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Il giovane D'Annunzio: Uno studio critico
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E-book77 pagine1 ora

Il giovane D'Annunzio: Uno studio critico

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Gabriele D'Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale, dal 1924 insignito del titolo di "principe di Montenevoso".
Soprannominato "il Vate" (allo stesso modo di Giosuè Carducci), cioè "poeta sacro, profeta", cantore dell'Italia umbertina, o anche "l'Immaginifico", occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana […]».
Come figura politica lasciò un segno nella sua epoca ed ebbe un'influenza notevole sugli eventi che gli sarebbero succeduti.
La sua arte fu così determinante per la cultura di massa, che influenzò usi e costumi nell'Italia - e non solo - del suo tempo: un periodo che più tardi sarebbe stato definito appunto "dannunzianesimo".

Alfredo Gargiulo (Napoli, 2 maggio 1876 – Roma, 11 maggio 1949) è stato un critico letterario, scrittore e traduttore italiano.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita27 mag 2020
ISBN9788835836209
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    Il giovane D'Annunzio - Alfredo Gargiulo

    rimpianti

    L'imitazione di Carducci

    Nel 1879, stando ancora al Collegio Cicognini di Prato, Gabriele D’Annunzio, che aveva allora sedici anni, pubblicò i suoi primi versi: – All’Augusto Sovrano d’Italia Umberto I di Savoia nel XIV Marzo MDCCCLXXIX suo giorno natalizio. Augurii e voti dei giovani Vittorio Garbaglia e Gabriele D’Annunzio. – È una esercitazione scolastica su reminiscenze carducciane. L’anno seguente dava in luce un altro opuscolo di versi, In memoriam , per la morte della nonna. In questo, forse per la tenuità del tema del tutto familiare, non appariva influsso del Carducci: era scritto in un certo toscano prezioso (la lingua che il poeta trovò a portata di mano, per un soggetto intimo), e conteneva, invece, ricordi stecchettiani. Ma il D’Annunzio, allora, aveva già scritto il Primo vere ; e da questo si deve partire per ravvisare il primo atteggiamento del suo ingegno poetico. Gli altri due saggi della sua musa giovanetta son cosa troppo tenue ed insignificante. Nel Primo vere il poeta originale, in verità, non si vede ancora; ma c’è in quella raccolta di versi qualcosa che anche serve per l’illustrazione dell’opera d’annunziana della maturità. Ebbe due edizioni, una nel ’79 e l’altra nell’80, molto diverse per il numero delle composizioni; giacchè la prima ne conteneva trenta, la seconda settantatre, di cui solo quattordici già apparse nella prima. Il numero molto grande dei componimenti nella seconda edizione si spiega col fatto che in essa furono compresi i Paesaggi e profili (all’acquerello), già annunziati dal giovane autore come una raccolta a parte.

    Che cosa era il Primo vere secondo il poeta stesso? Lo sappiamo da una lettera ch’egli scriveva all’amico Cesare Fontana, il primo di settembre 1879: «Son poca cosa! Sono lampi rosei di vita giovanile, delirii pieni di fremiti e di parole insensate, febbri ed ebbrezze, serenità cerulee e caligini fosche... C’è dentro tutta la mia anima ardente: un’esuberanza di sentimento, che si espande in inni procaci, in elegie soavi, in immagini folgoranti, in suoni bizzarri, convulsi o languenti; ma non vi cercare la scintilla del genio che tuona e lampeggia, che colpisce e trascina... oh, quel genio io non l’ho: la scintilla mi manca!...». Aveva il D’Annunzio, come si vede, un’idea molto romantica del genio, quale si conveniva alla sua età giovanile. E romantiche erano le parole (è proprio il caso di dir «parole»), che adoperava per caratterizzare la sua poesia: lampi rosei, delirii, fremiti, parole insensate, febbri, ebbrezze, serenità cerulee, caligini fosche, immagini folgoranti, suoni bizzarri, convulsi, languenti. Tutte cose estreme, in tutti i sensi! Un’altra definizione del romanticismo non potrebbe essere questa: è il tumulto delle adolescenze immaginose? L’anima del poeta era ardente, glielo crediamo subito, e il suo sentimento era esuberante: molto ardore, grande esuberanza. Il giovanetto di sedici anni, dalla «selva di capelli ricciuti e due occhi da spiritato», come si dipingeva egli stesso al Fontana, accatastava parole su parole per spiegare all’amico, per fargli intendere per forza, furiosamente, ciò che gli stava nell’animo e pensava in buona fede di aver tradotto nelle poesie.

    È quello il periodo della prima gioventù poetica: periodo di fermento, angoscioso, convulsivo; e quindi, inutile dirlo, oscuro. C’è allora il desiderio, non la potenza della poesia: l’emozione viva e pungente, il sogno balenante o fluttuante, non l'immagine artistica determinata e placata. Se la vita del poeta, nel periodo della maturità, della serenità e della calma, è vita d’immagini perfette, tutte svolte e chiuse in sè; senza alcun dubbio la prima gioventù del poeta è, invece, un contesto discorde di frammenti d’immagini, che sorgono l’un dopo l’altra, si urtano e si opprimono a vicenda. Il poeta ne è vittima straziata e sanguinante. Si comprende quindi perchè il poeta «infante» debba essere imitatore, quasi di necessità. Egli vuole uscire in un modo qualunque dal suo stato di angoscia; e, trovata una forma in cui versare la propria materia caotica, ve la versa senz’altro, corrivo, in pieno abbandono, allontanando ogni velleità di un controllo, che sarebbe tanto doloroso. Sarebbe, d’ordinario, addirittura impossibile; perchè egli imita più propriamente per questo: essendo disgregato per suo conto, muto o balbettante davanti agli spettacoli della natura e della vita, si trova aperto ad accogliere e a far sue le voci, per lo più affini, che da quegli spettacoli seppero trarre altri spiriti nel pieno dominio della loro forza. Non imita nel vero senso della parola, perchè l’imitazione lascia supporre una determinazione volontaria; ma ripete per suggestione, talvolta per completa ossessione.

    Il D’Annunzio, dunque, dall’anima ardente e dal sentimento esuberante, nel Primo vere non fece quasi altro che imitare. Imitò propriamente, cioè tradusse, Catullo, Tibullo, Orazio; e, data la sua età, tradusse benissimo. Imitò poi (nel senso che ne subì la suggestione), in quasi tutte le poesie, il Carducci delle Odi barbare; lo imitò tanto, che Giuseppe Chiarini, critico benevolissimo in quel primo momento, fu costretto ad infliggergli la penitenza di stare un anno intero senza leggere il Carducci (e lo Stecchetti). La suggestione carducciana è palese anche nel segno esteriore che tutte le poesie della raccolta, nella prima edizione, sono «barbare». Anzi su questa particolarità il piccolo d’Annunzio, con una freddezza calcolatrice un po’ intempestiva, fondava le sue speranze per il successo editoriale; scrivendo al Fontana: «Credo che se ne venderebbero molte copie, non per la bontà del lavoro, ma per la curiosità che in questi giorni destano le Odi barbare nella repubblica letteraria». E così fu.

    L’imitazione dal Carducci non ha bisogno di dimostrazione: basta che ognuno sfogli il volumetto, lo apra ad una pagina qualunque, e legga. Ecco, per esempio, che cosa io trovo ( Suavia. Fantasia):

    Poi che tra lauri sacri ad Apolline

    colsi da’ rosei labbri di Lilia

    mille trepidi baci

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