Roma Arena Saga. Il campione
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Simon Scarrow
Simon Scarrow teaches at City College in Norwich, England. He has in the past run a Roman history program, taking parties of students to a number of ruins and museums across Britain. He lives in Norfolk, England, and writes novels featuring Macro and Cato. His books include Under the Eagle and The Eagle's Conquest.
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Anteprima del libro
Roma Arena Saga. Il campione - Simon Scarrow
484
Titolo originale: Arena: The Champion
Copyright © 2013 Simon Scarrow and T.J. Andrews
First published as an Ebook by Headline Publishing Group in 2013.
The right of Simon Scarrow to be identified as the Author of the Work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.
Traduzione dall'inglese di Francesca Noto
Prima edizione ebook: novembre 2013
© 2013 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6096-5
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Simon Scarrow
Roma Arena Saga
Il campione
ominoNewton Compton editori
Capitolo 1
Roma, inizio del 42 d.C.
Marco Valerio Pavone lanciò uno sguardo intorno al Circo Massimo, mentre attendeva di vedere l’uomo che aveva ucciso suo padre. Decine di migliaia di spettatori avevano affrontato il gelo del mattino per riempire gli spalti dello stadio dedicato alle corse delle bighe, situato tra l’Aventino e il Palatino, sciamando dalle entrate che si trovavano sopra alle file di negozi al livello della strada e procedendo lungo le tribune per raggiungere i propri posti. Questa volta, invece di venire ad assistere alla solita corsa di carri, tutto quel pubblico si era recato al Circo Massimo per godersi un raro scontro di gladiatori. Il sole scintillava debolmente sopra al Palatino. Nuvole di fumo si sollevavano dalle centinaia di forge in mezzo ai lontani quartieri delle case popolari, mentre Roma si risvegliava lentamente. Dal suo sedile, su uno degli spalti più bassi, Pavone rabbrividì sotto alla brezza gelida che soffiava attraverso lo stadio, e tentò di calmare l’angoscia che gli bruciava nelle vene.
«Dove cazzo è Ermete?», imprecò il soldato seduto accanto al giovane gladiatore. «Mi sto gelando le palle, qua fuori».
Pavone si girò a guardare il suo vecchio compagno e mentore. L’optio Lucio Cornelio Macrone era stato di pessimo umore da quando i due uomini avevano raggiunto il Circo Massimo, quella mattina presto, per assistere a uno scontro di allenamento di Ermete, il gladiatore più acclamato di Roma, contro un avversario meno noto. Pavone si era svegliato all’alba nella sua cella del ludus imperiale, dove lui e gli altri gladiatori sarebbero rimasti rinchiusi per tutta la durata dei giochi, un festeggiamento di dieci giorni in occasione della deificazione della nonna dell’imperatore Claudio, Livia. Macrone si era presentato al ludus con l’ordine di scortare Pavone al Circo Massimo. Quell’escursione sarebbe dovuta essere un piacevole diversivo nella solita fatica degli allenamenti, ma Pavone provava un crescente disagio dentro al petto. Entro un paio di mesi, sarebbe sceso lui stesso nell’arena contro Ermete, la sua nemesi, in un combattimento all’ultimo sangue.
«Dovrebbe arrivare tra poco», rispose. «C’è un intero programma di corse di bighe, dopo lo scontro. Gli organizzatori non possono permettersi grossi ritardi».
Macrone incrociò le braccia sul petto muscoloso e grugnì. «Ovunque sia, sarà meglio che muova il culo. L’aria è più fredda della fica di una Vergine Vestale, stamattina».
Pavone lanciò un rapido sguardo alle proprie spalle, verso le file più alte degli spalti, e si accigliò. «Cosa ci facciamo qui esattamente, Macrone?»
«Te l’ho già detto. Pallade e Murena mi hanno ordinato di portarti qui per guardare un mediocre gladiatore macedone mettere alla prova il grande Ermete. A quanto pare, vogliono che tu lo osservi combattere, prima di affrontarlo nell’arena».
«È strano che vogliano che osservi il mio avversario», osservò Pavone. «Avrei pensato piuttosto che quei due liberti greci avrebbero fatto tutto ciò che era in loro potere per sabotare i miei preparativi per lo scontro».
Macrone si strinse nelle spalle. «E cosa importa? Per te è una rara occasione di vedere Ermete in azione. Se lo chiedi a me, è l’unica buona idea che sia mai venuta a Pallade».
Pavone alzò le spalle, al ricordo del segretario imperiale, Marco Antonio Pallade, e del suo aiutante, Servio Ulpio Murena. I due liberti erano stretti consiglieri dell’imperatore Claudio, e tramavano e complottavano in suo nome per eliminare chiunque rappresentasse una minaccia per il suo regno nascente. Come figlio di Tito, il legato della Quinta Legione che aveva tentato di far tornare Roma una repubblica nei giorni di caos seguiti all’assassinio dell’imperatore Caligola, Pavone era stato considerato un nemico dell’impero e un simbolo di ribellione. Pallade e Murena avevano cercato di liberarsi di lui condannandolo alla miserabile esistenza del gladiatore, e poi facendolo scontrare con una serie di temibili avversari. Ma fino a quel momento, il giovane era sopravvissuto, contro ogni pronostico. E adesso era sul punto di ottenere la propria vendetta.
