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Il taxi dei destini incompiuti
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Il taxi dei destini incompiuti
E-book432 pagine7 ore

Il taxi dei destini incompiuti

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Info su questo ebook

Un misterioso taxi, in grado di superare le barriere del tempo, attraversa le esistenze di sei personaggi...
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2018
ISBN9788829530946
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    Anteprima del libro

    Il taxi dei destini incompiuti - ALESSANDRA CAPIO

    Alessandra Capio

    IL TAXI

    DEI DESTINI INCOMPIUTI

    Titolo

    IL TAXI

    DEI DESTINI INCOMPIUTI

    Autore

    Alessandra Capio

    Editore

    LUPIEDITORE

    Sito internet

    http://www.yndy.it

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’Autore e dell’Editore. È espressamente vietato trasmettere ad altri il presente libro, né in formato cartaceo né elettronico, né per denaro né a titolo gratuito. Le strategie riportate in questo libro sono frutto di anni di studi e specializzazioni, quindi non è garantito il raggiungimento dei medesimi risultati di crescita personale o professionale. Il lettore si assume piena responsabilità delle proprie scelte, consapevole dei rischi connessi a qualsiasi forma di esercizio. Il libro ha esclusivamente scopo formativo.

    CAPITOLO I

    1

    Angelo

    Di cosa ti sei dimenticato Angelo? Sembra tutto a posto. Il badge l’hai passato. La vali- getta è nella mano sinistra. Le analisi di De Rita sono dentro, nella cartella blu con l’agen- da, il ricettario e le chiavi… no, le chiavi le hai già in mano, pronte per aprire lo sportello sfigurato peggio delle guance del figlio della signora Sanelli, quello dell’incidente col motorino; ma questa volta Radis ti sentirà: glielo hai detto cento volte di non farti mettere la macchina appiccicata all’aiuola dove parcheggiano le moto, e lui niente! - Posto buono questo… puoi stare tranquillo… - sì, tranquillo che ti rigano la fiancata! Ma tu di cosa ti sei dimenticato?

    A tutto questo pensava Angelo Santilli e ad altro ancora quando la prima goccia si deposi- tò sul parabrezza ingombro di foglie dorate. Con lo sguardo cercò la figura corpulenta di Radis, al quale doveva ancora i due euro della settimana passata, ma la seconda goccia gli centrò in pieno la fronte e lo persuase a montare subito in macchina. Sistemata la valigetta di cuoio sul sedile di fianco si affrettò ad accendere il motore prima che alla terza goccia ne seguisse la miriade che l’orizzonte oscuro minacciava. Mentre il cielo cominciava a mantenere le sue promesse la spia dell’accensione avvampò seguita da un afono giro a vuoto della chiave. L’elettrauto! Ti sei dimenticato di passare dall’elettrauto! cercò di convincersi fissando il vetro completamente chiazzato di pioggia. Uscire dall’auto in quel momento per darsi in pasto al temporale sarebbe stata una follia. Meglio aspettare che spiovesse e tentare di rianimare la batteria, magari con l’aiuto del previdente collega Zulli e dei suoi cavetti. Così rimase per qualche minuto in balìa di pensieri che non riusciva  a portare a galla, avvinto dallo scroscio che ingoiava ogni altro suono e ogni volontà di risoluzione. Finché una macchia bianca si stagliò nel grigiore liquido e uniforme di cielo e strada.

    Per lungo tempo avrebbe provato a dare una spiegazione logica di quanto accadde in se- guito e alle ripercussioni che tutto ciò ebbe nella sua vita. E nelle vite degli altri.

    la macchina. Non è mia abitudine assalire la diligenza in questo modo… -

    Riuscì solo a sbirciare un impercettibile cenno di assenso della nuca del tassista: aveva ancora gli occhi appannati di pioggia. Ci volle un po’ di tempo perché il tepore rassicu- rante dell’abitacolo avesse la meglio sulla sensazione di freddo persistente che gli attana- gliava le ossa.

    Nonostante la banalità della domanda la voce del tassista gli risultava simpatica e la nuca vagamente familiare; un movimento leggero delle ciocche brune, folte e lunghe sul collo eretto, quasi esile, accompagnava le parole.

