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La forma imperfetta delle nuvole
La forma imperfetta delle nuvole
La forma imperfetta delle nuvole
E-book472 pagine6 ore

La forma imperfetta delle nuvole

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Info su questo ebook

La vita di Santuzza e Zelmira, ospiti ultraottantenni di Casa Serena, sembra essere trascorsa su binari paralleli ma del tutto differenti, fino a quando gli oscuri ingranaggi del destino definiranno per loro nuove e inaspettate traiettorie.
La loro esistenza, scandita dalle ferree leggi della nascita e del ceto sociale, si articolerà attraverso gli anni bui del fascismo fiorentino e della guerra, passando dalla rinascita economica degli anni Sessanta fino alle contestazioni giovanili che cambiarono il mondo.
Sarà un luogo quieto e antico, insieme alla forma imperfetta delle nuvole, a sciogliere il doppio nodo che le lega e a mostrare loro che ogni fine segna sempre un nuovo inizio.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2018
ISBN9788866602637
La forma imperfetta delle nuvole

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    Anteprima del libro

    La forma imperfetta delle nuvole - Antonella Zucchini

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    «1»

    UNO

    DUE

    TRE

    QUATTRO

    NOVE

    DIECI

    UNDICI

    DODICI

    «3»

    TREDICI

    QUATTORDICI

    QUINDICI

    «4»

    SEDICI

    DICIASSETTE

    «5»

    VENTUNO

    VENTIDUE

    VENTITRE

    «7»

    VENTIQUATTRO

    VENTICINQUE

    «8»

    VENTISEI

    VENTISETTE

    VENTOTTO

    «9»

    VENTINOVE

    TRENTA

    TRENTUNO

    RINGRAZIAMENTI

    Tutto il resto vien da sé

    Fiore di cappero

    Un Romanzo di

    Antonella Zucchini

    La forma imperfetta delle nuvole

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-263-7

    LA FORMA IMPERFETTA DELLE NUVOLE

    Autore: Antonella Zucchini

    © 2018 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di luglio 2018

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2018 CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0

    (libero utilizzo, attribuzione non richiesta)

    Collana: Green

    Editing a cura di: Pia Barletta

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l’Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Alla memoria di Giuliana Fedele Pestellini,

    maestra elementare a Molino del Piano

    negli anni '60/'70.

    Dentro di me ardeva già il sacro fuoco della scrittura.

    Io non me ne ero ancora accorta, lei invece sì.

    Ai saggi e ai pazzi,

    ai giovani di spirito,

    agli eterni ragazzi ultraottantenni

    del Centro Diurno Airone di Firenze.

    «1»

    Che strano, era tanto che non osservavo il mondo da quest’ottica.

    Forse da bambina, un milione di anni fa.

    Distesa per terra a pancia in su drizzavo le gambe contro il muro e mi divertivo a guardare le cose capovolte.

    Vorrei arginare qualcosa di liquido che mi sta scendendo sulla fronte, forse una goccia di sudore, ma sono così spossata che mi risulta quasi impossibile levare il braccio.

    Non importa, dovunque stia andando quella goccia, da qualche parte si fermerà.

    Brandelli di ricordi come schegge di uno specchio frantumato sembrano bucare la mia testa e lacerano il drappo spesso e consistente che li aveva occultati fino ad allora.

    Qualcosa di caldo mi scivola lungo la schiena, denso e vischioso, ma rimango ferma e immobile a guardare stupita un moscondoro smeraldino che zampetta su una foglia di mortella.

    Più in là, una macchia odorosa di verde – forse laurus nobilis? – sprigiona con forza il suo effluvio aromatico dopo la pioggia di stanotte.

    Conosco in modo perfetto tutti i nomi delle erbe, dei fiori, degli alberi.

    Stiro le labbra in un accenno di sorriso.

    Non per nulla mi sono laureata in botanica, un milione di anni fa.

    Con molta lentezza cerco di girare lo sguardo e, dalla portiera spalancata, osservo l’asfalto lucido reso viscido dalla pioggia.

    Con uno sforzo enorme roteo i globi oculari e li riporto su, verso la luce. Da quest’ottica insolita mi appare la forma imperfetta delle nuvole bianche e vaporose che si dilatano facendo posto a un barlume di azzurro.

    L’avevo detto che oggi sarebbe stata una giornata perfetta.

    UNO

    I gatti non sono tutti uguali. Sono come le persone.

    Alcuni hanno gli occhi piccoli, allungati, altri invece ce li hanno grandi e ben aperti sul mondo. Certi hanno musi maligni, ostili, animosi, altri sono così dolci che non smetteresti mai di sbaciucchiarli.

    Questo pensava Santuzza mentre, seduta sulla sedia dell’andito, aspettava che il pulmino del centro diurno venisse a prenderla.

