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L'albero delle quaglie
L'albero delle quaglie
L'albero delle quaglie
E-book114 pagine1 ora

L'albero delle quaglie

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Info su questo ebook

Le suggestioni di anni vissuti in Pakistan si ricompongono nelle storie di personaggi dai significati simbolici, quasi magici, attraversando montagne isolate e città caotiche. Lo straniero si smarrisce e si ritrova in una continua ricerca identitaria che tradisce ogni sua aspettativa. Il Pakistan è disorientamento, amicizia, amore, passione, nostalgie: si scopre che è semplicemente spazio dell'umano, vita. Il senso di questa scoperta è tracciato in una personale geografia dell'animo, dove i luoghi hanno nomi nuovi scelti dal ritmo delle emozioni, a volte delle nevrosi, delle partenze e degli arrivi, e rimangono un segreto. la parabola dell'esperienza muove dalla contemplazione e si proietta nell'assillo di interrogativi e desideri sino all'ultimo, definitivo distacco, che forse altro non è che un mancato ritorno.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835826569
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    L'albero delle quaglie - Elena Nicolai

    L'ALBERO DELLE QUAGLIE

    di Elena Nicolai

    Prima edizione: maggio 2018

    Tutti i diritti riservati 2018 BERTONI EDITORE

    Via G. Rossa - Zona Ind. S. Sabina, Perugia (Pg)        

                    Bertoni Editore 

    www.bertonieditore.com

    info@bertonieditore.com          

    È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi 

    mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.

    Elena Nicolai

    L’ALBERO DELLE 

    QUAGLIE

    Tra i sentieri di Islamabad 

    un segreto

    A te, Piccolo Grande Uomo

    I

    A PASSI TARDI E LENTI

    Le piccole penne verde acceso frullavano piano, scrollandosi di dosso il sole pesante, e con il becco spingeva verso l’ombra del basso muretto. La figura snella del ragazzo e la sua lunga camicia bianca ampia sulle pieghe larghe dei calzoni, docili ai guizzi delle magre gambe, lo seguirono in mille rivoli di vento, mentre ubbidiva ai segreti ordini che il pappagallino gli andava sussurrando nell’orecchio. La spalla destra lo teneva sollevato sul mondo, sopra il terriccio della stretta via, protetto dagli sguardi degli altri uomini, e di quelli velati di poche donne. Il vincolo dell’amicizia li separava dal resto del villaggio, e nemmeno la calura impediva la gioia frizzante con cui le piccole labbra e il minuscolo becco si incrociavano e toccavano sfuggenti. Presero svelti a destra, rapidi schivando un minuscolo bimbo pericolante sull’altalena lanciata in alto. 

    Un’altra figura magra tra sorrisi silenziosi si affiancò, ma non azzardò avvicinarsi alla spalla destra, immacolato trono del verde smeraldo. Gli sguardi dei due ragazzi ondularono gli uni negli altri e non si dissero nulla di più. Proseguivano così, con una fretta disattesa e inconciliabile con l’affaccendato scalpiccio nel mercato. 

    Seduto a gambe larghe, un’altra divinità apparve loro sulla sinistra e si voltarono complici a sogguardarla. Come un emissario di un Plutone magnanimo, divinità ctonia prestata alla calura del meriggio, nella tunica bianca confusa alla lunga barba e al grosso ventre, una figura d’anziano uomo cavalcava il fuoco, alimentato da uomini più piccoli, più scuri, affaccendati ai suoi piedi dai calzari ampi, con legni lunghi ad aizzare la fiamma. Il forno cavo tossiva in continui fiotti di rosso, la brace non si estingueva. Il calore urtava dall’altro lato della strada i fortuiti passanti, costringendoli a porgere il loro omaggio di attenzione e di sguardi. Sul forno un tondo, ampio piatto metallico dove l’agile mano destra di questo Efesto bianco, sotto il suo cappello tondo e con gesti consacrati, si dirigeva senza esitazioni dalla carne alle polveri, a liquidi succhi che sgocciolano sfrigolando piano sopra la fornace. 

    A poco a poco i muri caldi e uggiosi digradavano verso stinti rivoli di basse erbe, sentieri guidati da tre bimbi, tra i colori dei campi, appesi ad un aquilone. Bassi gruppi di strette capanne di terriccio e giunchi, dai tetti grigi di sterpi, si strinsero paurosi ai lati di piccole terre dai colori diversi. I passi leggeri, guidati dal movimento delle verdi ali, s’arrestarono davanti ad uno stretto stagno arancione e bianco di pannocchie aperte, galleggianti sulla terra smossa. Con la pala in mano, due guardiani gli si fecero incontro, coi larghi lunghi piedi sereni e accorti sopra le gialle onde dei semi. Nelle tuniche smagrite riposarono poi al guado tra i cardi; da vuote maniche porsero esitanti la mano, lunga come una pala, grigia e scura come la terra più profonda, sgraziata nell’aria come il piatto naso allungato e lo sguardo che da esso precipitava gocciando come spenta lava. 

    La notte giunse allora impetuosa; il buio non teme di impregnare la terra quando c’è la luna piena. Il suo chiarore clemente permette di non smarrire la strada, di seguire il punto luminoso subito più in basso, dove gli umani si accatastano e fanno brillare le case, per non dover finire anche loro, insieme alla luce del giorno. 

