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Mia madre mi ha abortita quando avevo 56 anni
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Mia madre mi ha abortita quando avevo 56 anni
E-book183 pagine3 ore

Mia madre mi ha abortita quando avevo 56 anni

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Info su questo ebook

“Te l’ho già detto che eri un impiccio, vero? Sì, lo so, te l’ho già detto ma mi fa bene ripetertelo e mi piace anche e te lo ripeterò ancora per tutte quelle volte che, in questi cinquantasei anni, avrei voluto urlartelo addosso ma poi non l’ho fatto. Eri un impiccio. Eri un impiccio. Eri un impiccio. Un impiccio che mi ha rovinato la vita.”
Così Maria Luisa Molo, Isa per i famigliari, si rivolge alla figlia che si trova in ospedale in stato di coma. Isa Molo ritiene che la figlia, Ella Rizzi, le abbia rubato la giovinezza e tutto quanto lei si aspettava dalla vita. Donna ambiziosa e vanesia, disposta a tutto pur di evadere dal paese del sud in cui è nata, accetta di sposare un uomo di quindici anni più vecchio che le prospetta le bellezze e le opportunità della Milano del secondo dopoguerra. Ma accade l’imprevisto: rimane incinta durante il viaggio di nozze.
La nuova condizione di madre a soli 24 anni fa saltare tutti i suoi piani e scombussola la sua vita. A nulla serviranno i suoi primitivi e ingenui tentativi di impedire la nascita della figlia. Dal momento del parto Maria Luisa ingaggia contro la figlia una terribile lotta sotterranea, silenziosa e inconfessata fatta di soprusi e vessazioni psicologiche che durerà per tutta la vita. Isa Molo abortì sua figlia in silenzio tutti i giorni per 56 anni fino al momento della confessione che per lei sarà anche il momento della liberazione.
A raccontare e commentare la storia delle due donne sono due voci fuori campo: il medico che l’ha udita in presa diretta e un collega a cui la riporta. Uno sguardo esterno obliquo, da dietro il paravento, che entra nelle più enigmatiche e disturbanti profondità della signora Molo, un personaggio che scomoda le parti più oscure nascoste in ognuno di noi – rabbia, risentimento, rimozione, velleità, invidia, frustrazione – e nel coraggio di Ella, una “ragazza intrepida” piena di forza interiore e speranza.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2018
ISBN9788861557338
Mia madre mi ha abortita quando avevo 56 anni

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    Mia madre mi ha abortita quando avevo 56 anni - Giorgio PCA Mameli

    Giorgio P.C.A. Mameli

    Mia madre mi ha abortita

    quando avevo 56 anni

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-733-8

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Queste pagine sono dedicate alle

    bambine e ai bambini intrepidi.

    Quelle bambine e quei bambini che hanno scelto di

    voler venire al mondo

    anche se sapevano di non essere stati cercati

    e che con ogni probabilità

    non sarebbero stati neppure accettati.

    Bambine e bambini che hanno preso la sfida

    di tramutare l’odio in amore.

    Queste bambine e questi bambini

    spesso si sono impegnati per recuperare

    l’amore che gli era negato,

    alcune volte ci sono riusciti

    a prezzo di enormi sofferenze,

    altre volte invece non ce l’hanno fatta.

    L’odio dei loro genitori era troppo grande

    per poter essere compensato.

    Tutti comunque sapevano e hanno accettato la sfida.

    Questo significa essere intrepidi.

    «Ma non ci posso credere.»

    «Eppure ti assicuro che è andata proprio come ti ho detto.»

    «Avrai capito male. O magari hai frainteso.»

    «Ho capito benissimo, ti dico. È andata proprio così.»

    «Ma ti rendi conto di quello che mi hai detto?»

    «Certo che me ne rendo conto. Ero lì a meno di due metri di distanza e lei parlava in modo chiarissimo. E non si può dire che il paravento fosse di grande ostacolo.»

    «Più ci penso e più sono sconvolto e mi ripeto che non può essere vero. È talmente innaturale che non me ne capacito proprio.»

    «Pensa a come stavo io, dietro quel paravento. Fermo, immobile. Ci mancava poco che smettessi pure di respirare. Quelle parole mi colpivano così duramente che ero groggy come un pugile dopo aver preso una gragnola di colpi. Ero stordito.»

    «Ma perché non sei intervenuto?»

    «E cosa ci potevo fare? Avrebbe smesso di parlare. Ma la questione, con il senno di poi, e ti assicuro che non mi sono messo a fare questi ragionamenti mentre me ne stavo lì dietro, è che questa storia, prima o poi, sarebbe esplosa lo stesso. E allora tanto valeva lasciare che la cosa facesse il suo corso. E poi ho pensato, questo sì l’ho pensato, che forse più del contenuto per la paziente forse importante riconoscere la voce. E il tono all’inizio era tranquillo. Magari un po’ sognante.»

