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Senza parole
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E-book259 pagine3 ore

Senza parole

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Info su questo ebook

Alcuni segreti sono troppo pericolosi per essere svelati

Un successo mondiale

Megan non parla. Da mesi non dice una parola.
Gran parte delle persone a cui tiene si sono allontanate da lei nel tempo, ma per Megan questo è il problema minore. Perché ci sono cose intrappolate nella sua mente - cose che gridano per essere ascoltate - che non può, non deve, lasciare uscire.
Poi a scuola arriva Jasmine: spumeggiante, bellissima, loquace. E per motivi che Megan non riesce a comprendere, la vita comincia a sembrare un po’ più luminosa.
Megan vorrebbe ricominciare a parlare, e sembra che Jasmine possa essere la soluzione. Ma se ritrovasse la voce e perdesse tutto il resto?
Abbie Rushton
ha vinto il premio Undiscovered Voices 2010, un concorso della Society of Children’s Book Writers and Illustrators. Si è laureata in Letteratura inglese e scrittura creativa alla University of East Anglia, e lavora come editor presso un grande editore scolastico. Senza parole è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2016
ISBN9788854195790
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    Anteprima del libro

    Senza parole - Abbie Rushton

    CAPITOLO UNO

    Il cane sta annegando. Ha gli occhi sgranati, iniettati di sangue; le orecchie appiattite sulla testa. Mi getto nel fango sul bordo dell’acqua e tendo la mano per afferrarlo. Non ti farò morire qui.

    Cerca di uscire, ma ha il pelo color crema zuppo e il peso lo trascina giù. I Labrador dovrebbero essere grandi nuotatori, ma dall’aspetto si direbbe un cane anziano e riesce a stento a mantenersi a galla. La testa gli affonda sottacqua. Conto un respiro. Non riemerge. Due. Coraggio! Tre. Riappare con l’acqua che gli cola giù dal muso e tossisce per riprendere fiato.

    I nostri sguardi si incrociano. Il cane emette un suono debole a lamentoso. Niente di simile ai forti latrati che riecheggiavano nel bosco qualche minuto fa. Sembrava spaventatissimo. Ho subito lasciato il sentiero, muovendomi a fatica tra rovi e cespugli alla sua ricerca.

    Tendo la mano e gli faccio un cenno. Il cane ritenta. Stavolta le zampe affondano ancora di più nel fango, le zampe posteriori scalciano. Mi chino in avanti, la melma gelida mi scorre sotto i piedi e il suo odore fetido mi investe la gola. Arrivo quasi al naso dell’animale, ma non trovo un appiglio. Pochi centimetri e potrei afferrargli il collare, ma se avanzassi cadrei anche io. I suoi baffi mi solleticano la pelle e il fiato mi riscalda la mano. Sono così vicina! I muscoli mi dolgono, gridano, tremano.

    Ancora un po’. Puoi farcela!

    Ma le unghie gli annaspano nel fango e affonda con un uggiolio che mi stringe lo stomaco. No. Non arrenderti. Ti prego!

    Mi risiedo sulle ginocchia e mi lancio uno sguardo alle spalle. Una barriera di alberi ci nasconde al sentiero. Resto in ascolto, nella speranza di udire dei passi, ma non c’è nulla. Solo il mormorio del vento che ondeggia tra le foglie e le zampe impacciate del cane che colpiscono l’acqua. Dovrei andare a cercare qualcuno? Non so cosa fare!

    Poi sento una voce maschile. Profonda. Intrisa di preoccupazione. «Jasper!», chiama. «Jasper!».

    Il cane alza di scatto la testa. Apre la bocca per abbaiare, ma invece inghiotte una sorsata d’acqua.

    L’uomo sembra lontano. Potrei provare a cercarlo, ma non posso abbandonare Jasper.

    Qui. Penso. Siamo qui.

    I pensieri non bastano. Mi servono le parole. Mi si ammassano dentro e mi graffiano la gola come prigionieri che cercano di fuggire.

    «Jasper! Jasper!». L’uomo ha paura.

    Per la fretta di liberarsi le parole si accavallano.

    La paura dell’uomo si trasforma in collera. «Jasper, vieni subito qui!».

    Posso farcela!

    Una voce mi lacera la mente, come un’emicrania acuta e lancinante. Cerco di non ascoltarla, ma è talmente forte, talmente violenta che supera qualsiasi altra cosa.

