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Io, immigrato clandestino
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E-book123 pagine1 ora

Io, immigrato clandestino

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Info su questo ebook

L’autore documenta in modo serrato e poetico il viaggio che lo ha portato in Italia, dopo un lungo periodo di incredibile sofferenza fisica e morale. La lettura è da consigliare a tutti, e soprattutto a chi ancora pensa di poter respingere popoli in movimento.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835824268
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    Io, immigrato clandestino - Sidy Lo

    IO, IMMIGRATO CLANDESTINO

    di Sidy Lo

    Prima edizione: ottobre 2019

    Tutti i diritti riservati 2019 @BERTONI EDITORE

    Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana

    Bertoni Editore

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata. 

    Sidy Lo

    IO, IMMIGRATO  

    CLANDESTINO

    I

    La mia infanzia

    Mi chiamo Sidy Lo e sono nato in Senegal l’11 luglio del 1983. Sono cresciuto a Dalifort, che altro non è che una bidonville a venti chilometri da Dakar. Sono il quarto di sette fratelli, tutti maschi. Mio padre, che lavorava in uno stabilimento di trasformazione del pesce, ha avuto in totale quattro mogli e ventuno figli. Da mia madre si è separato ed è morto quando avevo quattordici anni dopo una malattia fulminante. Il mio villaggio, come altri nella zona, è nato grazie alla tenacia di persone come i miei genitori. Non sono originari di Dalifort ma si sono trasferiti vicino alla capitale per cercare lavoro e dare un’istruzione ai figli. Non potevano acquistare una casa in città, perché i prezzi erano troppo alti. 

    Così, insieme ad altre persone nelle stesse condizioni economiche, hanno pian piano occupato un terreno fuori dal centro e hanno iniziato a costruire baracche di legno e lamiera dove poter abitare. Quelle erano le nostre case. Non avevamo l’elettricità né l’acqua corrente: quando pioveva, mia mamma non dormiva mai, per mettere i recipienti e raccogliere l’acqua che filtrava dal tetto e ogni mattina si alzava alle sei per andare al pozzo a prendere quella per cucinare, bere e lavarsi. Non avevamo il bagno e per le nostre necessità andavamo nella foresta. Per cucinare facevamo il fuoco e dovevamo raccogliere la legna. Mangiavamo sempre riso e pesce e lo condivamo con olio di arachidi, di cui il Senegal è il primo produttore al mondo. 

    Nonostante vivessimo in condizioni precarie al Governo non andava bene la nostra sistemazione. Non voleva le bidonville attorno a Dakar e ogni tanto arrivava la polizia a sirene spiegate per tentare di sgomberare  con la violenza il nostro villaggio. Vivevamo con la paura costante di quelle incursioni, ma non sono mai riusciti a mandarci via. 

    Quando avevo otto anni la mia casa ha preso fuoco e abbiamo perso tutto. Mia mamma era uscita per fare la spesa e non c’era nessuno. Al nostro rientro abbiamo trovato la casa completamente distrutta. Nel villaggio ci sono spesso degli incendi. Noi, però, siamo rimasti. Abbiamo occupato un’altra casa vicina e ci siamo trasferiti. 

    Da bambini la nostra vita era tutta incentrata sul villaggio e sulla scuola. C’erano due associazioni, una tedesca e una americana, che ci aiutavano fornendoci il materiale scolastico e i medicinali nonché contribuendo a pagare gli insegnanti. 

    Da noi la scuola durava nove mesi. Quando finiva il periodo canonico delle lezioni e iniziavano le vacanze estive i genitori non ce la facevano a prendersi cura di noi: dovevano lavorare e badare alla casa, per cui la scuola rimaneva ugualmente aperta. Una specie di centro estivo, nel quale entravamo alle  ore otto e rimanevamo lì fino alle ore diciassette. Tutti i giorni. È stato un periodo bellissimo! Liberi dal dover apprendere le materie normali ci dedicavamo a tante altre attività. Ho imparato lì l’arte della pittura che, col passare del tempo, è diventato uno dei miei principali hobby e ancora oggi amo dipingere. 

    Nella mia bidonville c’erano molti traffici illeciti. La polizia non girava mai per le strade e in molti avevano campo libero per vendere hashish e crack. Altre droghe no perché sono molto costose e non c'era mercato. Girava molto alcol e ogni notte c’erano fatti violenti, scontri continui tra le bande rivali. La cosa bella è che non c’erano tensioni religiose: cristiani e musulmani vivevano in armonia. Nessuno faceva caso alla religione.  La mia prima moglie, ad esempio, è cristiana ed io sono musulmano. 

    Sin da bambino ho visto molti gesti violenti che mi hanno segnato. Il primo che mi ricordo è un uomo che si è suicidato sui fili elettrici. Avevo sette anni. Nel villaggio ci sono tanti suicidi ed è un dramma. Poi l’alcol e il crack sono un altro tentativo di evadere e dimenticare la realtà in cui vivevamo che contrastava con la ricchezza delle famiglie che abitavano nelle altre zone di Dakar.

    In Senegal, nei quartieri pià poveri, le donne sono costrette a convivere con la violenza. Non sono rari i casi di bimbe, anche piccole, che subiscono violenze sessuali di ogni genere. Alcune sono violenze vere e proprie, altre sono frutto di tradizioni antiche e barbare. Se una donna che ha una figlia, ad esempio, si sposa in seconde nozze, il marito può far sesso sia con la moglie che con la figlia. È una violenza vera e propria. Un’altra piaga è l’infibulazione a cui alcune bambine tra i quattro e i cinque anni vengono ancora sottoposte.