    Il temporale non si era ancora placato, ma la pioggia, fino a poco prima sferzante nella violenta sequenza intermittente di raffiche, aveva regolato il suo flusso. L’andirivieni del tergicristallo sembrava accompagnare i pensieri che tornavano timidamente ad affacciarsi nella mente del dottor Santilli.

    voltandosi appena, trapelava la sua giovane età. - È solo che mi piace fantasticare: poter regalare un pezzettino di felicità con il mio lavoro. Forse ognuno di noi dovrebbe aspirare a questo. Ecco, lei con il suo lavoro è una dimostrazione perfetta di quanto voglio dire. -

    L’affabile dottor Santilli lo chiamavano. Ad ogni collega del reparto era toccato un ap- pellativo: c’erano il Taciturno dottor Zulli, l’Irascibile dottor Verne dai capelli rossi fiam- meggianti al pari del carattere, la dottoressa Berardi, detta Iceberg, in seguito all’algida determinazione sfoderata nel perseguire la guarigione dei pazienti, nonché il successo professionale, e Sartoria Di Blasi, giovane specializzando così denominato per le incon- fondibili suture dall’esito incerto. Irma La Dolce, inflessibile caporeparto, chiamata così non certo per la delicatezza del carattere, quanto piuttosto per il richiamo alla vivace pro- tagonista di un vecchio film con la quale l’infermiera condivideva il nome ed una vaga somiglianza fisica, e il Saggio Renzi, l’anziano primario in carica da lustri, erano i decani di quella multiforme equipe cui succedevano senza soluzione di continuità infermiere, laureandi e nuovi colleghi spinti dalle motivazioni più impensate. Quando persino lui credeva a tutte le belle utopie, quando in principio era il Verbo e Renzi, già saggio e pri- mario, non era ancora così vecchio, il nucleo del reparto si era agglomerato sui primi tre elementi, due giovani dottori di belle speranze e un terzo di maggiore esperienza e minore diplomazia: il Taciturno, l’Affabile, l’Irascibile. Dal niente avevano tirato su un reparto degno di centri più illustri, alternando la fatica dei turni e delle rinunce familiari: allora si crogiolavano ancora nella consolatoria, vivificante utopia di un lavoro che donasse gioia a chi ne beneficiava. Eppure lui, Angelo, non aveva intrapreso la sua lunga carriera universitaria per questo.

    Uno spiraglio di luce s’insinuò nella massa oscura del cielo e rischiarò una fetta di strada lucida di pioggia, costringendo il dottor Santilli a socchiudere le palpebre sugli occhi chiari e a riporre per un attimo i ricordi arrivati chissà da dove, chissà perché. Dallo spec- chietto un altro paio di occhi azzurri, appena infastiditi dal bagliore, incrociò i suoi per un istante.

    -

    Mostrò di sfuggita alla superficie lucida dello specchietto una porzione di pelle del viso, scoprendo la tempia dai capelli e continuando a sottolineare con il dito attraverso una linea immaginaria che scorreva ancora lungo lo zigomo e più giù.

    Non era di cortesia il sorrisetto regalato alla battuta di spirito. La simpatia del ragazzo lo aveva rasserenato. Si sentiva a proprio agio nell’abitacolo tiepido disseminato da tracce delle vite che lo avevano preceduto; la carta di due caramelle, frutti di bosco e ciocco- lato, cadute sul tappetino dalla tasca di qualche ragazzo o forse di una persona anziana; una rivista per l’infanzia infilata nel vano portaoggetti dimenticata dalla neomamma di ritorno da uno shopping per la sua coppia di gemelli; una pallottola di carta stipata nello scomparto porta cicche, chiazzata da residui di crema e di cioccolato; le briciole ancora fragranti di un cornetto recente al cioccolato e crema… lì dentro non si doveva fingere un’affabilità di facciata, addomesticata dalle necessità della professione. Era sufficiente

    lasciarsi andare, divenire una traccia di vita genuinamente affabile da mescolare alle altre tracce, per godere del caldo grembo dell’auto, nutrito solo dallo scorrere del tassametro, al riparo da intemperie grigie e dall’oscurità di un mondo che non mostrava riconoscenza alcuna nei confronti degli uomini gentili e affabili.

