Roma Arena Saga. La sfida
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Simon Scarrow
Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.
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Anteprima del libro
Roma Arena Saga. La sfida - Simon Scarrow
Capitolo uno
Roma, tardo 41 d.C.
Alla fioca luce del sole morente, l’optio Lucio Cornelio Macrone osservava gli operai smontare le tribune dell’anfiteatro temporaneo, scuotendo la testa. I lavori di sgombero nel Foro di Cesare erano mastodontici. Appena qualche ora prima, nel pomeriggio, aveva assistito all’incontro in cui il giovane allievo Marco Valerio Pavone aveva sconfitto il barbaro Britomaris mandando il pubblico letteralmente in delirio. L’imperatore Claudio e il suo seguito di liberti, invece, sulle prime erano rimasti a osservare con glaciale disprezzo quell’espressione di adorazione nei confronti del figlio di un legato traditore di Roma, poi avevano abbandonato speditamente l’arena. Qualche minuto dopo anche il resto del pubblico si era riversato nelle strade, svuotando la cavea, e Pavone era stato rispedito alla scuola gladiatoria di Paestum. In quel momento sul Foro incombeva una quiete quasi sinistra; gruppi di inservienti spazzavano da terra le tesserae d’accesso in argilla gettate via e frammenti di boccali. Due schiavi si affannavano per issare, non senza difficoltà, il corpo di Britomaris su un barroccio.
«Per la miseria!», borbottò tra sé Macrone, scalciando, indispettito, un pezzo di boccale a terra. «A quest’ora avrei dovuto essere in Germania, non in questa dannata Roma».
«Puah! Ringraziali, gli dèi, invece di imprecarli!», lo rimbeccò il pretoriano a presidio dell’entrata dell’arena. Il compagno abbozzò un sorriso. I due avevano ricevuto l’ordine ben preciso di tenere d’occhio Macrone finché il braccio destro del segretario imperiale non fosse tornato da palazzo. «Se vuoi sapere come la penso io, amico, ritieniti fortunato a non essere stato eliminato. Di solito è questa la fine di tutti quelli che fanno girare le scatole agli imperatori e Claudio non fa certo eccezione». Ammiccò al compagno. «Il che mi ricorda una cosa. Come va la testa?».
Macrone si portò una mano sulla ferita e grugnì disgustato. Il sangue si era seccato, appiccicando insieme ciocche di capelli. Indispettito, ricordò il colpo che solo un istante prima dell’entrata dei gladiatori nell’arena gli aveva mollato proprio il pretoriano che in quel momento aveva di fronte. Steso da un dannato pretoriano, pensò con una fitta allo stomaco per l’umiliazione.
«Senza rancore», ridacchiò la guardia. «Così impari a non ficcare il naso dove non devi».
«Sfotti di meno», gli ribatté Macrone. «Stavi avvelenando la punta della lancia per essere sicuro che Pavone morisse anche in caso di vittoria! E io questo non lo chiamerei esattamente corretto».
La guardia fece una smorfia. «Questa è Roma, amico mio. Qui la parola corretto
non esiste».
«Sei una schifosa carogna. Proprio come quel viscido greco, Murena».
«Che cosa hai detto, optio?», irruppe all’improvviso squillante una voce alle sue spalle.
Macrone si voltò. Dall’oscurità del corridoio che sbucava sul portico occidentale spuntò a passo lento una figura magra. Servio Ulpio Murena, assistente del segretario imperiale, incedeva in maniera calcolata, misurando accuratamente ogni singolo passo e guardando a destra e a sinistra.
«Niente», rispose secco Macrone mentre il liberto si fermava a scrutargli la faccia. Salutò il soldato con un garbato sorriso, poi fulminò i due pretoriani e fece loro un cenno con la testa in direzione dell’arena. «Voi due, andate a dare una mano agli inservienti».
Il pretoriano sulla destra lo guardò incredulo, protestando: «Quello è lavoro da schiavi, non per pretoriani».
«Il vostro lavoro qui è finito. Vi ho appena dato un ordine, a tutti e due».
«Ma...».
«Fate come ho detto o vi faccio trasferire al confine sul Reno».
La guardia grugnì al compagno e di malanimo entrambi si incamminarono lentamente lungo il corridoio di accesso all’arena, borbottando a denti stretti. Murena riportò tranquillamente lo sguardo su Macrone. Gli scuri capelli ricci arruffati, gli occhi grigi iniettati di sangue, la fronte profondamente segnata. Snervato, pensò l’optio.
«Questo avrebbe dovuto essere un giorno di festa», si lamentò il liberto. «Il giorno in cui un romano eliminava uno schifoso gallo». Nel dirlo Murena lanciò un’occhiataccia contrariata al corpo steso sul pianale del barroccio. «E invece Pallade mi sta facendo girare come una trottola per spegnere fuochi».