    Calìa la guardò e strofinò il muso alle sue gambe. L’aveva chiamata con questo nome perché a Firenze essere una calìa significava essere schizzinosa, far boccuccia a quasi tutto quello che ci mettono davanti e la sua gatta faceva proprio in quel modo. Disdegnava la scatoletta e se ne andava tutta torta di fronte ai croccantini, cosicché le toccava comprarle pezzi di polmone o fegato fresco che le assottigliavano non di poco la già magra pensione.

    Ma Calìa si faceva perdonare facendole le fusa e leccandole le mani, le saltava in grembo mentre guardava la televisione o si acciambellava in fondo al letto quando era l’ora di dormire. Era così tenera e affettuosa quando, in cerca di carezze, saltava sul bracciolo della poltrona e sporgeva il naso umido verso di lei o quando strofinava quel musetto da zingara alle sue gambe.

    Non avrebbe voluto abbandonarla così come non voleva lasciare la cucina calda e rassicurante, satura dei vapori della bietola cotta la sera prima. In quelle tre stanze si sentiva protetta, fuori invece c’era un mondo straniero e lei non era mica tanto sicura di volerci andare.

    Prese in braccio la gatta e il suo pelo folto e lucido le dette conforto.

    «Per oggi ti lascio, Calìa e mi dispiace davvero» disse a voce alta avvicinando il viso al muso della gatta, «ma la mi’ nipote l’ha insistito tanto!» sospirò. «Nonna, un tu puoi stare sola tutto il giorno. Prova a frequentare questo Centro, ci sono tanti anziani come te.» Sospirò di nuovo. «Sai che bellezza.»

    Avrebbe voluto subito obiettare che già la parola diurno per anziani le dava una certa inquietudine ma non voleva contraddirla, la Susanna.

    «Da quando l’è morta la su’ mamma, la mi’ Sandrina, tutto ha cessato di esistere, tranne lei. L’è proprio vero quando si dice che i genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figlioli.»

    Dopo quel brutto male che gliel’aveva portata via, le era rimasta una ferita aperta così dolorosa e pulsante che i primi tempi si sarebbe buttata volentieri giù dalla finestra per non sentire più quello spasimo.

    «Ma io sto al primo piano di una casa bassa, mi sarei fatta anche poco male, vero Calìa?»

    E poi c’era sua nipote, la Susanna. O che poteva lasciar sola anche lei? Per questo le aveva detto: «Va bene. Se tu vuoi, ci andrò.»

    Così la Susanna aveva parlato con l’assistente sociale, aveva preparato con cura fogli e incartamenti e proprio da quella mattina lei avrebbe cominciato a frequentare questo benedetto Centro.

    Calìa si strofinò al suo braccio in cerca di carezze indifferente al suo parlare da sola.

    La Susanna le aveva raccomandato: «Nonna, il pulmino passa alle otto e mezzo, fatti trovare pronta, non farli aspettare.»

    Ridacchiò.

    «Icchè tu dici te, Calìa? Ma se son pronta dalle sette! Se c’è una persona puntuale in questo mondo, quella sono io. Anzi, so’ sempre in anticipo perché non mi è mai piaciuto fare i’ mi’ comodo mentre gli altri aspettano come bischeri. Anche con i’ mi’ Silvano, pace all’anima sua, quando s’era fidanzati, mi mettevo dietro ai vetri mezz’ora prima che lui venisse a prendermi. E quando lo intravedevo baluginare con la Lambretta, gli vociavo dalla finestra Scendooo! Buttavo un bacio alla mamma e via a rotta di collo per le scale.»

    Sospirò e grattò la gatta sotto alla gola sapendo quanto poteva piacerle.

    Dette un’occhiata di sfuggita all’orologio a cucù appeso in cucina. «C’avrà quarant’anni quell’orologio, ma funziona sempre. Me lo regalò Silvano tornando dalla Svizzera dove era stato sei mesi a lavorare. L’uccellino però non esce più. La lo ruppe la Sandrina da piccina, quella volta che la salì sulla tavola e l’aprì la porticina di legno. Per liberarlo, la disse lei. Bellina.»

    Sospirò di nuovo, profondamente. «O icchè fanno Calìa, con questo pulmino? Son di già venti alle nove!»

    La gatta fece un balzo, scese dalle sue ginocchia lasciandole un ventaglio di peli chiari sulla sottana e si avvicinò sospettosa alla sua ciotola.

    «Sta’ tranquilla, di fame e di sete un tu mori. E poi io stasera torno, eh?»

    Le sfuggì un altro sospiro mentre controllava ancora una volta la piccola sporta marrone. «Allora... i’ borsetto l’ho preso, i’ fazzoletto anche, le caramelle d’orzo perché un si sa mai... le chiavi...»

