentamente la testa e si passa una mano fra i capelli che, già di un nero intenso, tendono qua e là a imbiancarsi.

    «Che cosa c’è, Carla?», le chiede Gianni, leggermente commosso e, soprattutto, preoccupato.

    «Messer vetusto cavaliere est spirato!», risponde, singhiozzando, la vecchia. Intanto appoggia, disperata, la testa sul bastone che impugna con entrambe le mani.

    «Spirato? Morto? Il vecchio cavaliere? Zio Altiero?», ribattono, quasi all’unisono e un po’ impauriti, Gianni e Bruno.

    «Mi appropinquai a desso ier sera, dopo compieta. Se abbisognasse di un infuso di erbe calmanti, chiedetti. Era digià nel suo giaciglio quando ei mi rispuose: No, ti son grato. Sto bene. L’ora è tarda, lo somno mi abbisogna, et chiuse li oculi, serenamente. All’ora prima mi destai, come mio uso, et apprestai quella pozione calda, forte et di profumo intenso, che proprio ei mi ammaestrò. Poscia me ne sono ita ne la sua istanza per cognoscere se dessa abbisognasse bevere, ben abbiendo contezza ch’era uso destarsi a l’ora prima. Intrai et anchora dormiente’l vidi. Trovando alquanto istrano’l facto, osai desso clamare. Indarno! Ei non rispuose. Ardii allora il gridare, cum voce possente, più et più volte. Alquanto vano, per vetustà, est difatti il suo audire; eziandìo la sua ragione sembiava, forsi da un anno, svanita et li suoi modi alquanto inusitati; non cognosce né’l tempo né’l loco, quando disveglia. Opinate! La notte ei crede esser mattutino! Et mi clama per ciò che vuole aita per metter le vesti indosso et ire a la corte. Credo proprio che’l senno se ne sia ito da la sua mente, sebben lo suo modo sia ognor dolce et gentile. Ma questo mattutino nec enzia, nulla! Ei non rispuose. A desso mi appropinquai allora, viciniore et posai la mano sovra la sua spalla, piano, piano. Altre volte’l feci, quando’l suo senno parea sviarsi in fole: dilicatamente’l movo; talor ei si volge, lo sorriso dolce dolce, et dice: Carla, che vuoi tu? Di quando fui a Jerusalem opinavo. Jerusalem?, rispond’io istupita, la santa città che da l’empio infedel i Crociati, da’l Buglion che niuno temea guidati, liberorno?. Giammai ei fu ito a Jerusalem. Et ben il so io che la sua vita tutta cognosco. A Malta, Malta, l’insula dei Cavalieri, invero, ei fu ito. Et ispesso et cum piacer di essa mi contava».

    ***

            Malta, 11 ottobre 1996

    S’iniziava a vedere Marsascirocco. A destra, punta Delimara, con le sue alte coste rocciose di gesso, e, sopra, le casematte del forte, quasi invisibili perché costruite di calcestruzzo fatto con la bianchissima sabbia locale; il mare stava erodendo le rocce sottostanti e l’edificio iniziava a collassare dentro il fossato. A sinistra, punta Benghisa, con il suo fortino ancora più malandato.

    «Cazza quel fiocco, Altiero. Il vento ha girato a grecale e sta rinforzando; ci condurrà in porto in una decina di minuti», disse secco Francesco.

    Entrando nello stretto golfo si vedeva l’orrendo cantiere del porto dei container ancora in costruzione: gru gialle e blu; silos bianchi, taluni con il tetto grigio, altri tutti metallici; camion; operai.

    «Tra qualche anno per entrare in questa baia dovremo aspettare in coda a una nave portacontainer. Non ci torneremo più!», sottolineò Altiero, guardando il cantiere, indispettito.

    «Hai ragione, ma ora recupera il fiocco, mentre io ammaino la randa. Il vento rinforza troppo ed è meglio entrare in porto a motore».

    «Per non parlare di quest’orrenda ciminiera, qui a destra», aggiunse Francesco, mentre cazzava l’amantiglio e portava la prua al vento, «dicono con orgoglio che sia la costruzione più alta di Malta. Io me ne vergognerei!»