    No, non puoi, Megan. Non puoi proprio.

    E in un attimo, le parole sono sparite.

    Un suono di pura frustrazione mi raschia la gola. Non ho speranza. Sono patetica.

    «Jasper!».

    Incoraggiato dalla voce del padrone, Jasper si prepara per un’ultima spinta. Subito mi rimetto a pancia in giù chinandomi verso di lui. Bravo! Bravissimo.

    Con uno sforzo colossale, Jasper si lancia fuori dall’acqua raggiungendo il limite della sponda. Lo afferro per il collare, vengo strattonata verso l’acqua e per poco non grido. Per qualche eterno secondo, vengo trascinata nella melma, finché il piede non mi si impiglia in un masso. Sento uno strappo alla spalla e il dolore si propaga fino alla caviglia, ma ci fermiamo. Stringo i denti e mi sollevo. Jasper raspa e si dibatte. La presa si allenta. No! Tento di stringere le dita, ma tremano troppo. Sto per perderlo! Non riesco a trattenerlo!

    Non so come, Jasper riesce a spingersi in avanti, mandandomi a gambe all’aria. Mi atterra sul petto tutto il peso di un cane zuppo e mi fa uscire d’un fiato l’aria dai polmoni. Sono stesa nel fango con sopra un cane inzaccherato e puzzolente. E sorrido, prendendo fiato e piangendo allo stesso tempo.

    Jasper si scuote, inondandomi di acqua sporca. Poi cade pesantemente a terra, ansante. Mi guarda e muove la coda: un coraggioso tentativo di scodinzolare. Gli accarezzo l’orecchio e mi strofina il muso sul palmo della mano, poi me lo lecca.

    «Jasper!». L’uomo compare nella radura, ha la voce roca. Chino la testa e i capelli mi ricadono sul volto.

    «Dio, Jasper!». S’inginocchia nell’erba, accarezzando il pelo bagnato del cane. «Stai bene?».

    Non so bene se stia parlando a me o al cane. Ma tanto nessuno dei due risponderà.

    «Cos’è successo?».

    Mi obbligo ad alzare la testa. Magari potrei sorridergli. Ma sono come bloccata. Osservo l’uomo attraverso i capelli.

    «È rimasto impantanato?».

    Non rispondo.

    «Non voglio farti del male».

    Ha un tono gentile, ma non riuscirà a farmi uscire la voce.

    «Non devi avere paura».

    Non pare sorpreso che io non parli. Sembra quasi che capisca. Ma è assurdo. Perché dovrebbe?

    «Puoi dirmi cosa è successo?».

    No.

    «Non mi hai sentito chiamare?».

    A questo punto, gran parte delle persone sarebbe irritata, ma lui pare solo incuriosito.

    «Tutto bene?».

    Vorrei rispondergli. Sembra una persona gentile. Sì, penso, alimentando le parole come se fossero una debole fiamma. Ma la fiamma si esaurisce, lasciandomi in bocca un gusto acre e affumicato. Sconfitta, annuisco.

    L’uomo sospira, ma non vuole ancora arrendersi. «Vuoi che ti chiami qualcuno?».

    Scuoto il capo.

    Mi tocca leggermente il braccio. Mi irrigidisco, ma non mi allontano.

    «Ho degli asciugamani nel bagagliaio dell’auto. Se vuoi venire con me, puoi ripulirti un po’».

    Silenzio. Scuoto il capo. No.

    Grazie, aggiungo.

    «Ok… Non mi piace lasciarti qui, ma devo riportare Jasper a casa».

    Sbircio da sotto i capelli. Jasper sta tremando.

    «Evidentemente hai cercato di aiutarlo. Grazie».

    Vorrei rispondere. Vorrei ringraziarlo per non aver insistito che parlassi, per non avermi fatto altre domande, ma sta già scomparendo nel bosco.

    Penserà che sono un’idiota. Quella parola mi rimbalza nella mente. Idiota. Idiota. Idiota.

    CAPITOLO DUE

    Ventuno, ventidue, ventitré… Sono davanti alla porta con la mano sulla maniglia. L’orologio nel corridoio scandisce i secondi… ventisei, ventisette, ventotto. I tacchi della mamma che scende le scale mi risuonano alle spalle. Mi arriva una zaffata di balsamo al cocco. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che ha in volto un’espressione tra il perplesso e l’esasperato.

