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Al ritmo dell'acqua che scorre
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Al ritmo dell'acqua che scorre
E-book202 pagine2 ore

Al ritmo dell'acqua che scorre

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Info su questo ebook

Sedici racconti, altrettante finestre si aprono sull’infanzia e l’adolescenza di un giovane che cresce lungo le rive del/della Piave (ora maschile, ora femminile, a seconda delle situazioni), fra le persistenti locali tradizioni antiche e i cambiamenti tumultuosi che segnano gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Piccole storie s’intrecciano con la grande Storia e riprendono vita attraverso gli occhi e la voce narrante del giovane protagonista, seguono il suo percorso di crescita, scandito dalla presenza costante del fiume con le sue rive, gli argini, le grave: un fluire che costituisce la cornice, il filo conduttore delle storie raccontate; un fluire che allude, accompagna, conduce al mare aperto della vita, segnandone la cadenza: “al ritmo dell’acqua che scorre”, appunto.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2020
ISBN9788866603498
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    Anteprima del libro

    Al ritmo dell'acqua che scorre - Antonio Bincoletto

    PREFAZIONE

    VIVA PIAVE

    Viva qui non è interiezione bensì aggettivo. Sì, perché Piave è un nome femminile, reso maschio dalla poesia Cadore di Giosuè Carducci prima, dalla Leggenda del Piave di E.A. Mario/Giovanni Ermete Gaeta poi, ma nato femmina, come i nomi di altri fiumi poi maschilizzati (Brenta, per esempio). Noi da bambini sentivamo ancora pronunciare il nome proprio Piave al femminile, e lo si usava pure come nome comune, per indicare ogni corso d’acqua che quindi, comunque si chiamasse, veniva sempre declinato al femminile ("’na piave stava per un fiume, Tagliamento, Livenza, Adige, diventavano altrettante piave; il Po era ’na piave granda"). La Piave era ancora piena di vita quando, bambino e adolescente, ne percorrevo la grava, le rive, l’argine nelle diverse stagioni: uccelli, pesci, insetti, cani e gatti domestici o inselvatichiti, bestie varie, piante, erbe, fiori, uomini e donne, giovani e vecchi, contadini, raccoglitori, pescatori, specialmente bambini a frotte popolavano gli spazi vicini al corso del fiume. La generazione del "baby boom infatti, dopo la fine della guerra e la ricostruzione, animava le sacre sponde. Certo, da tempo si era interrotto il flusso dei burchi verso il mare. La Società ghiaia aveva chiuso e con essa si era interrotto lo storico andirivieni di barconi carichi di ghiaia, sassi e rocce diretti a Venezia. Prima ancora, di qua passava il grande traffico di zattere piene del legname che scendeva dai monti ed era destinato a Venezia (alle Zattere", appunto), per le costruzioni e per le navi. Il passato da queste parti doveva aver visto un gran pullulare di donne, uomini e animali: le une a convegno per lavare i panni al fiume, negli appositi spazi (ampon si chiamavano queste lavanderie a cielo aperto, nel vecchio dialetto noventano), cantando nenie e filastrocche del paese; gli altri intenti a trainare i burchi con muli e cavalli lungo i tratturi che costeggiavano le rive, o ad assistere gli zatteroni in transito. E se torniamo indietro nel tempo, possiamo immaginare pure barche romane passare di qui e giungere al punto d’approdo, dove oggi c’è la golena, per condurre domines e matrone alle loro ville. Cinquant’anni fa i vecchi raccontavano ancora quel che qui era accaduto dopo Caporetto: le evacuazioni, l’abbattimento del campanile, l’occupazione austriaca, i combattimenti, la distruzione quasi totale del centro, la resistenza sulla sponda opposta, le incursioni da una parte e dall’altra, le acque che si tingevano di rosso, e poi la riscossa italiana e la vittoria finale. Noventa durante la Grande guerra era stata rasa al suolo: valeva la pena ricostruirla? Gli abitanti dissero di sì, e si diedero da fare per rimanere nel posto degli avi. Le ferite si rimarginavano, la Piave scorreva tra gli argini, le nuove generazioni crescevano.