    Per la prima volta dopo tanto tempo riusciva a mettere a fuoco, con una lucidità che l’avrebbe ferito se non fosse stato protetto dal dolce fluire privo di temporalità del taxi, l’impasse che, in modo graduale, aveva smorzato l’entusiasmo del suo cammino verso i legittimi obiettivi di una vita ordinariamente onesta. Non riusciva a nutrire alcuna rabbia o risentimento serio, anche perché non avrebbe potuto imputare a nessuno, men che meno a se stesso, la responsabilità per ciò che stava o non stava accadendo nella sua esistenza. Tuttavia un vago senso di tedio si sovrapponeva alla voce del saggio Renzi tutte le volte che lo chiamava per districare una questione delicata, dimenticando di ribadire il suo appoggio per la carica di futuro primario, o al profumo di zuppa pronta surgelata falsato dai deodoranti al gelsomino e all’ylang- ylang (non aveva mai capito cosa fosse) che lo accoglievano tentacolari una volta varcata la soglia di casa insieme al bacio fuggevole  di sua moglie. Il fastidio più intenso però lo provava nei momenti, sempre meno rari, in cui sorprendeva se stesso nella posa da laborioso (ex) ragazzo perbene. La sua vita era realmente una posa? Quanto di genuino fosse rimasto in lui e nella sua esistenza avrebbe potuto percepirlo specchiandosi nell’immagine del giovane tassista a cui si sentiva ormai attirato dal filo di affettuosa empatia che coglie spesso chi considera il prossimo un pia- cevole ma inevitabile diversivo.

    Si era assopito? Ricordava in modo vago gli ultimi pensieri cullati dallo scorrere sempre grigio, sempre uguale della pioggia. I ricordi della giornata appena trascorsa. Ombre di riflessioni. Non troppo piacevoli.

    L’ultimo battibecco con Verne (… non hai le palle Angelo! Iceberg non ha un’unghia dell’esperienza tua e di Zulli eppure vi farà le scarpe. Ci gioco le mie di palle che entro tre anni il primario qua dentro sarà lei…).

    Lo sguardo eloquente del signor De Rita alla prospettiva di una nuova operazione.

    Il punto troppo largo sulla pelle del bambino del pronto soccorso che, dopo il traumatico intervento, aveva lasciato una minuscola automobilina sulla scrivania dell’ambulatorio (se l’era messa in tasca pensando di ridargliela in seguito).

    Il caffè riscaldato e i panini alla bresaola. La macchina in panne.

    La dimenticanza.

    Di cosa ti sei dimenticato Angelo?

    Finalmente gli era tornato in mente. Non era una cosa grave, ma lo infastidiva aver dato buca alla figlia del signor Castoldi. Quel pomeriggio era passata in reparto per ritirare le

    sue analisi e lui, affabile come sempre, le aveva chiesto di aspettarlo assicurandole che sarebbe andato personalmente a prenderle dal laboratorio: sarebbe tornato di lì a mezz’o- ra. In effetti era sceso in laboratorio a scartabellare fra gli istologici dei pazienti. Proprio prima di aprire i fogli si era incrociato con Verne e da lì era nata quella discussione così spiacevole da rendergli ancora più indigesto il mancato invito, atteso da tempo, per il convegno europeo Nuove prospettive di chirurgia ricostruttiva della palpebra e da far- gli dimenticare il suo impegno con la ragazza, come si chiamava? Irene, no, Eleonora. Sapeva che un messaggio o una telefonata di scuse non avrebbero placato il proprio ram- marico. Non gli accadeva mai di dimenticarsi dei pazienti. O forse sì. Ma si trattava dei casi meno importanti. Invece Eleonora Castoldi gli era sembrata realmente preoccupata, sebbene avesse cercato di non darlo a vedere. L’attimo di smarrimento balenatole negli occhi non si confaceva alla pazienza che abitualmente riusciva a mantenere di fronte alle intemperanze del padre o durante le interminabili attese per le visite.

    Non poté fare a meno di sgranare gli occhi guardando le cifre rosse del congegno sul cruscotto.

    Angelo si accorse, solo in quel momento, di avere in mano l’automobilina del suo giova- ne paziente; la porse al taxista che subito cominciò a rollarla sul palmo della mano.

    Impiegò qualche attimo prima di capire che si trovava ancora di fronte all’ospedale im- merso nel fulgore di una limpida giornata autunnale. Il traffico era quello impazzito d’i- nizio mattinata, quando ognuno tenta di infilarsi, senza troppi intoppi, nella colonna di mezzi diretti verso il centro della città. Scostò il polsino dal quadrante dell’orologio: le 8 e 27. Solo in quel momento gli tornarono in mente i numeri rossi che aveva interpretato come quota del tassametro, ma che a quanto pare indicavano l’orario.