    Trentaquattro, trentacinque, trentasei. Quando l’orologio arriva alle otto, sette minuti e quarantotto secondi, abbasso la maniglia e corro fuori.

    «Ciao, Megan!», mi urla dietro la mamma.

    Immagino di dire ciao, le vedo distendere la fronte, sorridere e abbracciarmi con gli occhi lucidi di lacrime.

    Mi lecco le labbra, apro la bocca.

    No!

    Richiudo i denti con uno scatto e invece faccio un cenno con la mano. Risponde al gesto, poi rabbrividisce e chiude la porta. Il sole splende, ma è primavera e l’aria è ancora pungente. Una lattina di birra viene raccolta dalla brezza e tintinna per la strada, fermandosi accanto a un pacco di ciccioli di maiale che svolazza da giorni.

    Accelero, a testa china, sperando di non incontrare nessuno dei vicini. Ho vissuto tutti i quindici anni della mia vita a Scrater’s Close, che è, senza ombra di dubbio, il peggior cesso di tutta la New Forest.

    Non voglio arrivare alla fermata dell’autobus prima delle otto e ventuno minuti, perciò bighellono un po’ per il centro del paese. Non che ci sia molto da vedere a Brookby: un caffè, un paio di pub, l’ufficio postale, un minuscolo negozio di alimentari e una marea di dozzinali negozi per turisti, pieni di roba spirituale tipo cristalli, incenso, immagini di draghi e pupazzi di maghi.

    C’è un gruppo di ragazzini accanto al monumento ai caduti, gran parte con indosso orrende uniformi identiche color bordeaux con sopra il logo della Barcham Green. Scruto la strada. Niente autobus. Accidenti! Mi faccio strada tra i ragazzi con lo stomaco in subbuglio.

    È il primo giorno di scuola dopo Pasqua e l’aria crepita di eccitazione mentre Lindsay e Grace spettegolano dell’ex di Lindsay, Josh prende in giro le scarpe da ginnastica da frocetto di Callum, e Sadie sventola uno sgargiante cellulare rosa. «Me l’ha regalato il mio patrigno», dice, con un guizzo delle chiome color grano.

    C’è qualcosa nell’aria. Si pavoneggiano più del solito. Stanno tutte in cerchio, a chiacchierare e schiamazzare come gabbiani che lottano per un boccone. Può significare solo una cosa: una nuova persona. Scruto attraverso i corpi e colgo fugaci visioni di riccioli neri, un paio di orecchini con piume di pavone e una carnagione color cappuccino.

    «Quanto ti invidio quell’abbronzatura!».

    «Come mai arrivi poco prima degli esami?»

    «In che classe sei? Ti vuoi sedere accanto a me sull’autobus?».

    Se – per qualche miracolo – non sarà Sadie a mettere le grinfie sulla nuova ragazza, chissà con chi finirà. C’è il gruppo delle bone ma sceme, la massa delle noiose normali in tutto e per tutto o – come ultima spiaggia – il clan delle originali.

    Io non rientro in nessuno dei tre. Perciò mi aggiro ai limiti del cerchio: un passero solitario. Se non altro sono distratte. Se non altro non mi hanno ancora notata.

    L’autobus si accosta rombando al marciapiede. Sadie ha la precedenza. Lo sanno tutti, quindi ci tiriamo indietro. Quei fuscelli che ha per gambe si muovono sotto una gonna attillata mentre avanza a grandi passi, con un sorriso trionfante in volto, a braccetto della nuova. La sua nuova super migliore amica ha l’onore di salire per prima. Alzo lo sguardo e prima che si affretti sui gradini vedo due occhi grandi e affascinanti color nocciola.

    Sadie appoggia la mano sul corrimano. Wow. Oggi mi lascia in pace! Rilasso i muscoli, come se mi fossi immersa in un bagno caldo. Ma mi sbaglio. È ovvio che mi sbaglio. Sadie si ferma – senza curarsi del fatto che stanno tutti aspettando lei – e si volta a guardarmi. Le sue labbra, lucenti di uno spesso strato di lucidalabbra rosso, formano una parola: «Mostro». Si passa la lingua sui denti, per assaporarla.

    Lindsay mi lancia uno sguardo, sfidandomi a ribattere. Guardo in terra. Mi vengono in mente un migliaio di cose che potrei dire a Sadie, ma mi limito ad arrossire e a spostarmi in coda alla fila, chiedendomi cosa ne è stato della ragazza di cui ero amica.

