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Le lacrime di San Lorenzo
Le lacrime di San Lorenzo
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E-book220 pagine3 ore

Le lacrime di San Lorenzo

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Info su questo ebook

Lucia è una donna intelligente, colta e razionale. Siciliana di origine, si sposta a studiare matematica in una università del nord d’Italia. Fin da bambina ha sempre voluto insegnare e questa passione la persegue, nonostante il suo brillante curriculum accademico e le lusinghiere proposte di lavoro. Al nord conosce l’amicizia, e l’amore intrecciato a delusioni e gioie. Gli inganni di un matrimonio sbagliato e la mancanza dell’affetto paterno, la portano ad incontrare Aldo, uno psicoanalista che, con don Vittorio, salesiano, suo insegnante liceale, le saranno a fianco nelle fatiche e nella ricerca della felicità.
 
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2017
ISBN9788822892874
Le lacrime di San Lorenzo

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    Le lacrime di San Lorenzo - Giovanni Torri

    Giovanni Torri

    Le lacrime di San Lorenzo

    UUID: e0d2f7f6-149c-11e7-b33b-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    INDICE

    CAPITOLO PRIMO

    CAPITOLO SECONDO

    CAPITOLO TERZO

    CAPITOLO QUARTO

    CAPITOLO QUINTO

    CAPITOLO SESTO

    CAPITOLO SETTIMO

    CAPITOLO OTTAVO

    CAPITOLO NONO

    CAPITOLO DECIMO

    CAPITOLO UNDICESIMO

    CAPITOLO DODICESIMO

    CAPITOLO TREDICESIMO

    CAPITOLO QUATTORDICESIMO

    Non sono mai io che decido il mio desiderio,

    ma è il desiderio che decide di me,

    che mi ustiona mi sconvolge, mi porta via.

    (Massimo Recalcati)    

    C’è una crepa in ogni cosa

    ed è  lì che entra la luce.

    (Leonard Cohen)                                                                                                                                                                                                 

    In copertina  

    Bershawes (Perseus), come si vede in cielo.

    Libro delle immagini delle stelle fisse

    (Abd al-Rahman al-Sufi)

    Manoscritto arabo XV secolo

    Parigi, Bibbliotéque Nationale

    CAPITOLO PRIMO

    Non avrei mai pensato che mi servisse un consulto psicologico. La decisione l'avevo presa un giorno, mentre mi confidavo con la mia amica Giorgia. A dire il vero era stata lei a suggerirmi uno di quegli strizzacervelli.  

    - Ho saputo che è un professionista serio.  

    Da un po’ di tempo la notte dormivo poco e i sogni si rincorrevano. Non proprio incubi, ma sogni che restavano confusi nella memoria e la mattina, al risveglio, spesso riemergevano a spezzoni e questo, per buona parte della giornata, non mi dava pace, cercando di annodarli in una sequenza che avesse un senso. Ma fu quell’attacco di panico alcune notti fa, che mi fece decidere di andare da quel professionista.       

    Quella sera ero andata a letto abbastanza tardi. Dopo cena avevo da poco terminato la correzione delle verifiche dei miei studenti, che soggiornavano nella borsa già da alcuni giorni. Ero molto stanca. Come sempre, prima di coricarmi, avevo bevuto una tisana rilassante. Fu nel primo sonno che mi svegliai di soprassalto. Una strana e violenta paura di non so bene cosa, mi fece rizzare sul letto. Accesi subito la luce e mi ritrovai sommersa in un senso di solitudine e di angoscia che non avevo mai provato prima. Sentivo il corpo sudato da tutte le parti e avvertivo il cuore palpitare: quasi non riuscivo a contarne i battiti. Mi mancava il respiro e pareva che soffocassi. Intense vampate di calore, una sensazione di nausea e un forte dolore al petto, mi davano la netta percezione che fossi in procinto di morire. Pensai di chiamare il 112 ma, come colta da una vergogna inspiegabile, mi distesi, aspettando che qualcosa succedesse.  