    «Ma che diceva?»

    «All’inizio parlava della sua vita.»

    «Della vita di chi? Della paziente o della madre?»

    «Della madre ti ho detto. Non era chiaro? Era la madre che parlava della sua vita. Di quando era giovane.»

    «E tu dov’eri?»

    «Te l’ho appena detto. Ma sei scemo o cosa?»

    «No, è che mi sto perdendo.»

    «Che tu sia perso, e non da oggi, è un dato di fatto. Comunque, come ti ho detto, me ne stavo dietro il paravento. In quella stanza la centralina l’hanno piazzata proprio nel muro a destra del letto e, per nasconderla alla vista, ci hanno messo davanti un paravento. Io sono andato lì per un controllo dopo aver spiegato tutto alla madre. Chi se lo immaginava che questa avrebbe iniziato subito a parlare. E poi così non fece caso ai miei spostamenti.»

    «Allora ricomincia tutto da capo e raccontami bene. Non omettere nessun particolare. Mi raccomando. Devi essere preciso. Non devi dimenticarti nulla.»

    «E come vuoi che me li dimentichi, i particolari. Ho tutto stampato qui, nella testa e negli occhi. È un film ricorrente che continuo a vedere.»

    «Avanti, inizia.»

    «D’accordo. Tutto è cominciato quando, dal secondo piano, mi hanno avvisato che la paziente Rizzi usciva dalla terapia intensiva per essere portata nella sua stanza. Era in coma. Non farmacologico. Ovviamente mi sono precipitato nella stanza che le avevano assegnato per verificare che tutto fosse a posto. Contemporaneamente ho chiesto alla caposala di mandare un’infermiera per darmi una mano.»

    «Ma come mai non c’era il marito?»

    «Il marito? Il marito di chi? Ma che dici?»

    «Mi stavo chiedendo perché abbiano chiamato la madre invece di avvisare il marito.»

    «Ascolta, smettila di saltabeccare da un argomento all’altro. Altrimenti non ti racconto più nulla.»

    «Okay. Non ti interrompo più.»

    «Bravo. Ecco, fai così. Comunque non si è riusciti a contattare il marito perché era in Guatemala, chissà dove. In realtà me l’hanno detto ma non me lo ricordo. È un archeologo. Hanno potuto parlare con lui solo dopo tre giorni. Là, dov’era, hanno avuto dei problemi di connessione e altre storie riguardanti i vari collegamenti. Contento? Fortuna che da qualche parte la natura riesce a battere la tecnologia. Comunque, prima che tu me lo chieda, ti dico da subito che il marito è arrivato dopo circa una settimana. Quando la paziente si era già ripresa.»

    «Sì. Okay. Non ti interrompo più.»

    «Questo l’hai già detto. Ora fallo.»

    «Okay. Muto.»

    «Quindi, mentre mi stavo dirigendo verso la stanza s’è aperta la porta dell’ascensore e ne è uscita una signora piuttosto anziana che si guardava intorno con l’aria di cercare qualcosa. Non sembrava smarrita. Ma sì, forse un po’ lo era. Mi sono avvicinato e le ho chiesto se potevo esserle d’aiuto. E tutto è cominciato da lì. Posso fare qualcosa per lei, signora?, ho chiesto. Mi chiamo Molo – ha detto rispondendo alla mia domanda – e sto cercando la stanza dove è ricoverata Ella Meyer. Meyer è il cognome da sposata. Credo mi abbiano detto che la stanza sia la numero 15. E io di rimando: Forse lei intende la signora Rizzi? Sembrò stupita. Sì, sì, proprio lei. Ella Rizzi. Rizzi è il cognome del padre fece lei. Allora la stanza è la numero 12. Lei si guardò attorno: Ah, la numero 12 e poi mi chiese: E dove si trova? Le ho risposto indicandogliela: È alle sue spalle. La donna mi ha guardato con più attenzione, ha replicato con un altro ah poi mi ha voltato le spalle. A quel punto le ho chiesto: Lei è la madre? La donna si è fermata di colpo e lentamente si è rigirata verso di me. Quando siamo stati nuovamente di fronte mi ha guardato attraverso le due spesse lenti da miope che portava sul naso e senza proferire parola ha mosso la testa in un impercettibile segno di assenso. Glielo chiedo signora, per via delle procedure relative alla privacy le ho spiegato. In questo reparto non si può entrare se non si è parenti stretti. Di primo grado o di secondo. Mentre scorrevo la lista delle persone autorizzate e trovavo il suo nome: Maria Luisa Molo, lei mi ha risposto con un filo di voce: Sono la madre e ho avuto netta la sensazione che si ingobbisse ancora di più. Sì, perché non te l’ho descritta: la signora è un po’ gobba. Alta all’incirca un metro e sessanta, anzi, forse un po’ meno, pareva ancora più piccola perché teneva le spalle curve. La schiena saliva più o meno dritta fino all’altezza delle scapole e poi di lì piegava di circa quarantacinque gradi. Erano le spalle a essere gobbe, non propriamente la schiena. I capelli, corti con un taglio simil paggetto, erano tinti di un castano tendente al rossiccio ma dove aveva la scriminatura già si notavano i segni della ricrescita. La faccia piatta, il naso piccolo, leggermente rincagnato, e la bocca, un po’ troppo larga i cui angoli cadevano disordinati verso il basso, era semiaperta.»