    In quel momento due forti squilli di campanello la fecero sobbalzare e nonostante un sordo dolore all’anca – maledetta vecchiaia! – si precipitò al citofono.

    «Chi è?» chiese mentre il cuore le batteva all’impazzata come se fosse stata una scolaretta al suo primo giorno di scuola.

    «Santuzza Balestri?» gracchiò una voce metallica di donna dalla strada.

    «Scendooo!» poi si girò verso Calìa che la guardava stupita. «Torno, torno. Te sta’ bona e non combinare malestri.»

    Scese le scale più in fretta che poteva, aggrappandosi con le mani gonfie e dolenti dall’artrite e mordendosi le labbra a ogni scalino la cui discesa le provocava fitte lancinanti al ginocchio sinistro. Era dura dover ammettere di aver corso per una vita e ora non farcela più.

    «Accidenti alla vecchiaia» sibilò scendendo a fatica l’ultimo scalino. «Prima rivoltavo i’ mondo e ora mi devono portare anche un sacchetto d’ arance perché un ce la fo.»

    Una signorina con i capelli corti e grandi orecchini alla spagnola le porse la mano. «Buongiorno, signora Santuzza. Si ricorda di me? Sono la Simo, ci siamo viste quando è venuta a vedere il centro con sua nipote.»

    No, non si ricordava, era troppo frastornata quel giorno.

    «...e questo è Corrado, l’autista.»

    «‘Ngiorno,» brontolò lui, «andiamo l’è tardi!»

    Bah, come se fosse colpa mia! Io alle sette ero bell’e pronta, bischero. Si comincia benino. Pensò.

    Sul pulmino c’erano già tre anziani seduti. Uno aveva una giacchetta troppo grande e lunga, con le maniche che gli nascondevano quasi le mani. Portava un cappello di cencio con la visiera sfilacciata da cui uscivano pochi cernecchi biancastri.

    O chi l’ha vestito, questo?

    L’uomo tese verso di lei mezze dita gialle di nicotina. Emanava un puzzo di fumo stantio che le rivoltò lo stomaco. Non se la sentì di afferrare quella porzione di mano e stringerla, per cui abbozzò un debole sorriso e percorse ancora il corridoio. Gli altri due passeggeri erano un uomo e una donna che si stavano tenendo per mano.

    Saranno marito e moglie considerò, poi oltrepassò anche i loro sedili mormorando un sommesso buongiorno e si sedette in fondo mentre il pulmino riprese la sua corsa per le vie della città.

    Speriamo che questo Corrado guidi bene disse fra sé e sé, perché a me la macchina la m’ha sempre fatto male. Quando Silvano vendette la Lambretta e comprò la Seicento, mi portava la domenica alla Consuma o su i’ Muraglione. Scendevo sempre con un viso verde...

    La ragazza che diceva di chiamarsi Simo impartì le direttive all’autista. «Ora andiamo a prendere Dante e dopo la Dide», quindi percorse tutto il corridoio e venne a sedersi proprio accanto a lei. Aveva un bel sorriso aperto e due occhi grandi, anche se un po’ troppo truccati, forse.

    «Santuzza, vedrà che si troverà bene a Casa Serena. Conoscerà tante persone, farà amicizia e non si sentirà più sola.»

    Ma lei non si sentiva affatto sola, aveva Calìa e la sua Susanna, avrebbe voluto risponderle, ma quella aveva già cominciato a chiacchierare, indicandole i presenti.

    «Vede, Santuzza? Quel signore seduto ai primi posti è Giovanni. È un napoletano verace che vorrebbe fare il guappo ma, in fondo in fondo, è più buono del pane.»

    Lei accennò un sorrisino e indicò la coppia così, per educazione, e non perché le importasse di sapere.

    «Ah, quelli?» ammiccò la Simo. «Quelli sono i nostri fidanzatini. Liviano è vedovo e Vivetta pure. Si sono conosciuti a Casa Serena ed è sbocciato l’amore.»

    «Per carità di Dio!» si lasciò sfuggire, inorridita.

    La Simo fece una bella risata, rovesciando la testa all’indietro. «Non si scandalizzi, Santuzza! All’inizio siamo rimasti tutti sorpresi ma sono così carini e teneri! E poi, come si dice? L’amore non ha età.»

    «E vivono insieme?» bisbigliò.

    «Macché, sembrerà impossibile ma i rispettivi figli si oppongono. La loro relazione è dunque contrastata, come nelle migliori storie d’amore che si rispettino.»

    Esplose in una risata nello stesso istante in cui lei inarcò il sopracciglio destro, perplessa, e Corrado l’autista inchiodò il pulmino accostandosi al marciapiede, facendole protendere tutte e due in avanti.