    Si guardò smarrito intorno cercando una spiegazione logica a quella nemesi temporale. Tornò sui passi, verso l’ingresso dell’ospedale. Salutò l’infermiera bellina di "chirurgia

    due", due colleghi di oncologia, il ragazzo del bar con il vassoio pieno zeppo di caffè e cornetti.

    -

    Quando passò il badge nella macchina il responso fu irrefutabile: ore 8,30.

    Verne gli passò a fianco: - Dobbiamo parlare io e te: e non far finta di scordartene Angelo, ti conosco. -

    Era tutto già accaduto.

    Gli interventi del giorno (tre asportazioni, una ricostruzione, un’ustione di secondo gra- do).

    I panini alla bresaola di Luisa l’infermiera specializzata e il caffè riscaldato durante la pausa.

    Il bambino del pronto soccorso con un’ampia lacerazione provocata dalla stretta dei cani- ni di Puffo, il pastore tedesco del vicino. Fu a quel punto che prese le distanze verso eventi a lui già noti, cercando di imprimere una nuova direzione.

    Cosa aveva da perdere? Se Renzi avesse mantenuto invariata la sua decisione di mandare Iceberg lui comunque avrebbe fatto la sua bella figura di persona altruista. Ma se per un attimo il prof. avesse captato il recondito messaggio nascosto dietro l’innocenza di quelle parole, per acquisire esperienza, non tutte le speranze di partecipare al convegno sa- rebbero andate perdute.

    Angelo uscì dallo studio riappacificato con il mondo, pronto ad affrontare il ciclone Ver- ne, il cui incontro, era sicuro, sarebbe avvenuto di lì a dieci minuti. Prima però si imbatté

    nel quieto sguardo di Eleonora Castoldi. Lo aspettava nel corridoio, pacata come sempre.

    Erano mesi ormai che si era accorto di quella donnina minuscola e indomita, continua- mente dedita alla demenza del padre e alle cicatrici da ustione che si era accidentalmente procurato. Fra una medicazione e l’altra del vecchio si era reso conto del neo frastagliato che campeggiava sul palmo della mano della ragazza e le aveva consigliato di asportarlo. Lei aveva temporeggiato tutte le volte. Era riuscito a convincerla solo un mese prima, durante l’ultima visita del padre.

    Il neo si era rivelato peggiore del previsto.

    Si accorse di aver detto troppo quando l’occhiata di lei si era fatta vagamente interroga- tiva. Non gli era ancora mai successo di farla aspettare invano; non sarebbe mai dovuto succedere.

    Sette livelli più giù le analisi di Eleonora Castoldi e del signor De Rita erano in mano sua. Fece appena in tempo a leggere quelle del paziente più anziano, conosceva già il respon- so, quando, entrato che fu in ascensore, si trovò faccia a faccia con Verne.

    Verne sentendosi preso di contropiede ebbe appena la forza di sussurrare un come?

    Immaginando dove la discussione sarebbe andata a parare Angelo sfoderò la migliore delle sue espressioni affabili: - Sì, lo so, lo so. Parliamo di cose serie piuttosto: venerdì ce ne andiamo io e te a vedere i Blue Train ensemble al Time out poi ci facciamo due birre. Va bene? -

    Non attese nemmeno la solita ramanzina sulla superiorità della musica folk sicula: lo piantò in asso sventolando i fogli che aveva in mano come fazzoletti pronti per il repenti- no commiato. Arrivò quasi cinque minuti in anticipo sull’appuntamento con De Rita che trovò piantato sulla soglia dello studio. Sebbene avesse già vissuto il colloquio a causa dello strano sdoppiamento temporale di quell’incredibile giornata, non gli fu facile cerca- re di nuovo le parole adatte per spiegare l’aggressività del suo male, mentre fu facilissimo per De Rita comprendere il senso di ciò che velatamente gli veniva detto. La rassegnazio- ne dei pazienti, se da un lato facilitava i discorsi difficili, dall’altro lasciava un persistente gusto amaro in bocca, nonostante la consuetudine affinata da anni di professione. Nella sua giornata parallela doveva essere stato quel sentimento latente di sconfitta, ampli- ficato dalla discussione con il collega terminata in malo modo, a provocare il repentino desiderio di uscire dall’ospedale, facendogli dimenticare le sorti di Eleonora Castoldi e delle sue analisi imprigionate nella busta.