    Stetti coricata per molti minuti e, lentamente, quello stato di deprivazione lasciò il posto a una quasi normalità. Il cuore riprese il suo ritmo regolare. La sudorazione svanì e, come se riprendessi conoscenza, l’intero corpo, fino a quel momento con tutti i nervi tesi, si rilassò. Spossata, riuscii a riaddormentarmi.     

    La mattina non feci cenno a nessuno di quanto accaduto la notte. Forse ne avrei parlato con il mio medico, anche se, la cosa mi metteva a disagio.

    Arrivai a scuola che l’inizio delle lezioni era passato da alcuni minuti. I ragazzi erano già tutti in classe. Avevo preparato degli esercizi su argomenti trattati giorni prima. Qualcosa di algebra e di geometria analitica. Insegnavo in un Istituto Tecnico di provincia da due anni e, dopo la separazione da mio marito, quel lavoro occupava gran parte della mia vita.           

    Lucia era una bella donna. Non magra, anzi il suo corpo aveva la forma disposta delle donne meridionali. Ma era aggraziata e, se negli anni aveva cercato di perdere chili, più per corrispondere alle mode del momento o agli sguardi sibillini delle amiche, alla fine aveva deciso di restare com’era. Aveva però un bel viso chiaro, con due occhi neri d’inchiostro e dei capelli lunghi e mossi che aveva sempre voluto tenere così.     

    Era nata in una città della Sicilia. Famiglia borghese. Il padre medico in quel luogo e, la madre, insegnante di lettere in un liceo di un quartiere poco distante da casa. Aveva un fratello maggiore che come il padre aveva voluto seguire la professione medica.       

    Lucia aveva frequentato le scuole più blasonate della città. Solo la primaria pubblica, ma il resto, sino alla maturità, scuole dei salesiani. Aveva una spiccata attitudine per le scienze. Fin da giovanissima era stata attratta da queste discipline e alle medie, aveva anche vinto il primo premio in un concorso di matematica. Per questo pensava di iscriversi al liceo scientifico, ma le pressioni del padre e soprattutto della madre che, diceva: - Gli studi classici avevano sempre distinto la famiglia - la convinsero a proseguire con il ginnasio.     

    Questa sua propensione per il pensiero scientifico, fin da giovane l’aveva abituata a fare domande e cercare delle risposte. Era curiosa e questa sua curiosità la metteva dappertutto. Aveva tenuto per alcuni anni una collezione d'insetti, i più svariati, apprendendo, su un vecchio libro del nonno, la tecnica per conservarli. Li teneva tutti infilzati in una teca di legno, protetta da un vetro. Disse che in più occasioni la madre le aveva chiesto di disfarsene ma lei, cocciuta, continuava imperterrita e, quando la teca l’ebbe riempita, proseguì questo suo strano interesse sostituendo gli insetti più comuni con esemplari particolari, che trovava sulle colline circostanti, quando la domenica usciva per dei picnic con la famiglia.     

    Per il suo compleanno si era fatta regalare un piccolo microscopio stereoscopico e, lentamente, la passione per la conservazione degli insetti fu sostituita dalla loro osservazione. Quando guardava attraverso quello strumento gli artigli o le antenne dei coleotteri o gli stami e i pistilli zeppi di polline dei fiori, si riempiva di stupore e subito prendeva carta, matita e pastelli, cercando di disegnare quelle particolari forme, per poi mostrarle alle amiche che esaminavano con diffidenza quegli strani scarabocchi. Il microscopio aveva acuito il suo interesse per la natura e perdeva interi pomeriggi a traguardare attraverso quel piccolo tubo.     

    Di queste sue passioni infantili me ne aveva accennato in una delle prime sedute.         