    Al tempo della mia infanzia la grava era diventata piuttosto selvatica, luogo d’elezione per passeggiate solitarie e per incontri appartati di coppiette; di lì passavano ogni tanto un pescatore, un cercatore d’erbe o di funghi, un bimbo esploratore di relitti o di nidi, un’anziana raccoglitrice di rami secchi, buoni per accendere la stufa; ma bande di ragazzi continuavano a farne luogo di gioco e, di quando in quando, campo di battaglia. La vita continuava a pullulare sull’argine e sulla Piave e lì, come era avvenuto nel passato, si formavano le nuove generazioni.

    Il fluire di un fiume contribuisce a creare la psiche di chi ci vive, trasmette un senso di dinamicità e di continuità, immette nella vita quotidiana l’inconscia percezione dello scorrere, l’idea di qualcosa che viene prima e continua dopo; induce anche l’istinto del confine, del di qua e di là.

    Il fiume è un po’ maschio e un po’ femmina. Al tempo della mia infanzia era ermafrodita, però più femmina che maschio, perché ancora portava in grembo e allevava tanta vita.

    Luogo di giochi, di avventure, di riti millenari; memoria permanente di storie antiche e recenti. Di esse, senza rendersene conto, si nutrivano da sempre le genti che vi crescevano.

    Ho voluto dedicare alla Piave femmina questi piccoli racconti. La casa dell’infanzia, ai piedi dell’argine, non c’è più. È stata divorata anni fa da un inaspettato, maledetto incendio. Lì ero nato, lì avevo trascorso i primi vent’anni della mia vita. La casa, il cortile, la strada, il rione, la campagna circostante, l’argine, la grava e il fiume, assieme alla gente che li animava, sono stati per me gli spazi e l’habitat originari, scomparsi nel presente ma indelebilmente impressi nella memoria. Mi piacerebbe riuscire a restituire a chi legge almeno un sentore di quel mondo. In una dimensione personale, certo, poiché filtrata da pensieri ed esperienze individuali, oltretutto inevitabilmente alterati dal velo del tempo passato; ma anche collettiva, perché so di aver respirato l’aria di una comunità antica, di aver partecipato a consuetudini ancestrali, il cui profumo dentro di noi non svanisce col tempo.

    N.B. Tutti i racconti nascono da fatti realmente accaduti, filtrati prima attraverso l’esperienza personale, poi setacciati e in parte alterati dal percorso intricato e spesso subdolo della memoria, infine rifiniti col gusto della libera invenzione. Probabilmente tanti nomi sono diversi da quelli di allora. Sicuramente altri attori o spettatori dei fatti narrati, se tuttora ne conservassero il ricordo, riporterebbero diverse versioni dei medesimi accadimenti. Qualche esempio di memorie divergenti è riportato pure nei testi. Questo è normale e inevitabile.

    È quel che avviene talvolta fra intimi che confrontano i reciproci vissuti di analoghe situazioni, oppure accade quando a un pubblico inconsapevole vengono riferite a più voci cronache di epoche più o meno recenti, ma accade anche quando i protagonisti di storie lontane si trovano a ricostruire la propria esperienza a distanza di tempo e da fronti opposti. Per fortuna, per raccontare i grandi eventi ci sono gli storici, che cercano di fissare qualche dato oggettivo attraverso documenti riferibili ai fatti. Figuriamoci però cosa succede con le vicende minori, ignorate dagli storici e di cui non rimane traccia se non nel ricordo dei singoli o nella tradizione orale! Qui nascono gli eroi popolari, e la narrazione, trasfigurata nel tempo dalla memoria, diventa mito…

    «di lì passavano ogni tanto un pescatore, un cercatore d’erbe o di funghi, un bimbo esploratore di relitti o di nidi»

    9 NOVEMBRE 1967

    «Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio».

