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Artigli d'orchidea: Processo Involutivo - Volume I
Artigli d'orchidea: Processo Involutivo - Volume I
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E-book315 pagine4 ore

Artigli d'orchidea: Processo Involutivo - Volume I

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Info su questo ebook

Un'isola abbandonata al suo triste destino. La vita risorge in una nuova forma: perfetta sinfonia genetica tra umano e animale. Teresa è una di loro, una Lupa. Non vuole più sottostare alle regole del suo Clan e degli invasori venuti dal Sud con le loro navi.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2024
ISBN9791281032293
Artigli d'orchidea: Processo Involutivo - Volume I

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    Anteprima del libro

    Artigli d'orchidea - Federica Balistreri

    Indice

    INTRO

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    epilogo

    ARTIGLI

    D’ORCHIDEA

    Processo Involutivo - VolUME I

    FEDERICA BALISTRERI

    "Noi non vediamo le cose,

    vediamo la luce che le cose riflettono."

    Un corpo sente tutto ciò che agli occhi appare lieve

    Capolinea – Rancore

    PRIMA PARTE

    Muqadima - introduzione

    Si dice che Dio abbia dato la scienza agli uomini per permettere loro di gloriarsi delle sue meraviglie. Se chi ha scritto il Siracide avesse ragione, perché è da lui (chiunque egli sia), che ho parafrasato il detto precedente, allora Dio sarebbe un vero sconsiderato.

    Qualsivoglia divinità dovrebbe riflettere bene, almeno due o tre volte, prima di donare la scienza all’essere umano.

    Pensate, la lotta contro il cancro e il disastro di Chernobyl hanno un genitore comune: la scienza.

    Sì, lo so, direte che stia esagerando, che sto parlando di qualcosa di più grande di me e che non conosco. Probabilmente avete ragione, ma si tratta pur sempre di chimica, fisica, matematica, meccanica quantistica, scienza.

    Tante sfaccettature dello stesso grande e unico cristallo, splendido e spaventoso allo stesso tempo.

    La scienza che crea, la scienza che distrugge, deforma e assembla, trasforma, in un continuo desiderio di andare contro le leggi dell’ordine e del disordine, col tentativo di plasmarle a proprio piacimento.

    18 jumada l-akhira 1450

    Thaddeus Cox, col suo partito Epistéme, viene eletto con il 79% di voti, surclassando i suoi avversari. Un successo mai visto nelle elezioni presidenziali [...]

    Politica batte scienza, e le persone ne pagano le conseguenze.

    Thaddeus Cox ne è stato l’esempio: politica e scienza che si fondono e diventano l’una l’obiettivo dell’altra, l’una il mezzo dell’altra. Thaddeus Cox aveva issato la bandiera della Pura Conoscenza, l’Episteme, ed è stato in grado di piegare il sapere scientifico a suo vantaggio e di trasformare un’isola in un cimitero gigante. Quella sciagurata Isola: rigoglioso emblema della vitalità. Casa di molteplici culture difficili da far collimare che rendevano quel luogo unico e raro. Un crogiolo di individui che non sempre riuscivano a collaborare fra loro ma che, in tutte le loro diversità, creavano un luogo splendidamente variegato.

    Ha iniziato a spegnersi a una velocità esorbitante: l’Isola divenne il luogo in cui tutto appassì, morì e sembrò risorgere nel giro di forse cinquant’anni. Cinquanta: pochi rispetto alla vita dell’Universo, eppure troppi per un’Isola.

    Chi crede nel giudizio divino pensa che Dio abbia deciso di abbandonarli; forse di punirli per il male del mondo intero, per il decadimento che l’essere umano ha arrecato alla terra. Si crede invano che ci sia sempre una Motivazione Superiore alle sciagure, quando invece il male di un’Isola intera e delle persone che vi vissero era il prezzo di un accordo infelice.

    La Nazione della quale l’Isola faceva parte non riusciva più a sostenere le spese di un popolo che moriva di fame, che fuggiva dalla propria terra, che cercava in qualche modo di raggiungere un luogo abitabile, dove vivere e non sopravvivere, tirare avanti.

    ١

    Quando lasciò cadere il braccio lungo il tronco dell’albero, gli occhi si chiusero, pesanti.