    Un anziano canuto si staccò dal muro a cui era appoggiato, abbandonando l’unico triangolo di sole e si avvicinò zoppicando. La Simo in un balzo lo aiutò a salire.

    «Buongiorno Dante.»

    «Buongiorno, nina.» Rispose lui arrancando sui gradini dell’automezzo. «Oggi la un va, sai? Accidenti però, vu m’avete fatto congelare, ritto in piedi a qui’ muro.»

    «Glielo diciamo sempre di aspettarci in casa, al caldo, ma lei vuol fare come le pare, Dante.»

    «Ohi ohi, t’ha’ ragione, nina. Con i vecchi ci vole pazienza.»

    Dio mio, come ci si riduce! pensò accorata, guardandolo.

    Sembrava allegro però, nonostante gli acciacchi.

    «Buongiorno a tutti,» e poi, scorgendola, «toh, ce n’è una nova!»

    Strizzò gli occhi per osservarla meglio ma la Simo non gliene dette il tempo e lo fece sedere. «Andiamo Dante, sennò la mi casca e la mi si rompe tutto. Più tardi le presenterò questa bella signora, stia tranquillo» e voltandosi, le ammiccò.

    Da’ retta a me, nina, un mi presentare proprio nessuno! avrebbe voluto dirle, anzi riportatemi subito a casa. Voglio tornare a casa mia. Pensò sconfortata e sconfitta mentre il pulmino, dondolando inesorabile, riprendeva la sua corsa.

    Casa Serena, Casa Serena. Continuò a rimuginare guardando fuori dal vetro. Casa non si può chiamare, per la verità. È una residenza. Per vecchi.

    Ricordò di quando la Susanna l’aveva accompagnata, così, per fargliela vedere senza impegno. C’era un ingresso pieno di piante verdi, un grande salone con tavoli apparecchiati come se fosse domenica, la sala di lettura, quella da gioco con i tavoli ricoperti di panno verde come nelle bische – perfino un laboratorio di ceramica! – e ampi finestroni con tende beige sempre tirate.

    Lei invece ogni mattina era avvezza a spalancare le persiane di casa che davano sulla via Aretina per lasciare entrare più luce possibile, figurarsi.

    No via, casa non si poteva chiamare.

    Serena, poi. Di quello ne dubitava parecchio.

    DUE

    La mattina si preannunciava piuttosto fredda e Imelda Corsini, vedova Pastacaldi, si precipitò a chiudere i vetri della sua camera. Quella sbadata dell’Anita, abituata all’aria fine della sua campagna, lasciava sempre le finestre aperte cosicché la stanza si gelava in un batter d’occhio e rendeva le coperte sempre umide e fredde. Quante volte glielo aveva detto a quella testona!

    Si guardò intorno con disappunto, rabbrividendo nella vestaglia nera di lana leggera. Gli occhi si posarono sull’enorme cassettone che occupava una buona metà del muro intonacato a stucco. Non si sognava neanche lontanamente di tenerci sopra il ritratto del defunto marito, per il quale nutriva invece un tenace e mai sopito risentimento nonché una sprezzante indifferenza.

    L’immagine di quell’omuncolo insignificante e mediocre era stata sepolta nell’angolo più remoto del cassetto di fondo, sotto le calze da inverno e le camicie da notte di cotonina pesante. Era quella la sua giusta collocazione, caro il mio signor Pastacaldi!

    Sul piano di marmo verde di Carrara campeggiava invece il ritratto di lei e Cesare quando erano piccoli, un’immagine color seppia incorniciata da tralci dorati e foglie di vite a smalto.

    Ricordava in ogni minimo particolare quando, nel lontano 1913, la madre li aveva condotti al prestigioso Stabilimento Fotografico Brogi, in Corso dei Tintori.

    Il fotografo aveva aperto la porta a vetri smerigliati e chinato il capo impomatato ostentando un saluto ossequioso.

    «Prego, signora Corsini» quindi abbassò lo sguardo su quella bambina di otto anni, posandole una carezza sui capelli con mani enormi e pelose e mandandole di traverso il fiocco, cosa per la quale lei gli rivolse uno sguardo dei più truci. Incurante di tutto ciò, il fotografo si piegò sulle ginocchia a dare un buffetto sulla guancia del piccolino che di anni ne aveva tre. Lui gli sorrise mostrando i dentini nuovi di zecca, socchiudendo gli occhi.

    Come fa ancora adesso pensò Imelda con tenerezza, alitando sul vetro e passandoci sopra il fazzoletto di batista.

    Il fotografo li aveva introdotti in una stanza arredata con mobili scuri, tendaggi pesanti raccolti da cordicelle dorate ai lati dei finestroni, kenzie polverose e penne di pavone infilate in alti vasi cinesi.