    Il medico mi aveva prescritto alcuni esami e delle pillole che, secondo lui, mi avrebbero aiutato a prender sonno. Gli avevo riferito che da un po’ di tempo dormivo male e spesso, di notte, mi svegliavo e riuscivo a riaddormentarmi solo dopo aver cambiato mille posizioni nel letto. Ma non avevo accennato all’attacco di panico, nonostante le sue domande che cercavano di capire se avessi qualche problema di relazione o difficoltà sul lavoro. Le mie risposte, le poche, erano state evasive e lui non volle proseguire oltre. Solo a Giorgia avevo riferito qualcosa di più.

    Ci conoscevamo fin dall’università che avevamo frequentato assieme qui al nord. Lei era di queste parti e si era laureata quasi nel mio stesso periodo in ingegneria. Dopo un girovagare tra studi e cantieri, aveva trovato un'occupazione stabile, vincendo un concorso in una cittadina non molto distante dal luogo dove abitava con la sua compagna. Io, per studiare, mi ero trasferita dalla Sicilia. L’università me l’aveva suggerita un conoscente di famiglia, noto nell’ambiente scientifico cittadino e i miei non avevano fatto nessuna opposizione, perché per loro, studiare al nord, era un segno di prestigio.     

    A lei avevo raccontato dell’attacco di panico e di come da un po’ di tempo tutto era diventato più difficile, dopo che con Mario avevo chiuso.

    - Lucia - mi aveva detto - Hai bisogno di parlare con qualcuno che non ti conosce, magari sarebbe una buona idea andare da uno psichiatra o da uno psicologo.     

    Mi aveva poi riferito che un’amica della sua compagna, che anche lei conosceva, da qualche mese frequentava lo studio di un certo dr Ferraris, che riceveva in uno stabile signorile a poche decine di metri dall’università. Non sapeva esattamente chi fosse né a quale scuola appartenesse, ma l’amica della compagna, che come me soffriva di attacchi di panico e d’ansia, era più che soddisfatta e, aveva detto, che da qualche tempo si sentiva meglio.         

    Lucia nei confronti di alcune discipline, come la mia, aveva sempre mantenuto un certo scetticismo. Non le considerava affatto delle scienze. Lei, abituata al calcolo e alle soluzioni esatte e indiscutibili delle sue equazioni, ricordò che si era messa a sorridere quando, con una riforma scolastica, avevano appiccicato l’appellativo di scienza a insegnamenti che tutto avevano all’infuori del rigore scientifico. Scienze dell’educazione, Scienze della comunicazione, Scienze del servizio sociale, Scienze e tecniche psicologiche.     

    Aveva pensato che il Ministero e i rettorati di alcune università, con quel rinforzo, avevano escogitato un modo furbetto per attrarre un maggior numero di studenti in quelle facoltà, dando a quegli studi maggiore peso e legittimazione. Ma in realtà, diceva quasi sconsolata, li illudevano quando, con il titolo in tasca, vagando da un posto all’altro in cerca di un'occupazione, avrebbero incontrato solo lavori mal pagati, che poco o niente avevano a che fare con le loro competenze. Tuttavia mi volle chiarire che non pensava fossero studi di serie B ma quelle materie dovevano stare al loro posto, senza invadere, con improbabili algoritmi matematici, spazi che non erano di loro competenza. Il lavoro e la matematica per Lucia erano diventati le parti più espressive della sua vita e difendeva la fatica dei suoi studi anche con queste invettive.  

    Giorgia mi era amica da molto tempo e in lei avevo una grande fiducia. Mi aveva aiutato non poco, prima e dopo la separazione da mio marito, e di questo le ero sempre stata grata. Aveva conosciuto la sua compagna durante l’università. Anita, una ragazza molto femminile. Aveva abiti curati e una capigliatura bionda e liscia, sempre in ordine, a differenza di Giorgia, un poco disattenta al suo aspetto, se pur nell’insieme, quasi trasandato del suo vestire, si rintracciava uno stile particolare che la faceva sembrare più giovane di quello che in realtà fosse.     