    La sua testa, coperta da una folta chioma spettinata, era poggiata – quasi agganciata – contro una piccola escrescenza del tronco in quell’instabile riposo; le sue mani, avvolte in una serie di lacerti di stoffa umida di sudore e sporca di terra, si stringevano intorno a delle bisacce che portava legate alla vita e si muovevano in piccoli spasmi.

    Le dita si aprivano e chiudevano a ogni ansito trattenuto.

    Non era un sonno sereno. Nulla era sereno, in lei. Teneva gli occhi chiusi come se non dormisse da giorni, anelando una calma che non riusciva a provare, ma non dormiva realmente.

    Era comunque sempre all’erta, pronta all’azione.

    Alle sue spalle, al di là di quel mastodontico albero, un’enorme struttura in calcarenite gialla, che tutti chiamavano Montester.

    Quasi come se il suo corpo avesse percepito il momento opportuno per agire, i suoi occhi si aprirono e in un balzo scese dal ramo.

    Il silenzio nell’aria era superato dal cicaleccio continuo dei giorni che si facevano sempre più caldi.

    Il respiro di lei era ancora grave, il suo viso segnato dalla fatica, la sua schiena prudeva per le gocce di sudore che abbandonavano la pelle e si andavano a spandere sui vestiti. Quando i piedi toccarono terra le bastò un passo per sentire come una scarica percorrerla dal terreno fino alla punta delle orecchie che, nella trasformazione, s’erano alzate sulla testa.

    Il suo viso s’era allungato in avanti, con il naso che era mutato in quella forma tipica dei canidi, e la pelle intorno alle narici ne aveva assunto la stessa consistenza spugnosa; gli occhi s’erano tinti di un giallo intenso e tutto il suo volto, accigliato, s’era ricoperto d’una peluria rossastra.

    I capelli neri rimanevano acconciati in sottili trecce sopra i capelli sciolti, mantenendo la forma sulla sua testa. Cenere e carbone umido le oscuravano il viso in decorazioni tribali difficilmente distinguibili, adesso, su quella rada pelliccia.

    Sopra di lei, il ramo nodoso e ricurvo di quell’albero secolare svettava con le sue radici aeree verso il terreno e si imponeva con la sua maestosità come uno spaventoso guardiano.

    L’aria entrava e usciva violenta dalle sue narici, accompagnata da brividi: sentiva gli odori colpirla con violenza.

    Con un balzo si aggrappò a un ramo, quasi fosse senza gravità.

    L’enorme albero sul quale aveva dormito era in un angolo di una zona recintata con un’alta successione di listelli di metallo; a ognuno di essi avrebbe dovuto corrispondere una picca decorativa dello stesso materiale, ma col tempo erano state tutte divelte e rimosse, lasciando solo la cancellata sulla quale l’albero si era espanso, indisturbato, fino a fondersi con un suo simile non poco distante.

    Fece un passo in avanti, balzando sopra un’alta radice che aveva spaccato un antico muretto e adesso, da lì, osservava con le iridi giallastre le due guardie immobili davanti al portone principale e altre poste ai lati.

    L’edificio aveva tre accessi. Uno dei tre era un cancello metallico e arrugginito che un tempo poteva essere stato in grado di muoversi.

    Oltre le mura, si udivano solo urla di comandi impartiti nella loro lingua fatta di lamenti.

    Li guardò come se avesse bisogno di ricordare la divisa dei loro invasori: indossavano tutti un completo militare nero e verde scuro, dei pantaloni larghi infilati dentro degli stivali che, anche a quella distanza, sembravano pesanti come il piombo.

    Si guardavano intorno, spostando il peso da un piede all’altro, camminando svogliati intorno al proprio posto.

    Quelli che stava osservando erano armati di fucili e indossavano dei giubbotti antiproiettile logori. Delle fondine della stessa stoffa scura pesavano attaccate alle loro cosce.

    Avevano tutti lo stesso stemma ricamato in oro sulla divisa e sul cappello la cui visiera era abbassata sugli occhi: una ghirlanda circolare con un volatile e una cupola.

    Quelli erano gli Uomini del Sud.

    I loro volti scuri erano corrucciati, riusciva a percepirlo anche se del loro viso poteva scorgerne soltanto la parte inferiore.