    Ancora tre poi tocca a me: passare sopra l’argine e, davanti al microfono, dire chiaro e forte: «Soldato Visentin Umberto!»

    Qualcuno risponde: «Presente!», poi scendere e lasciare posto al prossimo.

    Visentin Umberto, Visentin Umberto, Visentin Umberto: devo ricordare. Ma non potevano darmi un nome più breve?

    È dalla quinta elementare che dura ‘sta storia: maggio 1915, l’Italia entra in guerra contro l’Austria; cinquant’anni dopo: «nonpassalostraniero! Bin bon».

    «E un fiasco de vin nero», si aggiungeva sottovoce nel coro di voci bianche organizzato dal maestro Pasqualini. Lui strimpellava al piano La leggenda del Piave, noi bimbi di quinta, raggruppati in ordine d’altezza, alle sue spalle cantavamo, ci davamo di gomito e, nelle pause, scherzavamo. In occasione dei cinquant’anni dall’entrata dell’Italia nella Grande guerra, si erano mobilitati direttore, maestre e maestri della scuola elementare Giacomo Noventa: bisognava accogliere degnamente le autorità, una volta tanto in visita al nostro paese per il cinquantennale!

    Ora però la cosa è diversa. È il 9 novembre del 1967, sono in terza media, si ricordano la battaglia e i caduti del Piave, il paese è pieno di gente importante; per l’occasione hanno stampato perfino un francobollo commemorativo, delle cartoline e un apposito timbro; anch’io sono andato in ufficio postale con cartoline e bolli da timbrare. Ma, soprattutto, c’è la RAI che registra la cerimonia!

    Visentin Umberto, Visentin Umberto, Visentin Umberto: devo ricordare! Ma non potevano darmi un nome più breve tipo Bianco Pietro o Bobbo Carlo: due sillabe in meno fanno una bella differenza!

    «L’esercito marciava per raggiunger la frontiera, e far contro al nemico una barriera»

    «Soldato Vidotto Angelo…»

    «Presente!»

    Ancora due.

    Rileggo la strisciolina di carta che tengo in mano, nascosta però, che non si deve vedere. Devo solo dire, con voce alta e stentorea: «Soldato Visentin Umberto!»

    E l’altro risponde: «Presente!»

    La Grande guerra l’hanno fatta i miei nonni. Guglielmo è morto prima che nascessi, ma ho una sua foto sul fronte del Carso: in trincea sono in cinque, ciascuno con un’arma in pugno. Lui è quello in piedi, in posa con la pistola puntata, con lo sguardo fisso. Dietro alla foto c’è una dedica alla nonna (erano fidanzati all’epoca): RICORDO - FOTOGRAFIA FATTA IN TRINCEA IL 21-5-17. POCO DISTANTE DAL NEMICO - GRUPPO PARTECIPANTI ALLA MIA SQUADRA TIRO - SALUTI CARI. Un messaggio quasi rassicurante, mandato dalla quotidianità normale della guerra. Sotto c’è pure la firma di nonna Amalia; l’avrà aggiunta forse per scaramanzia, o in segno di dedizione verso l’amato che, ventiquattrenne e socialista, si trovava, pistola spianata e sguardo fisso, a fronteggiare il nemico sul Carso.

    Poi c’è stata Caporetto, so che lui si è trovato coinvolto nella rotta, non so però come se la sia cavata e cosa sia successo dopo.

    E nonno Toni? Chissà dov’era, non mi ha mai parlato direttamente della sua partecipazione alla Grande guerra. Certo si trovò a combattere da qualche parte, ci sono le medaglie. E poi qualche impressionante racconto sul Piave che diventa rosso per il sangue dei caduti.