    Anche lì, infatti, la costa era rovinata dalla nuova stazione elettrica, con una ciminiera altissima a strisce bianche e rosse.

    «Per fortuna che laggiù c’è quel porticciolo meraviglioso», Francesco stava guardando verso le vecchie case bianche e gialle del porto e, soprattutto, verso i bellissimi gozzi e gozzetti, blu cobalto con strisce rosse, gialle o verdi, e con i caratteristici occhi, maliziosi e attenti, dipinti sui due lati della prua.

    «E questi luzzi», continuava Francesco, «con i loro occhi scaccia-malocchio per trovare la rotta giusta ed evitare le tempeste. Quando arrivi qui, ti senti davvero fuori dal mondo!»

    Era sinceramente emozionato e si passava la mano fra i lunghi capelli scompigliati dal vento e dalla salsedine. Si erano fatti strada tra quelle barche, come incantati, e guardavano a terra le case quadrate dei pescatori, dietro cui svettavano i due campanili e la cupola centrale, bianca e rossa, della bella chiesa parrocchiale. Iniziava la sera e avevano fame. Dopo avere attraccato, evitarono il lungomare affollato di ristoranti turistici e si addentrarono nei vicoli tra il porto e la chiesa parrocchiale, subito dietro al piazzale del mercato del pesce. Un ingresso con due ante malandate, dipinte dello stesso blu cobalto dei luzzi, li attirò. Appena dentro un grosso pappagallo verde intenso, con il muso giallo e gli occhi cerchiati di bianco, quasi li assalì gracchiandogli addosso una strana frase: «Hey cunt! Get yer ass over here!», e andò a fermarsi proprio sulla spalla di Francesco.

    Altiero lanciò un urlo, fece un salto e avrebbe quasi voluto andarsene, ma Francesco, facendosi scivolare l’uccello lungo tutto il braccio fino alla mano, gli disse: «Guarda, siamo già diventati amici. È troppo simpatico. E poi parla, facciamo un po’ di conoscenza», e si sedette a un tavolo, ponendo dolcemente il pappagallo sulla spalliera della sedia di fianco a lui. Altiero si sistemò, invece, un po’ lontano da quel volatile che gli creava apprensione. Un vecchio oste con la pancia mezza fuori da uno sporco camiciotto abbottonato a casaccio, una pipa stretta fra i pochi denti e una palpebra mezzo abbassata su di un occhio azzurro, vistosamente di vetro, si avvicinò ridacchiando.

    «Mhmm! Italiani! Si è spaventato il signorino?», chiese, alitandogli in faccia il fumo della sua pipa, «Jimmy sta diventando insopportabile con l’età. Non sappiamo più che farcene. Mangia, caga, spaventa i clienti e credo che porta anche un po’ di sfiga. Guardate come ha la coda tutta spennata; non riesce quasi più nemmeno a volare; fosse un pollo lo spennerei tutto e saprei bene cosa farne. Eh, eh», concluse sogghignando e dando un ceffone all’uccello.

    «Hey cunt!», ripeté il pappagallo rotolando giù. Francesco riuscì ad afferrarlo al volo e lo ripose sulla sedia.

    «Allora, che volete mangiare?», chiese l’oste.

    «Tabacco, vino e pesce: quell’alito contiene di tutto», borbottò fra sé Altiero.

    «Eed – dai, Altiero! Mangiamo?», concluse Francesco con voce energica.

    Si fecero portare ombrina al forno e involtini di spada e bevvero l’ottimo Gellewza, un rosé frizzante locale.

    Mentre mangiavano, Francesco chiamò con un cenno l’oste: «Ehi, sai qualcosa della Sacra Infermeria?»

    «Mhmm! V’interessano i Cavalieri?», chiese il vecchio.

    «Chissà perché c’è in giro tanta gente fissata con questi cavalieri? Sì, certo, sono qui a Malta da centinaia di anni, ma noi siamo pescatori, che c’interessano cavalli e cavalieri? Comunque sì, la Sacra Infermeria era il loro ospedale; è a La Valletta. Se v’interessa, ci potete andare con il bus. In barca non c’andrei proprio! Dovreste fare gimcana tra mega yatch, traghetti e navi portacontainer per entrare in Porto Grande. Eh, eh», e ridacchiava sgangheratamente, «e poi non è più un ospedale adesso. Credo ci facciano le conferenze, o qualcosa del genere. Eh, eh», e continuava a ridacchiare.

