Luce Fredda. Racconti all'ombra della luna
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Info su questo ebook
Il muro, L'aquila bianca, Nebbia per la mente, Scintille, In verità, Il 38esimo minuto, Squadra M sono ventuno racconti in cui il lettore abbandonerà ogni certezza, perchè nel mondo quotidiano si insinuano i germi di una tecnologia che rischia di distruggere tutto. In Luce Fredda ogni storia non è mai quello che sembra e i personaggi, dalla personalità ambivalente, vivono futuri apocalittici al limite delle loro possibilità.
Chi ama le storie di fantascienza e i finali mozzafiato non potrà non leggere questo libro.
L'autore, Spartaco Mencaroni, ha scritto numerosi racconti con i quali ha contribuito a diverse antologie di narrativa fantastica, partecipa a iniziative di divulgazione letteraria e scientifica del gruppo del Carnevale della Matematica. Ha un blog "Il Coniglio Mannaro" in cui continua a raccontare storie fantastiche e frammenti di sogni.
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Anteprima del libro
Luce Fredda. Racconti all'ombra della luna - Spartaco Mencaroni
Table of Contents
Copyright
Il Bar delle Fate
Creatività
La Città Piccola
Stabilità Emotiva
Metodo scientifico
Follie Estive
Salute Automatica
Creatività
Tortura
Ninna-bot
Lupus sapiens
La Colonia F
Gli inverni di Nishapur
Ultima notte di mezz'estate
Il muro
L'aquila bianca
Nebbia per la mente
Scintille
In verità
Il 38esimo minuto
Squadra M
L'autore
Copyright
Titolo: Luce fredda.
Sottotitolo: Racconti all'ombra della luna.
Autore: Spartaco Mencaroni.
Luce fredda. Racconti all'ombra della luna è pubblicato nella collana Narrativa.
Copyright © 2013 LibrosìEDIZIONI.
ISBN versione ebook: 978-88-98190-11-9
Il volume è disponibile anche in formato cartaceo puoi richiederlo a librosi@librosi.it oppure accedi al catalogo on line.
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A Marta, che è venuta al mondo,
e a Silvia che l’ha portata con sé.
Il Bar delle Fate
«Il prossimo caso è quello in cui ci abbiamo capito di meno, Doc.»
Come al solito, l’atteggiamento informale di Marco provocò un misto di ammirazione e dissenso nel nutrito codazzo di aspiranti luminari del reparto di Psichiatria Clinica.
Giovanni Vernazzini, clinico di stirpe giunto in tarda età ai vertici della carriera, sorrise con indulgenza ai modi del suo migliore specializzando e lo seguì nella cameretta singola in fondo al corridoio.
Ascoltò il giovane medico mentre riferiva una breve anamnesi e si concentrò sul nuovo caso. Era arrivato nel fine settimana, assieme al consueto drappello di pazienti che ogni lunedì mattina assicuravano a tutto il personale un’altra settimana faticosa.
Disteso sul letto al centro della stanza contemplò un ometto calvo e tarchiato sulla cinquantina, il viso rubicondo incorniciato da una folta barba, gli occhi azzurri e sottili dall’espressione vivida. Stava tranquillo e ascoltava con calma la presentazione di se stesso di cui non comprendeva un accidente.
«Ho capito» disse Vernazzini, avendo effettivamente appurato che non c’era niente da capire nella scarna introduzione del suo giovane collega.
Si rivolse quindi direttamente al paziente, domandandogli cortesemente il proprio nome, se fosse a conoscenza del luogo in cui si trovava e perché.
«Mi chiamo Giuseppe» rispose l’uomo a bassa voce, fissando con serietà il vecchio professore.
«Giuseppe Bentinelli. Stiamo in ospedale, nel reparto dei matti. E a dirgliela tutta professore, non ho capito perché me c’hanno spedito. Qui dentro non ci manca niente.» L’ultima frase la disse picchiettandosi la tempia con l’indice.
Il medico sorrise alla schiettezza del signor Giuseppe e gli posò la mano sulla spalla con fare amichevole.