    L’Imelda si guardava intorno, gli occhi due punture di spillo, e registrava tutto: i divani color topazio, le sedie antiche, gli specchi intarsiati, stucchi al soffitto e persino due uccelli esotici impagliati e poggiati su una mensola neoclassica, i quali attirarono subito l’attenzione del fratellino.

    «Un momento solo.» Disse compiaciuto l’uomo che sparì nella sala di posa per controllare che fosse tutto a posto.

    Imelda guardò la madre. Eccola lì, pensò con una punta di astio sempre davanti allo specchio!

    E infatti Zelmira si accomodava un ricciolo sfuggito dal cappellino, si controllava le labbra o si aggiustava il bavero, come se la fotografia l’avesse dovuta fare lei.

     Non bada mai a noi considerò mentre si leccava la mano e la passava sui riccioli vani del fratellino per acquietarne le ritrose e allo stesso tempo cercava di far star dritto il maledetto fiocco che quell’imbecille le aveva spostato.

    Sua madre era tutta intenta a rimirarsi, sfoderando allo specchio ora un incantevole broncio, ora uno sguardo languido, ora improvvisando pose svenevoli.

    L’Imelda non le staccava gli occhi di dosso mentre dal boudoir di posa le arrivavano rumori ovattati.

    Il fotografo fece capolino proprio mentre Zelmira mormorava: «Il ritratto, la prossima volta me lo faccio fare io» soddisfatto di quell’avvenente signora che di rimando gli sorrideva maliziosa.

    «Ma certo signora Corsini, quando vuole.» Squittì untuoso quello, poi con gentilezza esagerata. «Prego, bambini cari. Dopo di lei, signora.»

    Entrarono in una stanza dove spiccavano un divanetto cremisi, posto contro un paravento dai contorni lievemente sfumati – forse un paesaggio, non lo ricordava – una pelliccia di animale scura e folta adagiata sul pavimento e cuscini damascati sparpagliati ad arte.

    «Quella è la pelliccia di un orso» sussurrò Imelda e Cesare si mise subito a strillare perché lui, dell’orso, aveva paura.

    «Ma è morto, scemo!» e lanciò un’occhiata speranzosa al fotografo. «Vero?»

    L’uomo si mise a ridere scoprendo denti gialli e irregolari, sui quali si era fermato qualcosa di verde e Imelda aveva provato ribrezzo per lui.

    La madre la redarguì, seccata. «Imelda, sei sempre la solita!» poi estrasse dalla manica un minuscolo fazzoletto bordato di trina – bianca o rosa, questo non riusciva a ricordarlo e ne era alquanto infastidita! – e asciugò le lacrime del piccino.

    «Un ti preoccupare, bambino» lo rassicurò l’uomo lasciandosi andare a un improvviso slancio in lingua fiorentina. «L’ho ammazzato io, quell’orso. Ora un ti fa più nulla.»

    «Mo-tto?» mormorò il piccino nel suo linguaggio ancora impacciato, guardando Imelda che gli trasmetteva comunque più sicurezza della madre.

    «Morto.» Asserì lei.

    Furono fatti accomodare. Cesare, seduto sul divano – con un cuscino dietro per mantenerlo ben eretto – e lei di lato, in piedi, con la sua zazzera dispettosa e il fiocco che non voleva star dritto un accidente.

    L’uomo gridò con enfasi. «Ecco la magia del ritratto da lasciare ai posteri!» o qualcosa di simile, poi cacciò la testa impomatata sotto il drappo che copriva il voluminoso apparecchio fotografico.

    «Fermi, immobili» li ammonì Zelmira.

    Un lampo impresse per sempre la boccuccia di Cesare che si apriva in un gorgoglio inconsapevole nonché gli occhi sbarrati dell’Imelda. Non impauriti, né timidi, né schivi ma al contrario vigili e inflessibili, reale espressione di un carattere che si andava forgiando duro e intransigente, soprattutto contro la madre. Zelmira non le aveva mai teso le braccia per prenderla in collo, né l’aveva mai sbaciucchiata o fatto una carezza sui capelli. Non le raccontava novelle prima di dormire, né le cantava ninne nanne. La sentiva invece canticchiare tra sé quella canzoncina odiosa

    Vieni, pesciolino mio diletto, vieni

    noi faremo un amoretto insieme,

    deh, vieni con me...

    mentre allo specchio si spalmava di unto viso e collo o si metteva due gocce di essenza profumata dietro le orecchie.

    Dio, quanto odiava quella canzone e quanto odiava lei!

    La sera la vedeva salire in carrozza con il padre, bella e superba, carica di sete e di perle, dopo aver riservato un saluto distratto a lei e un’ultima raccomandazione per la tata.

    «A letto presto, mi raccomando.»