    Si mosse in un balzo, ritornando dall’altro lato dell’albero. Emergendo con la testa verso l’esterno, annusava l’aria come a voler aspettare un giusto segnale. Le guardie continuavano a camminare, marziali e guardinghe.

    Aveva paura, ma cercava di non mostrarlo nemmeno a se stessa.

    "Questa è la buona volta che smetto di fare stronzate" pensò in un sospiro.

    Per sempre.

    Ritornò sui rami dell’albero, inerpicandosi su di essi e sperando di non fare troppo rumore; c’era poco vento quella sera, un movimento inaspettato delle fronde dell’albero avrebbe innescato un fuoco aperto nella sua direzione e non poteva rischiare.

    Dall’alto, però, la visuale era migliore: poteva vedere oltre la cancellata le automobili che entravano e uscivano, le due guardie nel gabbiotto di metallo all’entrata intente a chiacchierare e altre tre in lontananza.

    Poi spostò lo sguardo verso l’alto.

    I rami dell’albero si propagavano in orizzontale come a lambire in delicate carezze le pareti di quell’edificio.

    Si morse le labbra: Nathan era lì.

    Un balzo e l’avrebbe raggiunto.

    Inspirò, sentendo l’aria fredda entrare nel proprio corpo, graffiarle le narici e riportarla alla realtà. Si sedette a cavalcioni su un ramo, le cosce strette con forza contro la pianta per rimanere immobile. Scostò la bisaccia, poggiandola fra le gambe, e ne trasse fuori una boccetta con un liquido giallastro e pallido.

    Emanava un odore pungente, ma questo non sembrò fermarla. Sfilacciò una delle bende che teneva tra le mani e la introdusse all’interno della boccetta. Strinse con forza il tappo: la frizione della plastica rigida spinse al di fuori delle trame della stoffa il liquido, bagnandole le mani.

    I suoi occhi erano velati di paura.

    Il cuore rapido e incontrollato come il tremolio delle dita. Lo sguardo puntato proprio verso quella finestra, quella che doveva raggiungere in un solo salto, quella che le avrebbe dato certezze: di vita o di morte. Non le importava saperlo.

    Allungò una mano dentro la bisaccia, sentendo qualcosa di freddo e cilindrico toccarle le dita. Di tutte le batterie che aveva rubato, quella era l’unica non ricoperta da uno strano velo di polvere verde. Un piccolo tesoro ancora funzionante, carico dell’energia di cui aveva bisogno.

    Frugò ancora dentro la borsa, trovando in una tasca laterale un foglietto argentato ripiegato su se stesso.

    Lo distese con movimenti lenti e delicati per poi accartocciarlo, in modo da toccare entrambe le estremità della batteria, avvicinando quella non umida della stoffa, attese che il fuoco facesse il suo effetto.

    Aveva pochi istanti, prima che quel barattolo le esplodesse in mano: mantenendo quanto più possibile l’equilibrio sul ramo, fece qualche passo in avanti e ruotando il braccio lanciò l’intero contenitore oltre le chiome dell’albero.

    «Semper fidelis

    9 schawwal 1450

    [...] Giuseppe Cultrera, Presidente della Repubblica e leader del partito Italia Democratica per il Futuro è stato accolto dal Presidente Thaddeus Cox per la firma dei negoziati che porranno fine a una crisi finanziaria durata fin troppi anni.

    Millantando il bisogno di uno spazio dove far vivere la propria gente, fu facile per la Nazione barattare l’Isola in cambio di sostegno economico.

    Un futuro migliore, una vita nuova, una rinascita: che sonora, grande, colossale stronzata.

    Un bisogno da un lato e un desiderio dall’altro non possono fare altro che unirsi in un accordo infelice.

    L’accordo era lineare: i debiti sarebbero stati saldati in cambio di un semplice trasferimento.

    Quando fu firmato, la Nazione si preparò: cinque enormi navi corazzate partirono dal Continente per portare nell’Isola, in quella sciagurata Isola, centinaia e centinaia di persone.

    Insieme a quella gente arrivò una Malattia Invisibile che iniziò a mietere vittime: non se ne conosceva la provenienza, non poteva essere curata. Le morti aumentarono a dismisura senza che sapessero come interrompere quella lenta decadenza.