«Se dovessimo curare solo i matti chiuderemmo in un mese. L’hanno già visitata?»
«Ho fatto l’esame obiettivo e preso la routine.» rispose per lui il dottore più giovane «Dal punto di vista somatico non c’è niente di anormale.»
«Obiettività neurologica?»
«Deambulazione nella norma, riflessi buoni, sensibilità conservata, sensorio integro ... tutto normale per la sua età.»
«E sul versante stocastico?»
Era quella la parolina convenzionale per chiedere di fronte ad un paziente ben orientato per quale motivo fosse stato mandato dagli strizzacervelli.
«Delirio lucido persistente, con tematiche …. curiose»
Il primario scoccò al suo allievo un’eloquente occhiata, che voleva dire: «Ho capito come sta la faccenda, quando usciamo di qui mi racconti tutto.»
Marco capì al volo, come sempre e aspettò.
«Questo come se l’è fatto?»
Vernazzini da buon vecchio clinico stava guardando la punta delle dita del signor Giuseppe e aveva scoperto un taglietto sull’indice, piccolo ma molto arrossato.
«Quella stronza… Oh, mi scusi dottore. Quella ... donnina mi ha morso.»
«L’ha morsa una donna?»
«Non era una donna. Era una di quelle lì. Cioè era come una donna, ma grande così» aggiunse indicando con pollice e medio la lunghezza di un ditale da cucito. «Piccina, ma bastarda. Mi ha fatto un male cane.»
«Potrebbe essere infetto. Diamogli un grammo di amoxicillina ogni 8 ore e fammi sapere com’è la formula leucocitaria.»
Ne aveva sentite di tutti i colori nella sua carriera e non si scomponeva certo per una donnina di due centimetri. Con consumata esperienza prese la palla al balzo, domandando:
«Come è successo?»
«Lei mi crede?»
Altro sorriso, stavolta di soddisfazione. Non erano molti i pazienti che lo domandavano: di solito erano così sicuri delle loro strampalate convinzioni da non contemplare l’idea di non essere creduti, oppure vivevano in un tale distacco dal mondo reale che la questione non aveva alcuna importanza.
Il fatto che l’avesse chiesto in ogni caso era un buon segno.
«Mi racconti la sua storia, così potrò decidere.»
«E va bene. Cj ho un pezzo di bosco in Casentino, vicino Poppi, che il Comune mi ha dato il permesso per il taglio della querceta. Non lo so se è pratico: io taglio le piante in cambio tengo la legna e prendo soldo per il lavoro.»
Vernazzini fece un educato segno di assenso comunicando con efficacia di essere interessato più alla clinica che alla manutenzione delle foreste casentinesi.
«Sì. Insomma ero lì con la motosega che tagliavo le piante e mi son fermato un momento per bere un goccio che avevo caldo. Spengo la sega e sento una musichina strana, come una festa, lontana. Siccome in quel bosco non c’è case per parecchi chilometri, lì per lì ho pensato che c’era qualcuno con una radiolina. Ma vie lì non ce sono e intorno non c’era un cristiano. Insomma me so’ incuriosito e me so messo’ ad ascoltar meglio.»
Il paziente si fermò per qualche secondo per assicurarsi che l’attenzione del medico fosse ancora concentrata su di lui, preannunciando l’arrivo della parte migliore.
«Ascolto un pochino e mi sembra che sta musichina venga dal basso, dove ci sono gli alberi da tagliare. E allora m’avvicino e quando sto proprio sul bordo della macchia vedo un sasso grosso e pieno di borraccina e mi sembrava come che la canzone veniva da lì.»
«Che canzone era? Qualcosa che aveva già sentito?»
«Macché. Ha presente quelle musiche di una volta, colla fisarmonica, i tamburelli? Come ‘na festa di paese insomma, ma più bella, proprio bella.»
Gli occhi azzurri di Giuseppe andavano qua e là per la camera, incrociando gli sguardi distaccati dei dottori e quelli curiosi degli studenti. Anziché ansioso di comunicare la propria esperienza, sembrava piuttosto spaventato e timoroso di esser preso per matto.