    So cosa avrebbe detto Hana: «Te lo dico io cos’è mostruoso, le sopracciglia marrone scuro di Sadie che sostiene di essere bionda naturale». Faccio un cenno con la testa, celando un sorriso.

    Sadie sale sull’autobus. Mentre procede impettita verso il fondo – la business class – guarda dall’alto in basso la plebaglia nei sedili dell’economy. Detesta di non essere grande abbastanza da accedere alla prima classe dell’ultima fila, riservata solo a quelli dell’ultimo biennio.

    Segue Lindsay, ondeggiando i fianchi per il corridoio e passandosi le dita tra le ciocche castane. Metà dei ragazzi sull’autobus si volta a guardarla. Indossa una camicetta bianca sopra un reggiseno di pizzo rosso. Furba.

    Alle loro spalle scivola Grace, pallida e flessuosa. Prima odiava il suo corpo filiforme, ma ora penso che le piaccia essere una delle ragazze più magre del nostro anno.

    Non appena sono salite Sadie e le sue amiche, tutti si precipitano su. Io aspetto in fondo, a occhi bassi, osservando lo stropiccio dei piedi. Le scarpe da frocetto di Callum corrono avanti. Pessima mossa. Qualcuno urla: «Sta’ indietro, finocchio», e gli dà uno spintone. Callum inciampa, per poco non cade, ma riesce a raddrizzarsi. Si unisce a me in fondo, chiamandoli sottovoce «teste di cazzo».

    Povero Callum. Vorrei fare qualcosa per dimostrargli che lo capisco, ma cosa? Allungo indietro la mano e gli stringo il braccio. Qualche secondo dopo, mi sussurra piano in modo che non senta nessun altro: «Grazie, Megan».

    Alzo lo sguardo sull’autobus. La nuova ragazza ci sta fissando dal finestrino. Gli occhi mi corrono nuovamente a terra. Mi dico di espirare. Mi pare di aver dimenticato completamente come si fa!

    Salgo per ultima. Dentro, l’aria è immobile e viziata: una nauseante miscela di piedi, Red Bull e odori corporei. Mi viene voglia di riscendere, ma poi vedo Luke che mi sorride. È nel nostro solito posto sul davanti. Si è fatto crescere i capelli biondo rossicci che gli ricadono sporchi e arruffati sulle orecchie. Scivolo nel sedile accanto e vorrei tanto poter ricambiare il sorriso.

    «Ciao, Megan. Come ti va?», chiede Luke.

    Non alzo lo sguardo ma faccio un cenno con il capo.

    Luke comincia a chiacchierare come se portassimo avanti una conversazione normale. Mi descrive l’orienteering che ha fatto la settimana scorsa. «Eravamo dall’altro lato di Lyndhurst. È proprio bello lì».

    No, non è vero. È pericoloso.

    Non vado più in quella parte della New Forest. Luke dovrebbe saperlo, dopo quello che è successo.

    Quello che è successo per colpa tua.

    Mi irrigidisco. Luke prosegue, incurante. «Non mi pare vero che dopo questo trimestre sarà tutto finito».

    Deglutisco a fatica. Neanche io. Al momento non voglio neanche pensarci.

    Luke mi dà una leggera gomitata e sorride. «Pensi che a settembre dovrei cercare di sedermi in fondo?».

    Scuoto il capo. Luke dovrebbe stare in business class. È intelligente, sportivo, carino, ma ogni giorno si siede qui accanto a me nei posti sfigati costellati di gomme da masticare. Non me la prenderei se se ne andasse. Non sono di grande compagnia. Ma è da tanto che siamo amici. Abbiamo una sorta – non so – di legame, per via di tutte le cose che sappiamo l’una dell’altro. Cose che resteranno sempre tra noi.

    Alle mie spalle si sente il fruscio di un pacchetto di patatine. È Simon, il fratello di Luke. «Ciao, Megan». Si sporge oltre il sedile e mi arriva in faccia un’alitata di cipolla e formaggio. «Hai visto quel programma sull’esercito?».

    Abbasso lo sguardo e scuoto il capo, ma lui si lancia comunque in una descrizione. Simon parla a rapidi scatti, come una mitragliatrice: rat-ta-ta-ta. «Era fichissimo! C’era un tizio, aveva perso mezza faccia. L’esplosione di un ordigno improvvisato».