    So che nonna Isa e Giorgio (mio padre), che ancora non aveva compiuto due anni, vivevano a Ca’ Memo, nella riva sinistra del Piave, e dopo Caporetto si erano trovati nella parte occupata dagli austriaci, perciò erano stati sfollati a Motta di Livenza, lontano dal fronte. La casa dove abitavano i nonni, come quella dove sono nato io, stava ai piedi dell’argine. Dall’altra parte del fiume, nell’ottobre del 1917, si era schierato l’esercito italiano, o quel che ne restava, coi suoi alleati, per fermare l’avanzata, per far contro al nemico una barriera.

    «Muti passavan quella notte i fanti, tacere bisognava e andare avanti».

    «Soldato Vidotto Antonio…»

    «Presente!»

    Ancora uno, poi tocca a me.

    Dobbiamo ricordare l’estremo sacrificio, i martiri d’Italia che partirono cantando, contenti di morire per la Patria: così diceva il signor Direttore alle elementari, così dice ancora il signor Preside delle medie, così ripetono tutti alla radio e alla televisione, e noi studenti abbiamo il compito di tener viva la memoria pronunciando i nomi dei caduti del Piave e della Grande guerra!

    Non passa lo straniero!, recita la Leggenda.

    «E un fiasco de vin nero», aggiungevamo sottovoce noi, dissacranti monelli di Noventa, nati due generazioni dopo.

    Sono un po’ frastornato per l’emozione. I versi del canto, ripetuti dagli altoparlanti, rimbombano nella mia testa. La battuta beffarda sta lì, in agguato. Per quanto mi riguarda, ho sempre preso sul serio queste cose, sarei propenso a dar importanza alle celebrazioni, mi ci faccio coinvolgere: per questo sono emozionato. Ma quel verso canzonatorio che circola fra i compagni meno ligi e inibiti, mi ronza nel cervello e si sovrappone al nome dell’eroe caduto per la Patria.

    Soldato Visentin Umberto, rileggo per la centesima volta nella strisciolina di carta, inumidita dal sudore della mano; "un fiasco de vin nero", risuona in testa come un mantra.

    «S’udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve il tripudiar dell’onde».

    «Soldato Vidotto Pietro…»

    «Presente!»

    Ora tocca a me!

    Vedo la gente intorno, il Sindaco, le autorità, l’impianto di amplificazione, i giornalisti che commentano, gli operatori che riprendono, il professore di italiano che mi guarda sorridendo fiducioso.

    «Era un presagio dolce e lusinghiero», diffondono le trombe degli altoparlanti piazzate sull’argine.

    Sto per raggiungere il microfono.

    «Il Piave mormorò, non passa lo straniero».

    Eccomi!

    «Soldato Vin ner… ehm… Vi… Visentin Umberto…»

    «Presente!»

    «per l’occasione hanno stampato perfino un francobollo commemorativo, delle cartoline e un apposito timbro; anch’io sono andato in ufficio postale con cartoline e bolli da timbrare»

    «in trincea sono in cinque, ciascuno con un’arma in pugno. Lui è quello in piedi, in posa con la pistola puntata, con lo sguardo fisso»

    LA PICCOLA GUERRA DELLA PIAVE

    California, America, Canada, Parigi: così da bambini ancora chiamavamo le varie zone della riva destra, l’altra sponda della Piave. Quella di Fossalta e Zenson, per intenderci. Perché quei nomi? Non ce ne rendevamo conto, ma la storia ci stava usando per poter sopravvivere un po’.

    Nel novembre del 1917, dopo Caporetto, sulla sponda destra del Piave si era attestato l’Esercito Italiano, raggiunto e sostenuto da contingenti Alleati. Arrivò fra gli altri pure il giovane Ernest Hemingway, volontario americano della Croce Rossa Internazionale, e l’8 luglio del 1918 venne colpito e ferito gravemente da un colpo di mortaio proprio in quelle zone, come testimoniano i romanzi Addio alle armi, Di là dal fiume e tra gli alberi, e alcuni dei Quarantanove racconti. C’è pure una stele commemorativa sull’argine di Fossalta a

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