Pavone aggrottò la fronte e si grattò l’ispido accenno di barba che gli fregiava la mascella. Non gli piaceva, ma radersi era un lusso che ormai apparteneva al passato. «Perché organizzare un semplice scontro di allenamento in pubblico nel Circo Massimo? Non si è mai sentito di un’esercitazione davanti a una simile folla».
Macrone grugnì. «Ermete è più una celebrità che un gladiatore, negli ultimi tempi. Di sicuro gli organizzatori sono certi di ottenere un buon profitto da questo spettacolo. Questa gente non vede l’ora di guardarlo in azione», soggiunse, accennando con un pollice agli spalti affollati.
Pavone osservò la folla. Nello stadio dovevano esserci almeno centomila spettatori. Lui poteva soltanto sognare di attirare tutta quella gente, soprattutto per un semplice allenamento con armi spuntate.
«Hai mai visto Ermete combattere, Macrone?».
L’optio scosse la testa. «Sono sempre stato troppo occupato ad addestrare barbari, ragazzo. Ma ho sentito molto parlare di lui. Sembra che ogni nuova recluta della Seconda l’abbia visto combattere, in un’occasione o l’altra. E non riescono a smettere di parlare di lui a mensa, dannazione».
«Capisco», replicò seccamente il giovane gladiatore.
«Senza dubbio la sua ricchezza ha qualcosa a che fare con la faccenda», borbottò Macrone. «Il gladiatore medio può essere paragonato a uno schiavo in fuga o a un assassino, o cose del genere. I gladiatori, per la maggior parte, possono considerarsi fortunati se sopravvivono per un anno. Ermete combatte da vent’anni… ed è più ricco della metà dei vecchi bastardi del Senato».
Pavone fece una smorfia, al pensiero del destino che attendeva la maggior parte degli uomini che intraprendevano la sua professione. Lui sperava di poterlo evitare. Agitandosi sul sedile, a disagio, lanciò uno sguardo a Macrone. «Dovremmo essere sul campo ad allenarci, non qui a guardare Ermete che si scalda i muscoli».
«Prova a goderti questo momento, ragazzo». Macrone si mise più comodo e batté un’amichevole pacca sulla spalla del più giovane. «In ogni caso, non vedo perché tu debba essere così incupito. Hai avuto ciò che volevi, no? Uno scontro con Ermete e la possibilità di vendicare il tuo vecchio».
Pavone imbronciò le labbra. Sapeva che Macrone non aveva torto. Dal momento in cui Ermete aveva decapitato suo padre, il giovane gladiatore era stato consumato dall’ossessione della vendetta. Tutta la sua famiglia aveva sofferto a causa di Claudio. Sua madre, Drusilia, era stata assassinata nella propria casa, e suo figlio Appio imprigionato nel palazzo imperiale. Pavone era stato privato della sua carica di tribuno militare nella Sesta Legione, condannato al ludus e al disonore di diventare un gladiatore.
«Pallade e Murena stanno tramando qualcosa», rifletté amaramente. «Ne sono certo».
«Questa è la vita a Roma, ormai», borbottò Macrone. «Troppi greci per i miei gusti». Ma poi si illuminò improvvisamente. «Comunque, quando avrai finito di combattere, io sarò libero di tornare tra i miei uomini sul confine del Reno. Non vedo l’ora».
Con un basso grugnito, l’optio distolse lo sguardo da Pavone e assottigliò lo sguardo d’acciaio sulla pista, che era stata trasformata in arena in occasione dello spettacolo mattutino. Un’ellisse di gesso era stata disegnata sul terreno, dalle dodici postazioni di partenza all’estremità occidentale della pista fino alla seconda curva, presso il punto più vicino della barriera divisoria che correva lungo la metà del tracciato, adornata di monumenti e statue di divinità in cima a un tempio riccamente decorato. Le guardie pretoriane erano state inviate a controllare la folla nello stadio. In lontananza, un gran numero di uomini e donne guardava nell’arena dagli edifici ammassati sulle pendici dell’Aventino, sopra al Circo Massimo. Era la prima volta che Macrone vedeva lo stadio, e gli sembrò un’esperienza dolceamara. Da ragazzo non aveva mai potuto assistere alle corse delle bighe, perché suo padre, Amato, disprezzava il gioco d’azzardo. Nei giorni in cui si svolgevano gli spettacoli, Amato teneva sempre occupato suo figlio a lavare le coppe e pulire i tavoli della squallida taverna che possedeva sull’Aventino. Macrone non aveva mai immaginato che un giorno avrebbe visto Ermete combattere proprio lì.
Qualche ora prima, l’optio aveva ascoltato uno speciale annuncio nel Foro. Una grossa folla si era riunita lì per sentire la conferma dello scontro tra Pavone ed Ermete. Le voci di quel combattimento imminente si erano inseguite tra taverne e terme fin da quando il giovane gladiatore aveva trionfato nello scontro di gruppo, il giorno prima, e dal momento in cui la richiesta di Pavone di affrontare Ermete era stata approvata dall’imperatore Claudio. L’aria del Foro era impregnata del fragrante aroma delle spezie esotiche vendute nei banchi del mercato, nelle vicinanze, mentre il sole bruciava in un cielo limpido e terso, e la voce dell’annunciatore riecheggiava nei portici circostanti. I due avrebbero combattuto come provocatori, indossando un’armatura pesante mai provata prima da Pavone. Soltanto i gladiatori più esperti potevano permetterselo, Macrone lo sapeva bene: servivano abilità e forza per muoversi nell’arena con una simile armatura addosso.
Contemporaneamente, gli annunciatori avevano fatto sapere