    Ma questo ride sempre?, pensava Altiero.

    «E la Cappella delle Ossa? esiste davvero?», aggiunse Francesco.

    «La Cappella delle Ossa? Ma allora siete proprio fissati con quei cavalieri. Dicono che ci portavano le ossa dei morti del loro ospedale e le appendevano al muro, i crani sotto l’altare, cose del genere, da pazzi, da maniaci. Eh, eh», ridacchiava ancora, «ma non esiste più. Anzi, non son nemmeno sicuro che è mai esistita. Dev’essere stata lì vicino, ma non so».

    «Bene. Grazie. Ci andremo domani. Senti, e ’sto pappagallo, mi piace, me lo vendi?», domandò Francesco.

    «Vendertelo? È bello, è qui da molti anni, è quasi un parente. È un pappagallo dell’Amazzonia, o delle Amazzoni, non ricordo bene. Vale molto», rispose l’oste, sorridendo furbescamente.

    «Dai, taglia corto! Quanto vuoi?», ribatté Francesco, ridendo anche lui.

    «Dammi quaranta lire ed è tuo».

    «Quaranta lire? Sei pazzo, sta perdendo le piume, è vecchio. E poi, l’hai detto tu, mangia, caga e basta!», insistette Francesco, «ti posso dare dieci lire, giusto per farti smettere di maltrattarlo».

    Conclusero per quindici lire più il conto della cena e Francesco se lo mise sulla spalla, tutto felice, e fece per uscire.

    «Ma vuoi davvero portarlo in barca?», chiese Altiero, che aveva assistito, sbigottito, all’assurda trattativa, «dobbiamo dormire con un pappagallo portasfiga?»

    «E dove vuoi che dorma? Ormai si è affezionato. Su, dai, andiamo, è tardi e domani abbiamo molte visite da fare».

    ***

    «"Elp, elp!" ei dicea a la fine, forsi usando la lingua di Britannia», continua a raccontare Carla, «et traspirava umori da la pelle, lo corpo scosso da inusitata smania. Anco altre volte giammai quella istoria terminò. Ma questo mattutino ei non rispondea; il scotei diprima piano, poscia sempro uno poco più forte. Ma ei nulla, nec enzia! Fermo siccome morto. Io paventava. No, non frigido siccome homine morto; siccome lignea statua. Non paventate anco voi. Fermo, fermo. Niuna parola profferiva. Son infelice, in grave ambascia et non cognosco’l da farsi».

    «Adesso vado dentro io e vi dico cosa si deve fare», dice Gianni, con atteggiamento professionale.

    «E bravo il Dottor House», lo sfotte Bruno.

    «Ma va’ a quel paese!»

    Entrano tutti e tre; Carla cammina lentamente trascinando la gamba destra. Improvvisamente un grosso volatile verde l’assale gracchiando: «Hey cunt! Get yer ass over here

    «Ah! Aah! Fermo, fermo», urla la donna, «lo malo uccellone sempro me attacca. Non cognosco’l perché. I’ lo pavento. Esso è cattivo; et i’ nol merto, sono buona con tutti et anco con desso. Dipoi non aggio contezza delle sue favelle. Ma ora fermo, ei sta male! Vade retro», e lo allontana.

    «Get yer ass over here», gracchia il pappagallo, ritornando sul suo trespolo.

    Vanno subito nella camera da letto del vecchio cavaliere.

    Benché fuori sia un luminoso pomeriggio di primavera, la luce nella vecchia stanza è fioca e le persiane semichiuse lasciano appena filtrare pochi raggi del sole che si allargano a stento sul letto e sul pavimento, dove una vecchia croce di Malta smaltata di bianco, spezzata a metà e con lo smalto sbeccato dal tempo, cerca di rifletterne i più brillanti.