    Abitavano in un piccolo appartamento di periferia. Lo avevano arredato con semplicità. Era accogliente, nonostante parte degli spazi fossero invasi da cianfrusaglie e carte del loro lavoro.     

    Anita era occupata come architetto in uno studio affermato del centro città. Si lamentava spesso dei colleghi maschi, sempre inclini a prendere le parti migliori delle progettazioni, relegando lei a ruoli secondari, nonostante la sua tesi, che aveva discusso con un luminare, fosse stata oggetto di menzione su una rivista specializzata del settore.     

    Erano una coppia felice, anche se, nel cuore di Anita, per un certo periodo, quella felicità aveva lasciato il posto alla malinconia, distaccandosi dalla donna che amava.

    Conoscevano parecchie persone ed entrambe avevano gusti simili. Frequentavano spesso sale cinematografiche e non perdevano quasi mai un concerto che ne valesse la pena.

    La loro casa, che sembrava disordinata come Giorgia, era piena di libri, impilati a mucchietti qua e là.

    La piccola libreria, fatta con mensole impiantate nel muro, si era riempita subito con i testi che avevano a che fare con il lavoro. Io ero uscita spesso con loro, quando stavo ancora con Mario, ma da quando ero rimasta sola, se la compagnia era troppo numerosa, preferivo restarmene a casa.

    Ogni sera, dopo quella notte da incubo, prima di infilarmi sotto le lenzuola, avvertivo una strana apprensione che a volte mi stringeva la gola. Avevo il terrore che quel fatto riaccadesse e questo mi teneva sveglia per alcune ore fin quando, sfinita, riuscivo ad addormentarmi. Soprattutto per questa ragione, per questa continua paura, avevo deciso di sottopormi a qualche seduta con uno strizzacervelli e, non conoscendo nessuno, mi ero fidata di quel dr Ferraris, che mi aveva suggerito Giorgia.        

    Avevo telefonato nel tardo pomeriggio. Dopo le lezioni ero riuscita a fare anche un salto al supermercato per un po’ di spesa. Poca roba, il giusto e il necessario. Mi ero abituata a cenare sola e, dopo i primi tempi, nei quali preparavo sempre qualcosa di sbrigativo, avevo imparato a cucinare meglio. Quando avevo voglia, o invitavo Giorgia e la sua compagna, mi sbizzarrivo anche in ricette elaborate.       

    Mi rispose una donna, certo la segretaria, che fissò un appuntamento con il dr Ferraris per le diciotto del venerdì della settimana entrante.       

    Raggiungevo la scuola con un'auto che da anni volevo cambiare. Un vecchio modello Renault. L’avevo da quando mi ero trasferita per l’università. Ma rimandavo sempre la sostituzione con un'auto più moderna, perché a quella macchina c'ero affezionata e non mi aveva mai lasciato per strada.     

    L’insegnamento mi piaceva, anche se, tutte quelle complesse teorie matematiche, che avevo studiato all’università, restavano sigillate nella mia mente. Per quegli studenti era sufficiente conoscere quello che si apprende in un buon liceo scientifico.     

    Erano classi poco turbolente di un Istituto Tecnico per periti industriali. Tutti maschi. Insegnavo matematica, che portavo fino al quinto anno e gli ultimi aggiornamenti dei programmi ministeriali, con la presenza sempre più importante dell’informatica, avevano dato maggior peso alla materia del mio insegnamento.         

    Mi raccontava ogni cosa nei dettagli, era minuziosa, capillare, quasi geometrica. Io ascoltavo, ma a volte quella sua maniaca pignoleria nelle descrizioni, non mi dava il tempo per annotare le parti più significative. Ma era proprio questo suo modo particolare di narrare che m'interessava, perché alla fine avrebbe parlato per lei il suo inconscio.     