    Il padre acconsentiva a tutti i suoi capricci, perdonandole la sua scarsa attitudine materna e giustificandola per la sua giovane età e inesperienza. Con un altro figlio sarebbe senz’altro cambiata.

    Ma neanche la nascita di Cesare era riuscita a smuoverla da quel limbo dorato e superficiale fatto di prove dalla sarta, di regali da scartare, di feste e ricevimenti a cui presenziare.

    Il bambino comunque la adorava e le si buttava addosso beato, suscitando il suo biasimo quando stropicciava le manine sudicie sui suoi vestiti o sui suoi baveri e colletti inamidati. Ma Cesare se ne infischiava del sopracciglio arcuato in modo perfetto che si sollevava a guisa di raccapriccio e seguitava a mandarle baci con la manina paffuta o a rivolgerle sorrisi sdentati.

    Lei invece era diversa e si era chiusa a riccio nei confronti di quella madre che teneva più ai nastri e ai fiocchi che ai suoi figli.

    In piazza Davanzati, Zelmira li fece fermare per una buona mezz’ora da Gherardini, l’elegante negozio di borse e cuoi dove aveva visto un incantevole borsone da viaggio.

    Cesare piagnucolava, cominciava ad avere fame e anche lei voleva tornare a casa, stufa di quello struscio davanti ai negozi di cui non le importava nulla. Per chetarli, da Doney la madre comprò a ognuno un bastoncino di scorza d’arancia avvolto nel cioccolato alla violetta. Ma neanche questo riuscì ad addolcire il livore che Imelda nutriva nei suoi confronti.

    Il padre, il vecchio Ingegner Corsini, se lo rammentava come fosse ora, li portava come di consueto a passare il Natale in un albergo a Bivigliano mentre Zelmira sbuffava annoiata da tutto quel mortorio e minacciava di non mettere il naso fuori dalla sua camera.

    Lui usciva con i bambini, le mani sprofondate nel pastrano di casentino rosso – che indossava solo a Bivigliano e solo per Natale – il cappello in capo e il sigaro spento in bocca. Li seguiva a passi lenti mentre loro si rotolavano nella neve, le guance accese dal freddo e dalla felicità. Rientravano con le dita congelate e i nasi rossi e lei si strusciava alla stoffa rugosa del pastrano, divertendosi a tirare i leggeri pippoli sporgenti.

    Aveva amato suo padre tanto quanto aveva odiato Zelmira, conscia fin da piccola dello stato di debolezza amorosa in cui versava il primo e della crudele incoscienza della seconda che preferiva restare chiusa a provarsi vestiti e gioielli piuttosto che unirsi ai giochi dei suoi piccoli.

    Di solito, adducendo mal di testa o malesseri vari, si faceva portare la cena in camera cosicché il tavolo apparecchiato per quattro veniva prontamente affrontato da un cameriere che in silenzio provvedeva a portare via il coperto.

    Il padre sembrava intristito e ancora più vecchio dei suoi anni. Consumava quelle malinconiche cene a Bivigliano lasciando che i figli sminuzzolassero il pane sulla tovaglia o facessero cadere la forchetta, come se di colpo lui fosse altrove.

    E altrove, qualche anno più tardi, c’era andato davvero, quando un colpo apoplettico lo aveva lasciato con gli occhi sbarrati, la bava alla bocca e la testa riversa sulla scrivania di noce dello studio. L’Imelda aveva diciassette anni e Cesare solo dodici.

    Il giorno del funerale le cascarono le braccia quando la madre arrivò in ritardo perché non trovava nulla di decente – nero, s’intende – che le stesse bene per quella occasione. L’aveva osservata durante tutta la funzione, scrutando i suoi occhi asciutti e privi di qualsiasi dispiacere.

    Passò un braccio intorno alle spalle del fratello, gracili come quelle di un uccellino, guardando il cadavere del padre in camicia nera, come espresso in un biglietto scritto di suo pugno – trovato dalla madre per caso nel terzo cassetto della scrivania dove stava frugando in cerca di chissà cosa – il che comunque gli avrebbe valso l’annotazione nell’albo d’onore del Partito.

    Il prete benedisse la salma affumicandoli di incenso e, quando il fumo si fu dissolto, le fu subito chiaro che la madre era del tutto inaffidabile e che a Cesare avrebbe dovuto pensarci lei.

    E così aveva fatto negli anni a venire, seguendolo negli studi e convincendolo a intraprendere la carriera del padre, per la quale sembrava davvero tagliato. Si era sostituita in tutto e per tutto a Zelmira, diventando per Cesare sorella, madre, confidente, amica e continuando a odiare la madre fino al giorno della sua morte avvenuta qualche anno prima.

    Anche se quello strambo desiderio di dare lo stesso nome della madre alla piccina le aveva fatto rodere il fegato e parecchio.