    «Accidenti. L’hai proprio guardata bene.»

    «Sì. L’ho guardata proprio bene.»

    «Beh, che hai da sorridere?»

    «Sorrido perché mi è venuto in mente che mentre la stavo guardando pensai che il suo viso assomigliava straordinariamente al muso di un pechinese. Sai? Il cane. O forse no, di un carlino. Insomma di uno di quei cagnetti piccoli con il muso rincagnato che abbaiano in continuazione. Non sapevo scegliere. Forse è questo che ha attirato di più la mia attenzione. Forse un presentimento.»

    «Un presentimento?»

    «Sì, anche per com’era vestita.»

    «Perché, come era vestita?»

    «Di marrone.»

    «Di marrone?»

    «Sì, il marrone era il colore dominante. Anzi unico. Tutto quello che indossava era marrone: scarpe marroni, calze marroni, la gonna che appena si intravvedeva, disegno pied de poule come la giacca, era marrone. Un tailleur: marrone. Poi aveva un mantello di lana, con il quale si era intabarrata, anch’esso marrone. Anche la camicia che mi pareva di seta era di un color crema, molto ma molto carico. Insomma tutto questo accrocchio di marrone mi ha dato una leggera sensazione di sgradevolezza. Niente di concreto. Solo una sensazione, di quelle che però ti rimangono appiccicate nel cervello. Comunque non è questo il punto. L’ho accompagnata fino alla camera che era in penombra, illuminata soltanto dalla luce al neon che proveniva dal corridoio e dalla lampada della notte. Ho acceso la luce centrale ma lei quasi senza guardarmi ha detto: Preferirei che lasciasse le luci com’erano prima. Allora io ho pigiato l’interruttore e la luce centrale si è spenta. Poi le ho indicato la poltrona e le ho chiesto se volesse qualcosa da bere. Mentre si sedeva biascicò uno stanco no. E poi, forse per cortesia, aggiunse, più compitamente, che non voleva nulla. In quel mentre arrivò la Tengoni, Teresa, e quindi ci siamo messi a controllare e a sistemare tutti i vari aggeggi per ricevere la paziente. Mentre armeggiavamo intorno a quella bella massa di strumenti, la signora se ne stava seduta nella poltrona con lo sguardo un po’ perso e non ci guardava. E taceva. Anche questo è stato un atteggiamento che mi ha colpito. Di solito i parenti dei pazienti non ti tolgono gli occhi di dosso e seguono passo passo tutto quello che fai e ti senti i loro occhi puntati, anzi no, conficcati, nella schiena. Questa è una situazione strana perché all’inizio non parlano e hai la chiarissima sensazione che ti controllino. Ci sono però anche i curiosi ciarlieri. Quelli che si informano e ti chiedo a cosa serve questo, a che serve quell’altro. Molto spesso, anzi sempre, non ne capiscono un’acca ma per loro è un modo di mascherare la tensione. E, in fondo, anche di tranquillizzarsi. Una sorta di effetto placebo. Comunque tutti, alla fine, non riescono a resistere e fanno domande su come potrebbe procedere la degenza e se si ha esperienza di casi analoghi. E non ti mollano un attimo. Ti chiedono: Lei dottore cosa ne pensa? Ci sono possibilità di miglioramento? E anche: Secondo lei tornerà normale? Come se esistesse la normalità in questo mondo. Te lo chiedono con gli occhi che luccicano e talvolta non riescono a trattenere le lacrime e se ne scappano da qualche parte timidi e imbarazzati. Invece lei no. La signora Molo se ne stava lì, seduta, senza manifestare alcuna curiosità per i miei movimenti e neppure aveva voglia di fare domande. Nessuna emozione. Pareva fosse nella sala d’attesa della stazione centrale con l’aggravante, a mio giudizio, di non essere neppure interessata agli orari di partenza dei treni. In un primo tempo ho pensato che se ne stesse sulle sue perché troppo vergognosa dei suoi sentimenti e che fosse il dolore a renderla così chiusa. E anche fredda. Comunque, mi sono concentrato su quello che dovevo fare e per quel tempo mi sono completamente dimenticato di lei. Quando finalmente abbiamo finito di sistemare le nostre cose ho chiesto a Terry di fare un salto in terapia intensiva per capire che fine avesse fatto la nostra paziente. Mi avevano chiamato in tutta fretta più di un’ora prima e ancora non l’avevano fatta salire. Feci un paio di puntate in corridoio, più per ingannare il tempo che per reale necessità, ma niente. Proprio di mandarla su pareva che non ne avessero l’intenzione. Allora mi decisi a parlare alla signora Molo.»