    Luke si è voltato per guardare dal finestrino, con un sorriso ironico. Simon continua a cianciare, felice di parlare con qualcuno che non gli dirà di stare zitto. È a metà di un monologo sulle mutilazioni facciali quando accanto all’orecchio gli passa una pallina di carta che atterra in grembo a Luke. Si apre leggermente e riusciamo a intravedere una scritta. Dimenticando innesti cutanei e perdite di membra, Simon allunga il collo per cercare di vedere cosa dice.

    Luke la getta in terra senza neanche aprirla, con la mascella tesa per la rabbia. Simon guarda per un attimo, poi si risiede per rimettersi a sgranocchiare patatine. Luke e io restiamo in silenzio, ma continuiamo a guardare la pallina di carta.

    Alla fine, sospiro e mi chino per raccoglierla.

    Luke mi prende la mano. «No».

    Ma non riesco a lasciarla lì. Mi divincolo e la raccolgo, aprendomela con discrezione in grembo. Che rumore fa una muta quando…

    Accartoccio la carta come se potessi schiacciare quelle parole, ma non prima che le veda Luke. Impreca, poi si volta e guarda torvo la strada. Ha la nuca tutta rossa.

    Rovisto nella borsa e strappo un angolo del diario. Ignorali, scarabocchio. Luke piega gli angoli della bocca in un sorriso triste.

    Vorrei tanto avere il fegato di voltarmi e lanciare un’occhiataccia a quegli imbecilli che l’hanno scritto. È così incredibile che io e Luke siamo solo amici? Non mi piace. E sicuramente io non piaccio a lui. Quando c’era Hana, aveva occhi solo per lei.

    L’autobus prosegue uscendo da Brookby e nel giro di qualche minuto ci troviamo circondati dall’ampia e aperta brughiera. È cosparsa di chiazze di ginestra giallo acceso contro il verde delle felci.

    Una mandria di pony selvatici corre a zigzag per la brughiera, le criniere al vento. Gli zoccoli sollevano zolle di terra che volano dietro. Un paio fa un brusca deviazione verso la strada. Il nostro conducente schiaccia il freno e veniamo tutti catapultati in avanti. Simon va a sbattere contro il retro del mio sedile e una ragazza dietro di noi emette un urletto.

    C’è un pony proprio accanto al finestrino. Il mantello color ruggine è chiazzato di sudore e riesco a vedere ogni splendida curva dei suoi muscoli. La mandria prosegue, allontanandosi dalla strada. Sono così imprevedibili, entusiasmanti. Non distolgo lo sguardo finché non li vedo galoppare e giocare in lontananza.

    A scuola c’è una nuova insegnante di inglese: la signora Austin. La testa gli dondola in cima al lungo collo come nel cane della pubblicità delle Assicurazioni Churchill. Mi si forma sul volto un sorriso furtivo quando la immagino dire: «Oh, sì», con un forte accento di Leeds.

    La signora Austin chiede: «Cosa rende il discorso di Calibano così avvincente in questa scena?».

    Nessuno risponde. Per nulla scoraggiata dal granitico silenzio, la Austin vaga con lo sguardo per l’aula. E si sofferma su di me. Un calore mi si diffonde dai piedi fino al collo, le orecchie e la faccia.

    Ti prego non me.

    Ma mi chiede il nome, poi guarda il registro.

    Lasciami in pace, non chiedo altro.

    Scuoto il capo. Lo piego in avanti tanto che i capelli mi ricadono come due tende sul volto. Conosco la risposta, ma le parole sono bloccate dentro di me e non riesco a richiamarle in superficie. Gli sguardi dei miei compagni mi trafiggono come tanti spilli. Stringo le mani.

    Alla fine, qualcuno rompe quel silenzio angosciante. «Non parla, professoressa». La voce di Sadie è pregna di compiacimento.

    Segue una pausa imbarazzata. Possibile che nessuno le abbia parlato di me? La signora Austin annuisce, fornisce lei stessa la risposta e si affretta a proseguire.

    Mentre usciamo dalla classe, Sadie cammina impaziente con Lindsay e Grace alle calcagna che praticamente le sbavano dietro. Sadie dice con ostentazione: «Non c’è di che». Grace ridacchia compiacente.

    Gli occhi mi corrono in terra e mi cingo la vita

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