    E lì giunsero i piedi dalle brevi ali, lì dove al silenzio e al giorno subentravano i vapori metallici dell’asfalto, delle case, dei muri alti invalicabili. L’ultima tappa, la meta, si nascondeva tra la ressa. 

    Una processione di smodati turbanti neri ancheggiava picchiettando i piedi come piccoli intontiti becchi sul pavimento anonimo di grigia lucida pietra; del profumo di donne si fingevano intrise forme abnormi, sgraziati ventri sotto seni stupefacenti nella loro sproporzionata piccolezza, nasi adunchi, tra colori forti di pennellate decise tra il rosso lucente delle labbra e il giallo nero degli occhi ignavi. Corpi più piccoli di bambini si dimenavano come in un gioco. Tutti, dapprima in piccoli gruppi, poi in nuclei famigliari sempre più chiassanti e impazienti, si portavano nell’angolo accanto alla porta squadrata rimasta solo nel suo scheletro di stipiti e muri. Non si evinceva subito quale fosse il rito ultimo cui tutti, volontariamente quanto può esserlo ubbidire al proprio destino, non pensavano di doversi sottrarre. 

    Nessuno giungeva a mani vuote: bagagli enormi, o piccoli fardelli legati con spaghi e segnati da nomi a larghe lettere, venivano lentamente posti su di un ripiano basso, silente e nascosto. Poi lo sguardo si alzava, timidamente speranzoso, sospeso, attendendo un responso che non tardava. Reazioni allora diverse, di chi si ritirava furente, o spaventato, o deluso, e mani ad aprire valigie e pacchi, a rovistare, secernere, togliere, spostare, eliminare, ricollocare. Il verdetto procustéo del peso, obbligava a scegliere il superfluo, sacrificare velleitari doni, smembrare l’ordine, rivedere ogni singola priorità, bilanciare spazi e gravità. Non solo valigie, ma anche bimbi e adulti, dopo i loro bagagli, saltavano sul piano; anche tre giovani donne dagli smisurati turbanti e senza timore, con lo sguardo dritto davanti a sé e spavaldo di fronte al verdetto, senza remore, con un risolino complice o deluso pronto subito ai lati della bocca. 

    Un vecchio dal cappellaccio di lana spessa e grezza, ruvida quanto il suo volto, era costretto per la terza volta a tornare indietro, a slacciare lo spago attorno alla valigia, a inveire contro la moglie ostinatamente silenziosa e immobile, con i capelli disordinatamente sciolti e lunghi sotto il velo. I figli tacevano anch’essi, tra la barba nera a punta sotto gli occhi furenti del primo, e un baffo precoce sul volto smagrito dell’altro. Buste di plastica, annodate male o nascoste. Buste di plastica, ricollocate o sventrate. Buste scure, che avrebbero dovuto mantenere un debole e innocente segreto, costrette invece alla vergogna del tradimento e all’oltraggio della disonestà. Sguardi disarmati sotto onde di parole furenti, incomprensibili. 

    L’uomo non può viaggiare da solo. Non si viaggia da soli. La solitudine frena, indebolisce, spaventa. Di fronte all’ultimo responso, guai a presentarsi soli, spauriti, senza una mano che si tende a raccogliere le interiora delle valigie sovraccariche, o uno sguardo docile ai rimproveri inutili. 

    Nessuno dovrebbe mai arrivare solo. Perché le valigie si aprono e si scambiano i pesi. Perché la solidarietà si muove lesta in cerchi concentrici e ampi, ma esclude chi non vede a lui rivolto il sorriso, la parola, l’affetto. 

    Nessuno, a parte me che seguo i miei Dioscuri fragili e la guida luminosa delle verdi piume, giunge solo a questa ultima tappa. Esclusione, provvisorietà, silenzio non aleggiano che sul mio capo scoperto, sul corpo che non carezza il riparo di alcun velo. Lo stupore di arrivare soli coglie d’improvviso, ma è ignorato, nei giri lesti di mani e ruote.

    Non si viaggia soli. O almeno, non si dovrebbe arrivare mai soli. Eppure per brevi tratti o con altre rotte è bellissima, la voragine dell’ignoto, il confine dei propri limiti che si dilata a coprire la necessità. Il sollievo di una parola, scambiata o appresa, il sollievo di un legame iniziato, sospeso, sofferto o gradito. Ma a certi porti non si dovrebbe arrivare soli, non è previsto. E il peso del greve bagaglio non riuscirà mai a pareggiarsi, né con un balzo il corpo sfiderà il ridicolo del calcolo, del presupposto, di un ennesimo bilancio.

    Seguo il colore nell’aria grigia, le vedo lente portarsi in cima alla lunga linea di gente, cose e parole, che ora si allungano verso l’alto, come in un monte prospettico, forse tra nebbie e foschie. Dove solo il verde tenero ancora si scorge, e illumina i capelli corvini, lisci e trascuratamente mossi sulla nuca, del ragazzo che mantiene da sempre il suo segreto e solo ascolta il bisbiglio alla sua orecchia.

    Prende delicatamente il pappagallino tra le mani a coppa, come

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