    Si era laureata a pieni voti. Laurea magistrale. Un suo docente dell’università l’aveva incoraggiata a proseguire con il dottorato perché aveva la stoffa dell’insegnante e della ricercatrice e, visto il suo profitto più che ammirevole, aveva ottime possibilità di restare nel suo dipartimento. Ma Lucia aveva conosciuto Mario e se ne era subito innamorata.  

    Mi stavo ormai per laureare. L’ultimo esame, non difficile, poi la tesi. L'avevo già completata con l’avallo del docente che, per quasi sei mesi, mi aveva aiutato e assistita. Mi sentivo spossata per quegli studi difficili e affascinanti. Mi dicevano che avrei dovuto proseguire sino al dottorato e quel professore stava facendo di tutto per convincermi. Come mio padre, che mi riempiva di telefonate quasi minacciose.

    - Con tutti i soldi che abbiamo speso per farti studiare al nord e i costi dell’appartamento.     

    E mia madre che diceva, quando parlava di me con i loro amici, che ero un fenomeno della scienza.

    - Un talento innato!     

    Ma io avevo conosciuto Mario e mi ero innamorata. Volevo andare a vivere con lui. Niente mi tratteneva e certamente proseguire gli studi era ormai un’idea lontana nella mia mente.

    L’avevo incontrato un pomeriggio accompagnando Giorgia a un Centro sportivo. Ancora studiavo. Era un Centro ben organizzato, frequentato in prevalenza da giovani benestanti, che quel posto lo avevano scelto come una seconda casa. Era ben attrezzato. Una piscina, una grande palestra e due campi da tennis. Giorgia non veniva spesso, ma quando avanzava un po’ di tempo, si armava della sua sacca, con costume e tutto il resto sempre pronto e in quella piscina ci restava delle ore, nuotando avanti e indietro per decine di vasche.     

    Lei nuotava molto bene. Da giovane con suo padre aveva imparato tutti gli stili. Io restavo sulla gradinata a osservarla, portandomi qualcosa da leggere. Anita, quando la accompagnava, restava lì con me. Lei non nuotava e, come me, con gli sport aveva poco a che fare, come con il ballo, che impegnava Giorgia più di una sera al mese in qualche discoteca alla moda.

    Lo notai subito. Era in mezzo ad un gruppetto di coetanei. Era il più alto. Stavano sul bordo vasca, non molto distanti. Lo osservai a lungo, mentre Giorgia continuava vasca dopo vasca.     

    Aveva due spalle possenti, un fisico atletico, corpo levigato, gambe lunghe e polpacci torniti. Plastico e marmoreo al contempo, che pareva il David di Michelangelo. Parlava muovendo le braccia, alte sopra tutti gli altri, che lo ascoltavano come a una lezione. Aveva capelli biondi e, pur ancora bagnati, erano tutti al loro posto. La sua voce la potevo sentire distintamente nonostante le grida e il frastuono della piscina.     

    Era una voce esile che, se non l’avessi avuto davanti agli occhi, non sarei stata capace di attribuire a un uomo. Fui sorpresa dal suo sguardo che trattenne su di me, mentre continuava a parlare.

    Ritornai a casa dopo aver accompagnato Giorgia. Era tardi e declinai il suo invito per cenare assieme. Stanca com’ero, avevo deciso di coricarmi presto.

    Lo incontrai di nuovo. Fu lui a venirmi a cercare su quella gradinata. Era ormai sera. Giorgia stava negli spogliatoi e la aspettavo, quando si presentò dritto davanti a me. Il David.

    - Ciao.     

    Disse che mi aveva notato quel pomeriggio e che sperava di potermi incontrare di nuovo, per questo era ritornato in piscina quasi tutti i giorni. Parlava fissandomi. Io guardavo i suoi occhi azzurri, come il costume succinto che indossava. Restai sorpresa da quel suo modo di fare disinvolto e devo confessare

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