    Possibile che lui non lo avesse capito?

    Tutto il suo affetto si riversava a cascate su Cesare. E sulla bambina, certo.

    Erano un nucleo indissolubile loro due, lo erano sempre stati.

    Poggiò la fotografia sul piano di marmo verde e mormorò allo specchio. «E così sarà per sempre, lo giuro.»

    TRE

    La vecchiaia è la via del tramonto, altroché.

    Lo diceva sempre l’Anita negli ultimi anni della sua vita arrancando per quelle scale ripide e strette mentre issava il peso del suo corpo, scalino dopo scalino, tenendosi aggrappata al corrimano.

    «Mamma, metti bene il piede. Così, senza furia.» Le diceva la Santuzza, apprensiva.

    Lei sospirava. «E pensare che le salivo e le scendevo volando, mattina e sera.»

    La via del tramonto.

    Con gli occhi stanchi seguì, attraverso i vetri, le striature aranciate che rigavano il cielo viola come un gesso sulla lavagna.

    «La vecchiaia! Fosse almeno bella come questo tramonto, ma non lo è.»

    Le fitte alle mani la costrinsero a mordersi le labbra dal dolore. L’indomani avrebbe chiesto qualche pasticca a quel dottorino tanto gentile che l’aveva visitata a Casa Serena.

    «Le faccio la scheda con tutti i suoi trascorsi clinici per l’anamnesi.»

    «L’abbia pazienza, dottore ma unn’ho mica capito.»

    Lui si era ravviato il ciuffo nero e liscio e le aveva sorriso, il che l’aveva confortata.

    «Intendo dire che compileremo insieme una raccolta di informazioni e notizie che potrebbero aiutarmi per la diagnosi e la cura delle sue future patologie.»

    «Ah! Speriamo un ce ne sia bisogno.»

    Una fitta ancora più forte le partì dal pollice e si irradiò lungo la mano e il polso facendola trasalire. Patire s’intende, ma così!

    E poi lei aveva già sofferto abbastanza. Il cuore se lo sentiva ormai come un brincello sanguinolento, un fagotto informe che le era stato lacerato lembo dopo lembo, lasciando soltanto la sofferenza pungente di una ferita viva, una tasca floscia e sdrucita da cui era fuoriuscito ogni attaccamento alla vita.

    «Sandrina» mormorò. Il rammarico del suo ricordo si fece così acuto che quasi dimenticò il dolore lancinante dell’artrite.

    Non c’era nient’altro che potesse fare.

    La sorte, Dio o chi per lui aveva voluto così.

    E ora, sopraffatta dagli anni e dai dolori, non le restava che consegnarsi agli altri.

    Estranei che le servivano il tè del pomeriggio con le fette biscottate, che l’aspettavano fuori dalla doccia per passarle un asciugamano pulito mentre lei cercava di coprirsi alla meglio le nudità costretta a svelare.

    Sconosciuti che le offrivano il braccio per passeggiare in giardino o che le servivano un piatto di purè o un piattino di mele cotte per merenda. Le veniva da piangere e invece sorrideva loro, rassegnata e arrendevole.

    Il primo giorno era stato parecchio difficile, ricordò.

    Appena scesa dal pulmino, si era guardata intorno spaesata e confusa mentre gli altri anziani si dirigevano chi verso il distributore del caffè, chi si sedeva al tavolo verde smazzando già le carte, chi percorreva avanti e indietro il lungo corridoio poggiandosi al bastone, altri facevano capannello, scambiandosi commenti. Aveva occupato un posto sul divanetto a fiori del salone e da lì non si era più mossa, la borsa poggiata sulle ginocchia, le mani incrociate sul grembo, gli occhi che vagavano smarriti da una parte all’altra, osservando volti sconosciuti.

    Vecchi che le passavano davanti zoppicanti e malfermi soffiandosi nasi umidi e gocciolanti, sputando catarri e tosse dalle gole cavernose.

    Liviano le si era avvicinato in punta di piedi.

    Si era subito premurato di informarla che avrebbe mangiato al suo stesso tavolo all’ora del pranzo – l’aveva letto nel cartello appeso sulla porta del salone – e aveva provveduto a ragguagliarla sull’origine del suo nome.

    Infatti ne conosceva di tutti il significato. Come facesse a tenerli tutti a mente era un mistero perché, in realtà, le era sembrato piuttosto svagato e distratto. Doveva essere un buon uomo però, un uomo mite, quasi tenero con quei pantaloni tirati su ben oltre la pancia e tenuti dalle bretelle, la testa scoperta sulla quale pochi ciuffi grigi danzavano a ogni accenno di spiffero, quegli occhiali spessi poggiati sul naso a civetta.