    Il vecchio è disteso nel letto. È molto dimagrito e il suo viso è diventato ancora più affilato, gli zigomi ancora più sporgenti. La barba, di solito ben curata e appuntita sul mento, è cresciuta in modo irregolare, in parte grigia e in parte bianca, invecchiandogli il volto ancora di più; le mani sono incrociate sul petto, sopra le coperte. Le dita lunghe e ossute, con le unghie non tagliate da tempo, contribuiscono a completare quel senso di triste abbandono, di vecchiaia solitaria che permea la stanza. Il bel volto aperto e chiaro di Gianni è diventato più pallido del solito, i suoi occhi verdi-marrone hanno le pupille dilatate, gli angoli della bocca gli fremono e il mento e le labbra cominciano a tremargli. Si passa nervosamente la mano sul capo arruffando ancora di più i capelli castano chiari, che porta lunghi fin quasi a coprirgli le orecchie. Si avvicina al vecchio e gli solleva dolcemente le palpebre: ha gli occhi girati leggermente verso l’alto e privi della consueta luminosità. Gli mette l’indice e il medio della mano destra sul collo, come ha visto fare nei telefilm polizieschi, e sentenzia: «La carotide pulsa, il cuore batte, gli occhi girati verso l’alto e in fuori indicano che sta dormendo: è vivo!»

    Gianni studia Medicina e in quel pomeriggio di primavera aveva deciso che fosse meglio lasciare lo studio.

    «L’esame di Neurologia è tra venti giorni: ho ancora molto tempo», si era detto per giustificarsi e andare a incontrare Bruno.

    «Sì, guarda: il volto mi sembra rilassato. Ha quasi, un accenno di sorriso, sembra proprio addormentato. Però, non che non mi fidi di te come medico, ma lo porterei all’ospedale», rileva Bruno.

    I due ragazzi conoscono il vecchio cavaliere da sempre. Da bambini, passavano quasi ogni fine settimana a giocare con lui e Carla, a sentire le fiabe che leggeva: quante storie avventurose aveva narrato loro, quanti libri aveva spiegato e prestato. Da oltre un anno, però, avevano notato che si comportava in modo strano: meno pronto a ragionare, confuso nell’organizzare la giornata (giornate sempre uguali, peraltro!), difficoltà a ricordare i nomi degli oggetti e delle persone. Spesso, ultimamente, sembrava quasi non riconoscerli; dormiva molto più di prima; lo trovavano addormentato anche di giorno, e, quando si svegliava, non capiva bene che ora fosse, se fosse giorno o notte. A Gianni pareva di avere letto qualcosa del genere negli appunti di Neurologia, ma non ricordava a proposito di quale malattia.

    Pre-coma? uhm? stato vegetatorio? Uno stato, forse, irreversibile? che stia per morire?, aveva pensato.

    «Il corpo è tutto caldo», Gianni sfiora ancora il collo e la parte del torace del vecchio che si vede nell’apertura del pigiama, «vado in macchina a prendere lo sfigmo e gli misuro la pressione».

    Corre in giardino nell’auto, una vecchia Panda di un verde bizzarro che non ha paragoni in natura: verde pastello, tendente al turchese, indefinibile. A dispetto dei suoi quindici anni è decisamente resistente, dato che il ragazzo la guida ormai da quattro. La carrozzeria della fiancata destra ha una bella riga alta due dita; il parafango posteriore sinistro un bozzo piuttosto profondo. La madre si è sempre rifiutata di dargli i soldi per le riparazioni, sapendo che, dopo una settimana, come per miracolo, i bozzi o le righe si sarebbero riformati.

    Torna dopo dieci secondi, piuttosto affannato, con lo sfigmomanometro in mano. Gli pone, con impeto, il bracciale attorno al braccio sinistro, infilandogli sotto il fonendoscopio. Ha il cuore in grande tumulto.

    «La pressione è 110 su 60», dice con un tono di sollievo e di gioia per essere riuscito a sentire il battito del cuore, «un po’ bassa, ma per un anziano che dorme mi pare accettabile! Forse ieri sera ha preso un sonnifero. Io non lo porterei all’ospedale. Pensa: Pronto Soccorso, ore e ore di attesa; lo mettono in una barella in mezzo ad altre dieci; un sacco di gente; poi si sveglia, si riprende e si trova lì, lui che non ha mai amato la folla, la confusione».