«Continui, la prego. Da dove veniva quella musica? L’ha scoperto?»
Il paziente annuì e prese un profondo respiro.
«Sotto il sasso, piccino che non si vedeva da un metro, c’era un buco in terra. M’accosto piano piano e mi sembra che viene da lì dentro la musichina e allora dico: sta a vedere che hanno perso una radiolina o uno di quei cosi che i ragazzi ci ascoltano la musica colle cuffie.»
«Ora, siccome cj ho una nipote di vent’anni ho pensato che se lo trovavo glielo regalavo, no? E allora mi stendo lì e guardo dentro ‘sto buco. E che me pigliasse un bene, per tutti i santi del Paradiso, che te vedo?»
A questo punto l’attenzione di tutti era davvero concentrata sul contadino e la nuova pausa fu accompagnata da un profondo silenzio.
«Non lo so mica ridire per bene, ma insomma accosto l’occhio dentro a 'sto buco in terra e da la parte di là c’era come una osteria, ma piccina, sottoterra. Era illuminata che si vedeva a giorno anche lì sotto, però era piccina, ora non lo so perché son stato poco a guardare, sarà stata una spanna di larghezza.»
«Una taverna sottoterra?» Chiese Vernazzini, ripulendo accuratamente la voce da ogni forma di scetticismo e assumendo il tono di chi si assicura di aver capito bene un numero di telefono o un nome.
«Preciso. Ma il bello è che era tutta ammobiliata a dovere, con i tavolini, il bancone, i divani, le seggiole ... tutto piccino come la casa delle bambole. Eh, ma questo non è niente!»
Il contadino fece una pausa e si schiarì la voce: non era abituato a parlare molto e gli si asciugava la bocca. Prese un po’ d’acqua dalla caraffa e bevve qualche sorso.
I medici aspettarono pazientemente che riprendesse il suo strano racconto e il primario pensò bene di ricordargli il punto a cui era giunto.
«Che cosa altro c’era di straordinario in quella taverna sottoterra?»
«Eh, doveva vederle come le ho viste io. Saranno state una dozzina, sedute ai tavoli, un paio al bancone. Mi ricordo che c’erano anche una cameriera e due che suonavano quella strana musichina che sentivo da prima. Tutte piccine come un grillo, non di più e bionde.»
«Erano donne?»
«Sembravano donnine, con la testa, le braccia e le gambe e il corpicino come le donne, ma piccine. Tutte con un vestitino corto come le ragazze d’estate, ora non lo so, perché le ho guardate nemmeno un minuto.»
«Poi che è successo?»
«Prima ero stupito e non ho fatto niente, poi siccome agli occhi non ci credevo e alle orecchie nemmeno, ho pensato di toccare con mano. E allora ho infilato un dito dentro al buco da dove guardavo ed è venuto giù il mondo. La musica ha smesso e le donnine hanno cominciato a urlare come matte. Sentivo un gran tramestio di tavoli e cocci per terra e all’improvviso me son sentito mordere il dito come se m’avesse preso un topo.»
«Quindi è così che si è ferito.»
«Sì. Ho levato la mano, facendo cascare il tetto della taverna e le donnine sono corse via scappando da tutte le parti. Dopo sul dito c’erano quei segni che ha visto anche lei. Un taglio piccino, ma faceva un male cane.»
Ho capito.» Vernazzini era piuttosto perplesso. Un delirio lucido poteva anche andare bene, ma quel tipo non aveva nessun segno evidente di anomalia di comportamento, né difettava nella capacità di giudizio. Decise di violare un po’ le sue stesse regole e, al contrario di quello che raccomandava sempre, pensò di criticare il delirio insieme al paziente.
«Senta signor Giuseppe, io non voglio mettere in dubbio quello che ricorda, ma è sicuro di poter escludere che sia stato davvero un topo a morderla?»
«E tutto il resto me lo so' sognato eh?»
«Non dico questo. Ma chiunque, passando tutto il giorno sotto a lavorare sotto il sole, anche se è perfettamente normale