    Durante il tragitto sul pulmino, la Simo le aveva raccontato che i primi tempi girovagava nel giardino, le mani dietro la schiena e il passo lento, chiedendo a tutti il nome e fornendo un’esatta etimologia.

    «Perché si fa chiamare Simo?» le aveva detto lui con un dolce tono di rimprovero. «Simonetta è molto più bello», al che lei aveva sorriso aspettando il seguito. Ma lui le aveva cancellato subito quell’espressione beata dal viso, aggiungendo, «anche se sembra derivare da un sostantivo latino che significa camuso, ossia con il naso schiacciato e piatto.»

    Inconsciamente si era toccata la punta del naso mentre Carolina, la giovane psicologa di Casa Serena, le aveva dato una leggera spinta, incuriosita da quella specie di gioco. «E il mio?»

    «Beh, Carolina viene dal tedesco e significa persona libera

    «E vai!» aveva esclamato tirando a sé il pugno in segno di rivalsa. Ma Liviano ne aveva avuto anche per lei. «Carolina è anche un gioco di biliardo che si fa con cinque palle di colore diverso e senza pallino, nel quale è obbligatorio fare carambola a ogni tiro.»

    «Ma come fa?» si chiedeva la Simo, masticando più forte la gomma. «È un fenomeno!»

    E da allora, ogni volta che arrivava un ospite nuovo, lui chiedeva il suo nome e sciorinava il suo sapere.

    «Lo sa? Santuzza è un nome molto usato in Sicilia. Sarebbe il diminutivo di Santa, dedicata a Dio.»

    «Lui li conosce tutti i nomi.» Aveva cinguettato Vivetta raggiungendolo e infilando il braccio nel suo. «Non è bravo? Dica la verità.»

    Liviano aveva fatto una smorfia come per schermirsi e l’aveva guardata con infinito amore attraverso gli occhiali spessi.

    Il giorno in cui Vivetta arrivò a Casa Serena, lui era in infermeria a farsi medicare il dito che si era tagliato sbucciando una mela. Nonostante le lenti fortemente graduate, la vista gli diminuiva sempre di più ed era la prima delle sue principali preoccupazioni. La seconda erano il figlio e la nuora che non perdevano occasione di fargli capire quanto pesasse loro la convivenza forzata con lui. In casa doveva sopportare musi lunghi, silenzi ostinati e una palese indifferenza nei suoi confronti, quasi fosse trasparente.

    Per questo non vedeva l’ora di arrivare al mattino presto in quel Centro dove c’era sempre qualcuno intenzionato ad ascoltarlo e a battere le mani con ammirazione quando spiegava l’origine di un nome.

    Con il dito fasciato, si diresse verso il giardino e lì la vide. Aveva la stessa aria disorientata e sperduta che hanno tutti il primo giorno, la fragilità di chi si sente un pesce fuor d’acqua mentre le altre donne, già navigate, cianciavano tra di loro o si disputavano l’attenzione di Carolina o della Simo.

    Si sedette accanto a lei. «Bella giornata, vero?»

    Lei si voltò adagio e gli appiccicò addosso due occhi spauriti, chiari come zaffiri puri.

    «Come dice?»

    «Ho detto che oggi è una bella giornata» ripeté indicando con il dito le nuvole filiformi che fluttuavano nel cielo turchino.

    Lei abbozzò un sorriso di circostanza, poi quell’espressione smarrita prese di nuovo il sopravvento.

    «Vuole fare due passi con me?» chiese ancora lui, con quella voce bassa e gentile.

    «No grazie, rimango. Almeno quando vengono a prendermi, mi trovano già pronta.»

    «Chi deve venire a prenderla?»

    «Mah, non lo so. Quel signore di prima, quello con il furgoncino.»

    Mise mano alla borsetta e ne estrasse un fazzoletto di stoffa con cui si tamponò la fronte.

    Eccoci, pensò lui togliendosi gli occhiali per pulirli con l’orlo della camicia, poveretta, si confonde. E di nuovo, guardandola attraverso le lenti deterse, notò lo smarrimento in quel faccino tondo sul quale il tempo era passato indulgente, regalandole poche rughe e un incarnato ancora roseo.

    «Siccome quel signore ci riaccompagnerà a casa nel tardo pomeriggio» spiegò paziente, «sarebbe un vero spreco di tempo aspettarlo seduta su una seggiola, in una giornata come questa. Non crede, signora? Signora?»

    «Vivetta» sussurrò lei e Liviano spalancò gli occhi per la sorpresa.

    «Vivetta? Ma è un nome bellissimo! Vivetta è la protagonista del dramma musicale L’Arlesienne nonché dell’opera lirica omonima di Cilea, lo sa?»

    Lei si strinse nelle spalle, quasi si sentisse colpevole. «Mah, mi hanno messo nome così.»

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