    In dieci anni l’intera popolazione era stata dimezzata.

    ٢

    Quando l’esplosivo impattò sul terreno furono soltanto urla.

    Distratti dalle urla di dolore di un compagno ferito, i militari accorsero, sparando all’impazzata in tutte le direzioni.

    Le bastò un balzo, il corpo tramutato in quello di una bestia, per afferrare la sporgenza della finestra più vicina, sbracciandosi e spingendo i piedi contro la pietra calcarea per darsi slancio fino a che non riuscì a stringersi intorno a una piccola colonnina di marmo che divideva la finestra in due piccole ogive.

    Si issò con la sola forza di un braccio, spingendosi contro la nuda pietra per ritrovarsi, in una capovolta, abbandonata sul terreno di una grande stanza. Vuota, per fortuna. Iniziò a sentire urla, dall’esterno.

    Aveva imparato a riconoscere la lingua degli Uomini del Sud, e in quel momento tutto sembrava più lucido, nitido.

    L’adrenalina faceva grandi cose.

    «Ferito all’esterno, ripeto, ferito all’esterno!»

    Un rauco richiamo alle armi in quella lingua fatta di cantilene.

    «Hanno sparato?! Com’è possibile?!»

    Urla confuse e strepiti agitati.

    «un’esplosione!»

    Rumore di dure suole di gomma sulla pietra grigia.

    «A raccolta nell’atrio! Veloci! A raccolta nell’atrio!»

    Suono di mani guantate di pelle che stringono il metallo.

    Lo strepitare dei cuori di chi non si aspettava un attacco.

    Lei si nascose trattenendo il respiro.

    Non passare dall’atrio era impossibile: era riuscita a entrare nell’edificio principale, ma a quanto sapeva Nathan doveva trovarsi in un secondo edificio, situato alle spalle della struttura dov’era entrata. Per un attimo, aveva desiderato di essere in grado di utilizzare tutte quelle armi che i sottoposti del Generale portavano con sé: sparare per uccidere, minacciare di continuare a farlo se non avessero liberato Nathan all’istante.

    Semplice.

    Era tutto pianificato, eppure poteva sentire sulla pelle quanto ogni cosa che le stava intorno potesse essere una variabile che non poteva controllare. Come quel cigolio inaspettato, che la mise in allarme. Si voltò di scatto.

    Il rumore di mani sul freddo metallo di un fucile: un giovane la guardava irrequieto.

    Lei scosse la testa, stringendo gli occhi come a voler scacciare dei pensieri che sapeva sarebbero arrivati. Quanti sarebbero morti per la vita di una sola persona?

    Il militare fece un passo avanti. La Lupa digrignò i denti e serrò la mascella. Era giovanissimo. Lei si chiese come fosse possibile che a far parte dell’esercito del Generale ci fossero ragazzi così giovani.

    Digrignò i denti, d’istinto.

    Percepì nello stomaco il desiderio di ucciderlo, in quanto ostacolo tra lei e il suo obiettivo.

    Nessuno merita di morire.

    Gli occhi verdi di quel giovane erano incorniciati da palpebre olivastre e grosse occhiaie livide. Parlavano di paura.

    I muscoli della Lupa si tesero, gli occhi brillarono di giallo.

    Lei non aveva il diritto di uccidere.

    Il ragazzo strinse a sé il fucile, sbraitandole di rimanere immobile. "Eahira, l’aveva chiamata. Puttana".

    Un muro invalicabile li separava: sentiva l’odio e il terrore fuoriuscire da quelle labbra increspate di rabbia mentre quelle mani immature si stringevano intorno a quell’arma, puntata per uccidere.

    «Ti prego, non sparare» gli volle dire, d’istinto.

    Come se a lui bastasse un gemito in una lingua che non avrebbe compreso.

    Lei alzò le mani tremanti, con lo sguardo giallo che in un attimo si trasformava in quel tenue azzurro screziato di castano che erano i suoi occhi umani. La peluria scomparve, gli artigli diventarono semplici unghie e le gambe ritornarono ad assumere il loro solito aspetto.

    Un passo lento in direzione del militare.