    «Chiamiamo Carla che gli porti un caffè. Forse il profumo lo sveglierà», anche Bruno è piuttosto agitato.

    I due ragazzi si guardano intorno. Carla è scomparsa e non risponde alla chiamata. Nella stanza c’è un’atmosfera di amarezza, di desolazione, ma c’è anche qualcosa di più, qualcosa che si percepisce ma non si vede. Non si tratta certo di disordine, anzi: i vestiti del vecchio sono ben piegati sulla spalliera della sedia al fondo del letto, su cui è anche appoggiato il plaid di lana beige che usa nelle giornate più fredde. L’unica nota di disordine è data dalla croce di Malta, abbastanza vicina al letto da far pensare che, forse, sia stato proprio lui ad averla gettata a terra prima di addormentarsi.

    Gianni la raccoglie e la guarda pensieroso: «Malta, ma non ne parlava Carla? Ecco, ora mi viene in mente: questa è una croce di Malta, con le braccia di uguale lunghezza e ciascuna con due punte. Chissà come si è rotta? Questa è solo una mezza croce. Mah», sospira mettendosela in tasca con un gesto automatico.

    «Ricordo che lo zio ci parlava spesso di Malta; sempre più spesso, poi, negli ultimi tempi. Templari, cavalieri di Malta, non so bene che differenza ci sia, ma ne parlava. Anche mio papà era un po’ fissato. Sì, proprio con quell’isola. E poi, poi, non farmici pensare».

    Gli occhi di Gianni si rattristano, quasi s’inumidiscono: «Su, andiamo fuori a cercare Carla», conclude con voce sommessa e spezzata.

    Il giardino, più lungo che largo, è ricoperto di ghiaia mista ad abbondante gramigna. Il grosso faggio ha i rami pieni di piccole foglioline marrone chiaro, che contrastano con le dimensioni del tronco e dei rami; il vecchio glicine è carico di grandi infiorescenze pendule, colorate d’azzurro e di delicato viola; i fiori sulle piante d’albicocche sembrano pronti a sbocciare.

    «Vieni qua, Poldo», grida Gianni, rivolto a un grosso e vecchio mastino spagnolo, bianco pezzato di marrone, che si allontana senza dargli molto retta. Un paio di galline, che razzolano nel cortile, scappano impaurite.

    «Dannazione! Devi stare più attento quando parcheggi in questo giardino! Per poco non ammazzavi Olga», sottolinea Bruno, un po’ seccato.

    «Olga? Tanto quella non morirà mai! Avrà più di duecento anni».

    Una vecchia tartaruga dall’enorme carapace giallo e marrone scuro sta accovacciata nella stradina di accesso alla casa, proprio davanti a una ruota anteriore dell’auto di Gianni, che si china e la prende con due mani. L’animale subito ritrae zampe e testa.

    «Vedi queste linee laterali sul carapace: dicono che contandole puoi calcolarne l’età. Guarda quante sono!»

    «Studi medicina o veterinaria?», chiede ironico Bruno, «ma fammi il piacere», sbuffa, accarezzandosi nervosamente la testa. È appena stato dal parrucchiere e i suoi capelli, neri e ricci, sono cortissimi e sembrano una specie di cuffia alta circa un centimetro, perfettamente convessa, applicata sul capo. Ha dei capelli praticamente indomabili: crescono folti, ricci, in tutte le direzioni, senza sottomettersi a qualsiasi tentativo di essere pettinati. L’unico modo per averli ordinati è, appunto, tagliarli cortissimi come una fitta spazzola nera.

    «Senti, io non sono sicuro che abbiamo fatto bene a venire qui. Forse sarebbe stato meglio andare al poligono di tiro, come facciamo spesso quando siamo stufi di studiare», continua, ora un po’ seccato, «ho appena dato Meccanica applicata, è uno degli esami più pesanti e sono veramente stanco dopo venti giorni di studio ininterrotto. Avrei voluto rilassarmi e mettere alla prova la mia mira con quel nuovo fucile che hanno messo a disposizione. Ho dovuto anche saltare una lezione del mio corso di arabo».

