I brutti racconti di John Not
Di Sanab
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Anteprima del libro
I brutti racconti di John Not - Sanab
INDICE
Risposta Sbagliata
Mosca cieca
Pulizie
Barbecue
Donne senza cuore
Preludio
Madeline
Musica del mattino
Mad Show
Angeli
Bricolage
Giocattoli rotti
Gatto e topo
Ex
Poetica
Amen
Colazione
La misura perfetta
Buonanotte
Copyright © Sanab
Copertina e illustrazioni originali a cura di Drimage creative studio e Sanab Bad Writer
Anno: 2020
Dentro ogni persona ne vivono molte.
Quella che scrive per me, si chiama Sanab.
Non è poco il coraggio da tirare fuori per fare entrare sotto la pelle dei perfetti sconosciuti. Quando l’ho trovato, ho incontrato le uniche persone al mondo che non mi hanno fatto sentire sbagliato.
A loro, dico grazie.
RISPOSTA SBAGLIATA
«Risposta sbagliata.»
Tendo la corda ancora un po’ e il suo collo ne abbraccia qualche millimetro, la lascia affondare nella pelle. Il suo mento si alza, ma non andrà su in eterno.
«Cosa vuoi? Aria?» Annuisce piano mentre dalle ciglia lunghissime lascia scivolare una lacrima.
Qualche ora fa era diversa, con me. Quelle stesse ciglia sventolavano e soffiavano promesse nella mia direzione.
Non allento la stretta sulla fune, che dal suo collo si tende in alto, aggira la trave in legno e finisce arrotolata alla mia mano. Voglio condividere con lei cosa si prova, voglio sentire la sensazione della morsa che stringe entrambi allo stesso modo.
È determinante da quale capo della corda ti trovi.
Siamo qui da ore, forse tre, ma non perché lei non voglia morire. Credo invece che abbia gettato la spugna già da un bel pezzo. Sono io che mi annoio. Sono io che vorrei una risposta alla mia domanda, qualcosa che mi sproni a finirla in modo poetico, plateale, soddisfacente. Invece questa stronza dice solo "ghgh" e fa sì con la testa. A tutto. Sì. Sì.
Mai una cazzo di volta che dica di no, ti pare?
MOSCA CIECA
L’odore di corpi, di vita, di morte, di umori, è persistente come trovarsi in cento ammucchiati in una fossa comune. Siamo solo in due. E lei non può vedermi.
Cerca di acuire gli altri sensi, tende le orecchie e annusa l’aria per decifrare dove si trovi, con chi e, soprattutto, quanta paura dovrebbe avere.
«Ti prego…» sussurra piano da quelle sue labbra di rubino, rosse anche se struccate. Rosse per colpa mia. Le ho morse forte in attesa del suo risveglio.
Non sono un uomo molto paziente, ma ci sto lavorando.
A parte l’ovvio: la prima domanda è stata dove sono?
, la seconda chi sei?
e poi cose come che vuoi farmi, rispondimi, mi metto a urlare… solo l’ultima era stata ti prego
. Ad ogni modo non posso risponderle: riconoscerebbe la mia voce e, che cazzo, se avessi voluto farmi riconoscere non l’avrei bendata, ti pare?
Ammiro il suo corpo girandole attorno.
Le ho legato i polsi in alto, fissati con una catena al gancio preparato sul soffitto. L’ho fatto in maniera premeditata perché non volevo rischiare che un lato del suo corpo mi venisse nascosto. Non l’ho imbavagliata di proposito: dal momento che l’avevo conosciuta si era capito che la sua voce non le avrebbe consentito di urlare molto forte. Certo, ancora non mi ci sono impegnato, ma presto scoprirò se avevo ragione. Non troppo presto: sto lavorando sull’essere più paziente.
Eventualmente ho preparato anche un bavaglio. Ma immagino non servirà. Per praticità le ho già tolto i vestiti dalla vita in su e le ho lasciato gli slip e le scarpe.
Non sono scarpe da puttana. Sono stilose, comode ma sexy. Senza tacco. Come una liceale di venticinque-ventotto anni. Sono carine e le stanno bene, per questo ho deciso di lasciargliele addosso. Così posso sempre sapere che è lei.
Ogni tanto capita di distrarmi e perdere di vista cosa sto facendo, rischiando di andare troppo veloce, troppo piano, di riprendere conoscenza solo alla fine dei giochi e mi tocca ripulire tutto il casino. E, sì, ogni tanto dimentico con chi ho appena giocato.
Queste scarpe, di sabato sera, le può avere solo lei.
Quando l’ho incontrata, qualche ora fa, non aveva il trucco pesante, né la gonna corta, né la camicia scollata. Gli uomini che si aggiravano per il locale non la stavano a fissare, non era da una botta e via. Stava in disparte, non dimenava il culo in pista, non si offriva. Non se l’è cercata
, o meglio, il cercarsela è abbastanza soggettivo. Puoi sistemare i capelli, passarci una mano dentro e far immaginare che quello potrebbe essere più appagante che scoparti. Puoi camminare, sospirare e far desiderare di possedere i tuoi respiri. Puoi bere da una cannuccia e… lasciamo stare. Però mica puoi succhiare così e passare inosservata, ti pare? Lei non aveva fatto niente di tutto questo.
L’avevo sentita ridere e quello era bastato. Presa. Mia.
Alla sua risata penso mentre le giro attorno.
Ogni volta che mi avvicino le concedo un piccolo indizio.
Le sfioro la fronte con la punta del naso. Sono più alto e non di poco.