    Un attimo, un gesto dettato dallo spirito di sopravvivenza, la legge del più forte che muoveva come un astuto burattinaio ogni azione di chiunque vivesse in quella sciagurata terra.

    Alzò un braccio, il destro, in una frazione di secondo, sbattendolo contro la canna allungata dell’arma per cercare di disarmare il ragazzo che, nel seguire quel movimento avventato, si ritrovò a sparare contro il muro; non ebbe il tempo di reagire che la mano sinistra di lei colpì il suo braccio, facendogli perdere la presa sull’arma.

    Cadde a terra in un rumore fragoroso e metallico. La ragazza la spinse via con un piede mentre soccombeva sotto il peso di lui che in un balzo l’aveva sovrastata.

    Fece leva sulle gambe in modo tale da rialzarsi e con entrambi i gomiti provò a colpire il ventre del suo aggressore. Poteva sentire il suo fiato contro il collo, un sospiro affranto e spezzato dal dolore per il colpo al ventre che lo fece tentennare e le permise, quindi, di fare qualche passo per allontanarsi. Ma quando lo vide prendere quasi la rincorsa per raggiungerla, lei non si fece indietro, spingendosi in avanti per colpirlo con un calcio alto ben assestato sul fianco. Il militare barcollò e si accasciò, permettendole di colpirlo di nuovo prima con un altro calcio e poi con un pugno sul viso. Lo sovrastò facendo pressione con entrambe le gambe sul terreno per immobilizzarlo, poi gli tappò la bocca con entrambe le mani, facendo peso con tutto il corpo.

    «Senti bene, caro mio. Non so se riesci a capirmi, né tantomeno se potrai rispondermi. Ma io non voglio ucciderti e non voglio farti alcun male. Non urlare, non muoverti, non accadrà nulla. Devo soltanto salvare un mio amico e non vedrai più la mia faccia per il resto dei tuoi giorni.»

    Provò ad allontanare la mano dal suo viso, permettendogli di respirare, ma non appena lo fece l’uomo iniziò a urlare e per lei non ci fu nulla da fare.

    Gli sganciò un pugno in pieno viso.

    Poi un altro, poi un altro ancora, fino a macchiare col sangue le sue nocche.

    Chiuse gli occhi e sospirò, stille di sangue che scivolavano lungo la sua guancia.

    Gli poggiò le dita sotto il naso per accertarsi di sentire ancora un flebile soffio fuoriuscire dalle sue narici.

    Non l’aveva ucciso, sorrise.

    Trascinò il suo corpo verso un angolo buio della stanza.

    Non aveva molto tempo.

    Lettera aperta allo Stato,

    da parte del Primario dell’Unità Operativa di Patologia Clinica del PRESIDIO OSPEDALIERO CERVELLO: Dott. AMATO GIUSEPPE.

    Questi dieci anni sono stati pesanti emotivamente, spiritualmente e fisicamente per ognuno di noi. Hanno portato via milioni di vite. Hanno distrutto famiglie, interrotto attività, violato gli animi delle nostre strutture e dei nostri collaboratori.

    Ma siamo sopravvissuti.

    Comprendiamo la paura del nostro Stato (se così può essere chiamato) di una malattia che non può essere curata e che colpisce in maniera indifferenziata e incontrollabile.

    Ma non comprendiamo l’abbandono vigliacco che ci avete riservato. Ci avete lasciati soli, le vite di tre milioni di persone saranno sulle VOSTRE COSCIENZE.

    Siete creature aberranti, che non meriterebbero nemmeno una parola di risentimento, ma noi non abbiamo più paura.

    E non abbiamo alcun bisogno di voi.

    Non erano più le pire accese, giorno e notte, a turbare gli animi dei vivi.

    Salutavano i loro morti, in preghiere che ormai non avevano più nulla di religioso; intonavano canti di speranza.

    Malformazioni.

    Poteva essere tutto finito. Dieci anni di sciagure, di corpi che non potevano più essere tumulati, di dolore, di perdita, di fatica.

    Ma non lo era.

    La disgrazia delle malformazioni si faceva strada, si insinuava instillandosi soprattutto in chi, nel futuro in quella terra, ancora ci sperava: le famiglie. Bambini metà uomini e metà bestie, scherzi della natura. È un atteggiamento estremamente umano, quando si trova davanti qualcosa che non sa spiegare, agire cercando di sradicare il problema all’origine.