    «Ah, già! Adesso sei anche fissato con l’arabo. A che cosa ti serva lo sai solo tu. L’inglese serve; studiare l’inglese per il nostro futuro nel mondo globalizzato! Beh, com’è andata Meccanica applicata?»

    Bruno è ancora un po’ imbronciato, ma poi sorride: «Bene, grazie: ventinove; e il corso di arabo non ho ancora avuto tempo di riprenderlo. Comunque, checché tu ne dica e mi sfotta per questa mia idea, credo sia una lingua importante che potrà servirmi davvero».

    «È una fortuna che siamo venuti qui», aggiunge Gianni, «hai visto in che stato è lo zio? E stai tranquillo che la tua mira è sempre ottima, come la mia del resto, con tutte le volte che siamo andati a sparare invece di studiare. Ma come fai a fare l’occhiolino con l’occhio destro invece che con il sinistro? Io non ce la faccio. Già, il mancino magico, quello che spara appoggiando il fucile sulla spalla sinistra! Ti guardano tutti al poligono, quando spari. E poi, se vuoi veramente rilassarti, il mio consiglio è di sentire un po’ di buona musica: eccoti servito».

    Così dicendo appoggia il cellulare su una panca. È un apparecchio di ultima generazione con incorporate delle batterie a luce solare ultra-fini e super-leggere, in grado di ricaricarsi sempre, anche con pochissima luce. Ha una vistosa custodia color giallo oro splendente che Bruno gli aveva suggerito di acquistare, dopo averla comprata on-line anche per sé. Gianni era rimasto piuttosto perplesso della scelta di un colore così vistoso e sgargiante; alla fine, però, per far un piacere al suo amico che ne sembrava entusiasta, aveva deciso di accontentarlo.

    Bruno, intanto, si accorge, con stupore, che la musica non proviene dall’altoparlante del cellulare: la sta sentendo direttamente nella sua testa!

    «Per prima cosa, smettila con questo maledetto rapper! Sai che mi piace la musica classica, non queste porcherie. E poi, come funziona il tuo telefonino? Sento la musica come se questo diavolo di cantante suonasse proprio dentro il mio cervello».

    «Più vai avanti nel Poli, più diventi noioso! Eh, non l’avete ancora, al famoso Polito, quest’app: SynchroBrain».

    «SynchroBrain?» ripete, interrogativamente, Bruno.

    «Sì, permette di sincronizzare la musica con l’attività elettromagnetica cerebrale. Così la senti senza cuffie. Nel tuo cervellino ci sono tante celluline: si chiamano neuroni, scaricano in continuazione correnti elettriche che generano un campo elettromagnetico».

    «Questo lo so, cretino! Anche dell’app ho già sentito parlare; ma è molto costosa».

    «Senti un po’», continua Gianni, «tu, l’ingegnere, saprai senz’altro che hanno scoperto dei superconduttori che non richiedono di essere raffreddati. Costano sempre meno. Il gruppo del San Luigi che li usa nello SQUID, una macchina per registrare l’attività magnetica del ferro che si accumula nel nostro fegato, ha sviluppato un piccolissimo superconduttore molto sensibile. Può essere messo dentro una scheda che inserisci nel cellulare; l’app lo attiva, rileva l’attività elettromagnetica del cervello entro un raggio di qualche metro, ci sincronizza sopra le onde radio del cellulare, e tu senti la musica senz’auricolare. È super! Ci vedi anche i video! Credo che ci faranno un sacco di soldi. Io conosco bene uno specializzando che lavora in quel gruppo e che mi ha dato una scheda da provare».

    «Accidenti! funziona davvero bene», l’interrompe Bruno, «ma che cosa mi stai facendo sentire? È orribile!»

    «Ma come? Non lo conosci? È Coyōlcahuān, il rapper messicano. Lo sentono tutti, va fortissimo. Il suo nome significa: Colui che risuona come una campana. Canta in nāhuatl, la lingua parlata da una piccola comunità che vive nel Centro-America, a

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