Al nome di Marco Antonio Pallade, Macrone si sentì schizzare il sangue al cervello. Era stato proprio il segretario imperiale a montare tutto quel piano di far combattere Pavone contro Britomaris. Il liberto rivestiva ufficiosamente la carica di consigliere personale dell’imperatore Claudio e Macrone si disse che Murena poteva anche essere un uomo spregevole e bieco, ma in ogni caso era Pallade il solo e unico responsabile del suo fin troppo prolungato soggiorno
a Roma per eseguire gli ordini del palazzo imperiale.
«Risparmiati le storielle strappalacrime», gli ribatté l’optio. «Avete quello che volevate. Pavone ha vinto, giusto? Britomaris è morto. Tu e Pallade avete la vostra preziosa vittoria. Il vecchio Claudio può dirsi più che soddisfatto di avere accanto due come voi. Io qui non vi servo più. Il mio posto è in Germania, a eliminare il resto dei suoi amici barbari», terminò Macrone, indicando con un cenno brusco della testa il corpo di Britomaris. «Schifosi barbari...».
Murena si torse le mani, apparentemente alle prese con un terribile dilemma. «Dimentichi che Pavone è ancora vivo, optio. E per giunta celebrato dal popolo! Qualcuno lo considera già un vero eroe romano, per tutti gli dèi!». Il liberto continuò con un’espressione sofferta in viso. «Non mi sorprenderei se stessero già riempiendo i muri della città di scritte che inneggiano alla sua vittoria. Ti rendi conto di cosa potrebbe pensare l’imperatore Claudio se venisse a sapere della nuova fama di Pavone?»
«Pensavo fosse già palese dalle urla del pubblico», commentò Macrone. Distolse lo sguardo dall’arena e si incamminò, superando Murena.
«Dove diamine pensi di andare?», gli sbraitò dietro il liberto.
«Alla taverna più vicina», tuonò di rimando il soldato avviandosi lungo il corridoio verso la scalinata marmorea che portava in strada. «Ho voglia di prendermi una bella sbronza. Per oggi penso proprio di aver fatto il pieno delle tue stronzate».
«Non puoi andartene!», ringhiò Murena. «Non prima di aver finito il lavoro che hai iniziato per me...».
Macrone sentì un rivolo di sudore freddo strisciargli giù lungo la schiena come una serpe. Non aveva ancora finito? Era stata già fin troppo dura prendere ordini anche una sola volta da quei subdoli di Murena e del suo padrone Marco Antonio Pallade, e la sola idea di dover iniziare una seconda missione per loro conto gli metteva i brividi.
«Non avrei mai dovuto lasciare la zona del Reno», disse sottovoce. Strinse i pugni quando udì l’eco dei passi strascicati del liberto che lo rincorreva. Essere decorato per un atto di eroismo avrebbe dovuto essere il momento di maggior orgoglio per la sua carriera; invece, si ritrovava quasi a rinnegare il maledetto giorno in cui aveva valorosamente guidato l’attacco contro il villaggio dei ribelli sulla riva settentrionale del Reno. Le sue coraggiose gesta gli avevano portato solo conflitti e problemi da quando era stato richiamato a Roma per ritirare la decorazione e addirittura un’inattesa promessa di promozione a centurione; e alla fine, invece di riprendere subito la strada per il Reno, si era ritrovato costretto a soddisfare le richieste della coppia di liberti greci che erano gli occhi e le orecchie dell’imperatore.
«Se solo quell’idiota di Britomaris avesse ferito Pavone, avvelenandolo!», brontolò Murena, rimettendosi al passo con Macrone e alzando le mani in aria in segno di disperazione. «Ma ha fallito. Pavone è sopravvissuto e adesso temo che tu debba rimanere qui per aiutarmi a rimediare a questo increscioso problema».
«Trovati qualcun altro per i tuoi sporchi affari. Io non sono interessato».
Murena inarcò un sopracciglio. «E che mi dici della promozione a centurione?»
«Preferisco rimanere optio sul Reno piuttosto che diventare centurione a Roma», rispose Macrone, scrollando le spalle.
«Gli imperatori vanno e vengono», ribatté il liberto. «E lo stesso vale anche per i soldati. Persino uomini come me e Pallade non ci saranno più, un giorno. Ma Roma è eterna. Rimarrà per sempre».
«Ma per favore...», brontolò stufo Macrone. «Risparmiami il tuo falso patriottismo. A te interessano solo potere e denaro, non provare nemmeno a volermi far credere il contrario».
Murena gonfiò il petto scarno. «Comunque tu la pensi, è dovere di ogni uomo servire Roma al meglio delle proprie possibilità. Puoi anche non