    Da bambini, però, queste cose non le notavamo. Eravamo liberi e felici tra le attività della scuola e quelle che facevamo per aiutare la famiglia, magari raccogliendo legna o dando una mano con l’acqua. 

    Durante l’adolescenza le cose sono cominciate a cambiare. Dagli undici ai sedici anni sono passato al collège che era gestito dal governo senegalese. Dopo i sedici anni ho dovuto smettere per via dei costi del trasporto e del cibo che mia mamma non riusciva a pagare per tutti i figli. Al collège ho iniziato il comportamento da bad boy e ho conosciuto Tapha, il mio migliore amico, e Fa, il mio primo amore. 

    Noi ragazzi, già dai 12 anni, cominciavamo ad organizzarci in bande. In genere ci dividevamo in base alla musica che ascoltavamo e spesso nascevano rivalità. La mia banda si chiamava Pirat Action Cobra. Io amavo la musica hip hop e avevo imparato anche a scrivere poesie e a fare un po’ di musica. Fumavo sigarette e un po’ di erba. Non mi piaceva bere, anche perché non ho mai retto l'alcol. Quando entravi in una banda era normale cominciare a fumare sia droga che sigarette. Il leader della mia banda non abitava nel mio quartiere: era nato al centro di Dakar ed era abbastanza ricco visto che il padre lavorava col Governo. Era la pecora nera della famiglia. Era stato in prigione e quando è uscito, dopo essere stato ripudiato dalla famiglia, è arrivato nel villaggio. Più grande di noi, conosceva l’hip hop e la break dance. Si chiama Youssuf Geant e aveva i dread lock. Era vestito bene, portava scarpe di marca ed è diventato il capo del gruppo, quello a cui tutti volevamo somigliare, il vero capo carismatico. 

    Volevamo portare le scarpe di marca. Per un senegalese è quasi uno status symbol avere le Nike o le Jordan ai piedi. Essendo poveri, però, non sempre potevamo comprarle. Sin da ragazzi, così, tutti noi lavoravamo. Io, ad esempio, in un primo momento trasportavo il pesce dal porto all’azienda e poi facevo lavoretti saltuari come muratore. In quel modo, riuscivo ad aiutare mia mamma a casa e potevo risparmiare qualche spicciolo per le scarpe e i vestiti dei miei sogni. 

    In una realtà senza certezze, come quella in cui vivevamo noi, la banda rappresentava un punto di riferimento. Eravamo amici, condividevamo gli stessi gusti musicali, facevamo tutto insieme, anche atti di violenza. Avevamo delle bande rivali: gli Action 5 e i Cumpa. I più violenti, quelli di cui bisognava avere paura eravamo noi e gli Action 5, con i quali avevamo spessissimo degli scontri. Nessuno è mai rimasto ucciso o ferito gravemente, per fortuna, anche se spesso, quando sconfinavamo dal villaggio, la polizia ci fermava e passavamo la notte in commissariato. 

    II

    L’impegno politico e le mie famiglie

    Con l’adolescenza ho iniziato a rendermi conto della nostra povertà, della mancanza di regole all’interno del nostro villaggio, del fatto che le nostre case erano senza comfort. È per questo che ho iniziato ad impegnarmi in politica. In Senegal abbiamo avuto due presidenti in quarant’anni, ed io, come molti altri giovani, volevamo cambiare il Paese. Per questo, mossi dalla voglia di rivalsa, abbiamo provato a scioperare, visto che mancavano i professori e non avevamo bagni. Anche in quel caso ci ha fermato la polizia e ci ha portato in commissariato per due ore, il tempo di chiamare i nostri genitori. Noi ragazzi, però, eravamo furbi. Per evitare le punizioni ci accordavamo con alcuni adulti che lavoravano vicino alla scuola che fingevano di essere i nostri genitori. Non c’era niente di più facile visto che in Senegal non esiste l’anagrafe. Basti pensare che io, ad esempio, non so nemmeno quando è nata mia madre e lei stessa non lo ricorda. Non era difficile, perciò, far credere che un uomo o una donna diversi fossero i miei genitori.  

    Appena lasciata la scuola ho iniziato ad impegnarmi politicamente. La maggior parte degli adulti appoggiava il partito socialista, cui apparteneva chi era al governo, ma noi ragazzi, sin dagli anni della scuola, abbiamo appoggiato il partito democratico senegalese di Adloulaye Wade, un avvocato che è diventato presidente nel 2000 dopo ventisei anni di opposizione. Quando parlava Wade ci mostrava un paese diverso, con diritti per tutti, quello che volevamo noi ragazzi. Ogni venerdì partecipavo alle riunioni, nelle case o nelle piazze, mi impegnavo e, nel frattempo, vivevo nel miraggio dell’Europa benestante e libera. 

    A venti anni mi sono sposato la prima volta con Ana, una ragazza cristiana che all’epoca aveva diciotto anni. Ci eravamo conosciuti nel villaggio. Lei non era nata lì ma era arrivata con la sorella da fuori e lavorava facendo le pulizie in una casa vicino a quella di un mio amico.

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