Le soffio sul viso. Sono un fumatore.
Le poggio il palmo della mano sul volto e lo copro tutto, la punta delle mie dita arriva oltre le sue orecchie. Mani grandi.
Ma non posso parlarle. La mia voce svelerebbe il mio viso. Avevamo parlato tanto al pub, le avevo offerto da bere e l’avevo fatta ridere. Ancora.
Una risata così andava spenta.
Una risata così andava rimodulata in urla. Di dolore. Di piacere.
Un timbro di voce del genere avrebbe raggiunto la sonorità perfetta, urlando. Pensavo a questo mentre versavo la polverina nel suo drink.
Sto di nuovo perdendo di vista l’obbiettivo.
Dunque. Un corpo. Milioni di possibilità. Milioni di modi per farla gridare. Non li reggerebbe tutti ma è adatto a tutto. Bisogna scegliere, schiacciare il tasto giusto per ottenere la sonorità perfetta. Purtroppo non avrò molti tentativi a disposizione prima di farla crollare. Troppo minuta. Troppo delicata. Ha smesso di parlare nel momento in cui mi sono piazzato di fronte a lei, lasciandole percepire la mia presenza ingombrante.
A due passi di distanza sento il suo cuore pompare, le aspettative aumentare (o diminuire, a seconda di cosa si stia aspettando). Ad ogni respiro vibra un po’ di più.
Ogni suo brivido è un attacco deliberato alla mia pazienza che si consuma alla stessa velocità di una miccia.
Ho aspettato abbastanza.
Allora, come posso farti urlare?
PULIZIE
«Signore, mi creda. Lei pensa di non averne bisogno, ma se mi dedicasse cinque minuti del suo tempo, le potrei dimostrare che non ha mai desiderato altro!» esclama l’omuncolo vestito fintamente elegante alla mia porta. Sventola un aspirapolvere verdastro e bianco. Lo tiene su come per sottolineare quanto sia leggero, mentre suda e gli trema il braccio per lo sforzo.
Per una volta che uno si fa trovare in casa, che apre la porta senza chiedersi chi potrebbe esserci dall’altra parte, deve sempre incappare in un qualche disperato che cerca di rifilargli qualcosa.
È da tanto che le vendite porta a porta non le fanno più le donne.
Ne erano passate un paio alla ricerca della mia ipotetica signora, per venderle non so che cosmetici. Certo, dicevo sempre, entra ad aspettare la signora che arriverà da un momento all’altro.
Una è andata via dopo un paio d’ore con due rossetti infilati a fondo nel culo. L’altra non so bene che fine abbia fatto, però ho rimediato un paio di creme per uomo e un dopobarba niente male. Lo uso ancora.
Insomma, ho aperto la porta sperando in una novellina della cosmesi, invece mi sono ritrovato un pidocchioso venditore di aspirapolveri, ti pare?
«Signore, lei sa cosa sono gli acari della polvere?»
«I cosa?»
«Acari! Insetti minuscoli che non si vedono a occhio nudo, stanno nella polvere, ma anche in zone pulite! Sono terribili! Si nutrono di residui di pelle, di pelle morta, di… persone! Lei, signore, dormirebbe con degli insetti del genere nel suo cuscino?»
«Non ci sono insetti sul mio cuscino.»
«Ne è sicuro? Mi permetta una domanda scomoda. Lava accuratamente la sua biancheria da letto?»
«La porto alla lavanderia più costosa della città. Veda lei.»
«E se le dicessi che lavare le lenzuola a fondo non basta? Se le dicessi che quegli insetti schifosi, gli acari, stanno ancora sul suo cuscino e le mangiano la faccia mentre dorme?»
«Impossibile.»
«Mi permette di fare una prova sulla sua biancheria? Le dimostro che non solo è vero, ma le farò anche uno sconto del venti per cento sull’acquisto della soluzione per liberarsene!»
Cazzo, insetti nel mio letto, penso, insetti che ti mangiano la faccia mentre dormi… la devo proprio vedere. Dimostrerò a questo coglioncello imbellettato alla peggio che non può essere. Le mie lenzuola, le mie fottute lenzuola sono immacolate. Le porto a lavare da K.J.Harrys, lavanderia storica che solo i pezzi grossi possono permettersi. Ci sono signore che portano pellicce di tigre del bengala o chessò io anche da fuori città e il lavaggio costa quasi quanto la pelliccia. E ne vale la pena.
Il lavaggio di Harrys è il migliore.
«Certo» dico in tono di sfida. Lo accompagno in camera da letto. Lo guardo attentamente mentre monta all’estremità dell’aspiratore un tubo di plastica con un beccuccio piatto. Lo osservo come fosse un prestigiatore che prepara il numero di magia, attento a non farmi fregare. Non perdo di vista nessun movimento nemmeno mentre aspira sulle mie lenzuola e sul mio cuscino. Dopo qualche minuto spegne quell’affare e mi guarda con aria trionfante.
La mia palpebra destra ha un paio di tremiti, ma posso tenerla sotto controllo. Non c’è niente di sbagliato nelle mie lenzuola. Harrys le lava bene. Le lava a fondo.
«Adesso, signore, guardiamo insieme nel sacchetto e scopriamo se le sue lenzuola sono davvero pulite.» Una goccia di sudore mi scorre dalla tempia al collo mentre l’omino apre teatralmente il sacchetto, con una lentezza snervante. C’è una piccola montagna di quella che sembra polvere marrone e il mio stomaco si contorce. «Ecco, vede? Questa polvere è un cimitero di acari. In questo mucchio ci sono acari morti, acari