    Appena l’uomo se ne fu andato Angelo si mise a sedere di fronte alla scrivania e aprì i fogli dell’esame istologico di Eleonora, convinto di terminare serenamente la giornata. Invece l’amarezza lo colse di nuovo.

    La trovò lungo il corridoio intenta ad osservare la stampa sbiadita di un albero di magno- lia appesa alla parete. Probabilmente non l’aveva sentito arrivare, persa nel rimbombo della corsia. Angelo indugiava nel chiamarla. Si chiedeva come fosse possibile spiegare ad una ragazza la stessa cosa detta poco prima, con estrema difficoltà, ad un paziente piuttosto attempato. In realtà gli era sempre sfuggita l’età di quella donna indefinibile: ricordava la prima volta che l’aveva vista, intenta a mantenere calmo suo padre il giorno in cui erano dovuti intervenire sull’emorragia che si era procurato squarciando la sutura sullo zigomo, tenera e ferma come una madre di fronte alle escandescenze di un figlio disgraziato. Seria e posata come una sorella minore che voglia dimostrarsi all’altezza del- le aspettative quando ascoltava da lui come avrebbe dovuto trattare le cicatrici in via di guarigione. Una donna qualsiasi, mimetizzata in abiti dai colori pallidi, inusuali per chi, giovane come lei, avrebbe scelto di risaltare piuttosto che scomparire. Eppure il suo modo di sottrarsi la rendeva ancora più evidente, rivelandone l’essenziale.

    Solo nel momento in cui lei si voltò gli riuscì di racimolare il fiato necessario per farsi ascoltare:

    Si sedettero l’una di fronte all’altro.

    Fu allora che Angelo la vide per come realmente era: una ragazza più giovane delle re- sponsabilità che le si erano incollate addosso. Avrebbe potuto essere sua figlia, una figlia più matura di lui, e lo assalì la solita nostalgia di qualcosa che non c’era. La pelle liscia

    del viso contraddiceva la profondità degli occhi scuri che andavano facendosi più pensosi man mano che il silenzio si prolungava. Allora desiderò che quegli occhi conservassero la tranquillità che proprio lui le avrebbe tolto ben presto.

    Eleonora

    La ragazza sgranò gli occhi. La prima cosa che le venne in mente fu lontano da qui. Non si era ancora resa conto di dove fosse né degli avvenimenti appena accaduti. Riu- sciva solo a sentire i propri capelli gocciolare, l’acqua che le colava lungo le spalle. Poi provò a riavvolgere la sequenza delle azioni che l’avevano condotta fin lì, lasciando che la sua mente seguisse a ritroso un invisibile filo di Arianna: lentamente tornò allo scro- scio d’acqua che l’aveva sferzata lungo la strada, al momento in cui aveva messo il naso fuori dalla porta scorrevole dell’ingresso, sorpresa di veder cadere tanta acqua e di non esserne minimamente preoccupata; ricordò di quando aveva provato a scendere le scale di corsa nonostante sentisse le gambe trattenute da una morsa e ancora prima, il momento in cui aveva aperto con violenza involontaria le porte del reparto; la fuga dal corridoio; lo sguardo sinceramente preoccupato del dottore; l’attimo in cui le aveva stretto le mani; le sue parole.

    Il taxista si girò un attimo verso di lei per scrutare quanto le sue parole potessero averla offesa. Fu allora che lei si rese conto della sua espressione confusa e di quanto fosse gio- vane.

    come ci appaiono di solito, ma in maniera completamente diversa. A volte penso che sia- no anche più belle -, sussurrò trasognata.

    Il ticchettio secco della grandine lasciò sul vetro volute ghiacciate che occultarono a lun- go la strada. Nonostante la visibilità completamente ridotta il taxista continuava a guidare senza apparente difficoltà, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. La sua sicurezza aveva tranquillizzato la ragazza che si era abbandonata sul sedile, vinta dal dondolio del taxi e dall’impressione che le parole di lui non fossero prive di senso.

    Giunsero a destinazione proprio quando i chicchi di grandine avevano cominciato a scio- gliersi sul parabrezza.

    Eleonora sorrise con gratitudine a quello sconosciuto che per un attimo le aveva fatto dimenticare la sua vita che andava a rotoli.