    «E quindi ti sei presentato?»

    «Certo che sì. Con tanto di titolo, specializzazione e anzianità di servizio. Per i parenti del paziente sapere che lavori in quell’ospedale da molto tempo è un ulteriore elemento di rassicurazione. E pensano, questo me l’hanno confessato in tanti, di non essere finiti nelle mani di un pivello o di un cagnaccio invecchiato. Se l’hanno tenuto tanti anni vuol dire che è bravo ho sentito dire qualche volta. Ognuno si dà le giustificazioni che crede. Come sempre.»

    «Non divagare. Vai avanti.»

    «Sì, hai ragione. Accostai una sedia alla sua poltrona e cercai di intavolare il discorso che più mi premeva: il ruolo che lei, la signora Molo, avrebbe potuto avere nella partita che il coma aveva intavolato con sua figlia. Come sta signora? cominciai con il chiederle. Bene fu la laconica risposta. Fra un po’ porteranno qui sua figlia. Mi rispose con un semplice mmm, che mi imbarazzò moltissimo. Non capivo cosa intendesse, ma pensai che forse neppure lei si stesse effettivamente rendendo conto della situazione. Forse anche lei, mi dissi, è scombussolata da questo fatto traumatico: avere la figlia in coma crea stati d’animo molto diversi, quasi sempre eccessivi. Quindi decisi che era necessario le parlassi chiaramente. Vede signora Maria Luisa attaccai ma lei mi interruppe subito. Non mi chiami Maria Luisa. Nessuno mi ha mai chiamato Maria Luisa con l’eccezione di mio padre. Tutti mi chiamano Isa. Quindi anche lei mi chiami Isa. Va bene signora Isa le risposi. Grazie mi disse e accennò a un sorriso. In questo momento signora Isa lei ha un ruolo molto, molto importante. Anzi cruciale. Fondamentale. Con la sua presenza e la sua voce può dare una scossa a sua figlia come nessun farmaco può fare. Sarà importante, anzi importantissimo che lei parli con sua figlia e le faccia sentire più che può il suono della sua voce. Questo potrebbe essere di estremo aiuto e dare il via per il risveglio dal coma. Solo con la voce? mi chiese guardandomi finalmente in viso poiché fino a quel momento aveva continuato a fissare un punto imprecisato della parete di fronte. Sì, solo con la voce le risposi e poi aggiunsi: Ovviamente il risultato non è garantito ma ormai è provato che suoni noti come le voci dei genitori o dei fratelli o di amici ma anche canzoni o addirittura rumori abituali sentiti durante il lavoro hanno aiutato parecchie persone a risvegliarsi dal coma. Non si è ancora capito se per il paziente è sufficiente udire il suono o invece debba cogliere i contenuti o forse tutte e due le cose insieme: suoni e contenuti. Ma si sta studiando. È una materia complessa sulla quale gli scienziati si stanno ancora arrabattando. Comunque il dato di fatto è che talvolta questo modo di procedere, ancorché empirico, ha funzionato. Ha funzionato ripeté la donna senza dare in alcun modo colore a questa affermazione. Monocorde, come sempre l’avevo sentita fino a quel momento. Non potei che riconfermarle quanto già le avevo detto. E se poi non funziona? mi chiese quasi di soprassalto. Sarà colpa mia? e aggiunse: Qualcuno mi potrà accusare per questo? E dire male di me? Adesso sembrava molto agitata. Tutta l’emozione che non aveva mostrato prima pareva sgorgare con lo stesso impeto con cui l’acqua fuoriesce dal buco di una tubatura. La cosa mi colpì. Allora ha del sentimento questa donna, mi dissi. No, signora Isa nessuno l’accuserà la tranquillizzai. Anzi saranno tutti ammirati della sua forza d’animo e del suo coraggio. Il suo gesto potrà suscitare solo ammirazione. Forse avevo trovato il modo per strapparla da quella sorta di apatia che mi pareva patisse e caricarla per il compito che avrebbe dovuto svolgere in seguito. M’era capitato a volte di vedere padri e madri uscirsene quasi pazzi dopo queste sedute con i figli in coma. Mi sono reso conto con l’esperienza di quanto sia pesante e per taluni addirittura devastante, sia sotto l’aspetto emotivo

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