    I nati deformi facevano paura, il non vedere la totale umanità in quei corpi bestiali di piccoli e presunti esseri umani faceva paura. E la paura fa agire l’essere umano in modo sconsiderato: uccidendo i figli, e i figli dei propri figli, fino a quando non c’è più nulla da fare.

    Quella bestialità è ormai parte della loro misera esistenza.

    ٣

    Il Montester era un grosso edificio a pochi passi dal mare.

    Era composto da quattro costruzioni che si univano in un complesso con all’interno un ampio atrio. Anche uno dei quattro edifici,‒ quello in cui era atterrata‒, presentava un atrio interno di dimensioni decisamente inferiori e con molta meno gente posta a sorvegliare. Era una specie di deposito.

    Scese le lunghe scale che la portarono al piccolo atrio interno.

    Camminava con disinvoltura, a testa alta e con gli occhi, puntati verso il suo obiettivo. Il rumore delle scarpe dalla punta rinforzata in metallo, un po’ troppo grandi, riecheggiava nella sua testa come fosse amplificato, la visiera verde del berretto le nascondeva la fronte imperlata di sudore.

    «Ehi, tu!»

    Portò una mano alla fondina che aveva attaccata alla coscia. Dall’altro lato, la sua bisaccia con il secondo ‒ e ultimo ‒ esplosivo.

    Non si mosse subito, voltandosi poi lentamente verso la provenienza di quella voce.

    Si meravigliava sempre di come quella lingua potesse sembrare sempre diversa a seconda del tono della voce di chi la parlava.

    «Sì, dico proprio a te!»

    Mentre si voltava, con la mano libera aveva già mosso la bisaccia dietro le spalle, in modo tale che, da una visione frontale, risultasse soltanto una semplice cintura.

    Lei annuì in risposta, dritta nella propria posizione militare ma con lo sguardo sempre basso.

    «Sì, Signore!» si ritrovò a mugolare, con un nodo in gola. Non si aspettava di dover parlare la loro lingua.

    «Cosa ci fai fuori dal tuo gruppo?»

    «Mi hanno mandata al piano di sopra, signore. Sembra essere entrato qualcuno, ma non ho trovato nessuno, signore.»

    «Sbrigati, stronzetta.» Ridacchiò l’uomo. Puzzava di alcool e la congedò con un colpo di mano aperta contro la natica. «Serve più gente possibile nella zona dei detenuti, muoviti.»

    Lei sobbalzò, contenendosi dal voltarsi e azzannargli la giugulare per dilaniarla. Quella parola, detenuti, quasi la fece sorridere e, con passo rapido, mosse in avanti la bisaccia per non farla vedere al militare.

    La gente rinchiusa in quel modo poteva essere definita, al massimo, bestiame.

    Uscita dall’edificio, sulla sinistra notò una piccola costruzione, separata dalle altre, con una scalinata che dava l’accesso a uno stanzone rettangolare. Lì, una porta scorrevole scricchiolava ogni qualvolta un infermiere militare usciva o entrava. Quell’ambiente un tempo doveva essere un luogo di culto di una delle Tre Religioni: molti edifici simili presenti in Città, a causa dell’inutilizzo, erano stati rifunzionalizzati. L’ambiente in particolare non doveva essere stato nemmeno di gran pregio, viste le bolle scoppiate d’intonaco bianco. All’interno, una serie di lettini accoglievano lamentosi degenti.

    Procedette verso sinistra, senza alzare mai troppo lo sguardo. Doveva raggiungere la sua meta senza dare nell’occhio.

    Le bastarono pochi passi per ritrovarsi al cospetto di quello che gli schiamazzi avevano chiamato atrio interno. Non poteva essere altro che quello, dato che era gremito di soldati sull’attenti.

    A sinistra, in pochi passi, avrebbe potuto raggiungere l’uscita che dava sulla piazza dell’Albero secolare; alla sua destra, invece, troneggiava la struttura rettangolare adibita a prigione.

    Una voce la fece sobbalzare. Seppur fosse una donna, la sua gola gracchiava grave e stonata: «I detenuti sono in tumulto. Ogni volta che sentono scoppi all’esterno pensano sia

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