    Ma non era la strada di casa. Non era arrivata a destinazione. Era tornata al punto di par- tenza. Il viale dell’ospedale aspettava i suoi passi mentre il vento reso fresco dalla pioggia appena caduta portava umori lontani di erbe. Ciò che risultava inspiegabile non era tanto il fatto che il taxista l’avesse ricondotta indietro. Piuttosto le sembrava irreale il luogo o meglio il tempo in cui esso era immerso: il tepore frizzante dell’aria non era quello solito di una giornata umida di fine ottobre. La luce che filtrando fra le nubi appena sgravate dall’acqua cominciava a rischiarare i tigli del viale era troppo vivida in confronto a quel- la dei pallidi pomeriggi dei giorni precedenti. Pensò di prendere un autobus per tornare verso casa, così arrivò alla fermata vicino all’ingresso dell’ospedale e si guardò attorno, quasi per cercare un segno qualsiasi che le indicasse la sensatezza di ciò che le stava ac- cadendo. Non si accorse dell’uomo con la valigia in mano che camminava in direzione opposta alla sua per cui non poté evitare la collisione. Vacillarono solo un attimo, sorpresi della violenza dell’urto, per poi scusarsi all’unisono. La valigia dell’uomo era caduta a terra rimanendo con la cerniera mezzo aperta quasi fosse un coccodrillo dal sorriso ma- landato.

    La faccia simpatica del prete e la sua benedizione travestita da battuta scherzosa distrasse- ro per un momento Eleonora che si trovò suo malgrado a varcare l’entrata dell’ospedale, salvo chiedersi subito dopo cosa stesse facendo. Le gambe camminavano automaticamen- te spinte da un impulso sconosciuto. Le tornò in mente, vivida come se la stesse vivendo per la seconda volta, la conversazione di appena mezz’ora prima con il dottor Santilli.

    mai buone. Era stato così anni prima con il professore che aveva operato la mamma e in seguito con il neurologo che aveva diagnosticato la demenza del padre. Sono tutti gentili. Ti fanno sedere. Ti guardano a fatica negli occhi, nella migliore delle ipotesi, e poi giù con la mazzata. Ci sono i dottori che si aiutano con carte, esami e paroloni utili solo a prolungare l’agonia. Ci sono invece quelli che vanno dritti al sodo, brutali e asettici. Il risultato non cambia: si rimane mezzo inebetiti a riflettere su come si potrà mai superare quel momento, completamente incapaci di raccogliere il mucchietto residuo di forze ne- cessario ad alzarsi e andarsene lontano. Poi si pensa alle cose più assurde. Appena saputo del tumore della mamma, ad esempio, Eleonora si era chiesta chi le avrebbe mai più preparato il brodo con il cardone per il pranzo di Natale. Alla notizia della malattia di suo padre invece aveva temuto di non riuscire a rintracciare il numero di telefono dello zio Nando, quello di Norcia: si era perso con l’agenda e nella memoria tarlata dell’uomo che insisteva a chiamarla Irene, come sua madre.

    Anche il dottor Santilli era stato gentile, l’aveva fatta sedere e l’aveva guardata a fatica negli occhi. Dopo una breve esitazione, però, aveva accennato un sorriso triste, colmo di una sincerità insolita.

    Aveva fatto una pausa prima di ingoiare il boccone d’aria che aveva inspirato a fondo. Le sembrava di rivedere il pomo d’Adamo andare su e giù, come se inseguisse un’idea che doveva tormentarlo più del solito.

    -Quello che abbiamo asportato dalla mano non era un semplice neo, ma un melanoma. Sai di cosa si tratta?-

    -È una forma tumorale-, aveva detto lei e il fil di voce le era uscito più giù delle corde vocali, dalle viscere, che prima della sua mente avevano colto cosa le stava accadendo e si preparavano a reagire per non lasciarla isolata nell’apnea di idee da cui sarebbe stata risucchiata.

    -Che vuol dire tutto questo?-

    -

    Ecco: il suo pensiero assurdo era stato quello. Le era scappato dalla bocca prima di po-

    terlo mettere a tacere.

    Il dottor Santilli l’aveva guardata interdetto, poi era scoppiato a ridere, probabilmente sollevato dalla sua reazione; le aveva preso la mano e aveva toccato la cicatrice ancora fresca fra l’indice e il pollice - Ti prometto che dopo l’intervento la mano sarà più bella e agile di quanto sia adesso. Suonare il pianoforte e importante per te? -

    Aveva provato a spiegargli che ci sarebbe voluto

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