Diario di un geografo
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Anteprima del libro
Diario di un geografo - Eugenio Turri
Percorsi della memoria 54.
Nuova edizione a cura di Lucia Turri e Marco Girardi
In copertina: Eugenio Turri nell’oasi di Taouardei (Sahara meridionale). Fotografia di Renzo Ferrante.
Prima edizione cartacea: febbraio 2015
Prima edizione digitale: maggio 2020
e-isbn 978-88-5520-088-2
Il diario del geologo
© Copyright
1967 Bino Rebellato Editore
Weekend nel Mesozoico
© Copyright
1992 Cierre edizioni
Taklimakan. Il deserto da cui non si torna indietro
© Copyright
2005 Tararà edizioni
© Copyright
2015 Cierre edizioni
via Ciro Ferrari, 5
37066 Sommacampagna, Verona
tel. 045 8581572, fax 045 8589883
edizioni@cierrenet.it - www.cierrenet.it
Eugenio Turri
Diario di un geografo
CierreWeekend nel Mesozoico
tra dinosauri risuscitati
¹
di Andrea Zanzotto
Eugenio Turri è un noto geografo e geologo, autore di saggi e opere varie, dotato di una straordinaria capacità di sintesi che lo ha portato ben più in là delle sue competenze tecniche e scientifiche. Tra l’altro, gli si deve un importantissimo libro uscito circa una decina d’anni fa, Semiologia del paesaggio italiano (Longanesi²), in cui si esaminano con una massa imponente di dati le concentrazioni atroci dell’antropizzazione nel «triangolo padano». Ora di Turri esce per le edizioni Cierre di Verona un altro libro al confine tra geologia e filosofia: questo Weekend nel Mesozoico. Si tratta di appunti che sono stati scritti durante i più diversi viaggi di esplorazione e di ricognizione; si va dalle nostre Dolomiti e dall’amato monte Baldo fino al centro dell’Africa, ai deserti asiatici, all’Australia, alle Americhe. Agisce, dunque, uno sguardo di larghissima portata sempre rafforzato da un sentimento di quasi insostenibile implicazione nelle epifanie della natura sempre percepita entro il sapere radioattivo
del geologo, espresso senza i ricatti di un allontanante linguaggio troppo tecnicistico. Aver coscienza, ad esempio, che si affiancano insieme terrazzi che hanno duecento milioni di anni con altri strati che invece ne hanno appena
cinquanta, o con terre alluvionali che risalgono agli ultimi tempi delle glaciazioni del quaternario, conferisce una tensione tutta particolare al vedere e alla meditazione che ne nasce. E la percezione della realtà qui proposta da Turri è incentrata proprio sullo choc dato dall’assoluta disomogeneità tra tempo storico e tempo geologico, in un rapporto analogo a quello posto dalla spaccatura tra tempi storici e tempi biologici, indagata ad esempio da Enzo Tiezzi. Di fronte alla cerchia di monti scolpiti in torrioni, come in un immenso canyon del Semien in Etiopia («balconate, ripiani a terrazze sospese sul vuoto nella grandiosità silente»), Turri osserva: «noi non pensiamo che quanto stupisce l’uomo qui sulla Terra è generato il più spesso da implacabile e confusa destrutturazione. Massimo esempio sono le innumerevoli orchestrazioni di linee delle Dolomiti e di simili strutture rocciose. E noi restiamo estasiati soprattutto da ciò che nasce da nient’altro che processi demolitivi. Di fatto, solo la brevità e labilità del nostro essere guardanti
possono mostrarci quelle rovine come fossero ricami di cattedrali elevate alla bellezza attraverso l’alto spazio fuggente. Eppure come bellezza esse s’impongono».
In tutto il libro, di fronte alle parate più diverse di conformazioni dei territori, al pensiero dell’andirivieni lungo i milioni e milioni di anni del tempo geologico, mentre l’incanto estetico travolge comunque verso tensioni che non è eccessivo dire mistiche, viene a insinuarsi una beffarda discrasia fondamentale, un avvelenato disagio: è lo stesso che si ritrova più o meno evidente anche in molti autori antichi, e basterebbe ricordare le «mura del mondo», che Lucrezio sente di continuo travagliate da moti impetuosi. Ma questa ossessione si è fatta sempre più diffusa e intollerabile negli ultimi secoli, a mano a mano che lo sviluppo della conoscenza geologica (e, ovviamente, astronomica, anche se qui se ne parla di straforo) ha reso sempre meno congrua
la sensazione che l’uomo ha di sé nel mondo; e si pensi solo a Leopardi, a Montale. Senza contare che masse sempre più estese entrano nel campo di queste esperienze devastanti. Ma esiste anche il friabile eppur fiorente strato di humus coperto di vegetazione e soprattutto lavorato dai segni dell’uomo, emergente sull’oceano di rocce che qua e là lo bucano con la loro eternità abissalmente estranea: morta. E Turri lo ama, quest’ultimo strato, proprio per la sua inerme tenuità, dato che è poi la nostra sede natale; ci porta alle pianure, specie italiane, ancora qua e là meravigliose e quasi confortate da colli e monti che per un attimo non possono non apparire materni, e incristalliti in uno stabile e pur brulicante presente.
Ma oggi ogni Heimat, si sa, tende a scomparire nelle opere
di un’umanità sempre più frenetica e disorientata, opere che sono documento di quanto misere, futili, meschine, corte, siano le mire umane. E ciò anche quando lo stravolgimento ambientale può assumere toni enfaticamente inventivi, come in America, e mostruosamente seducenti, quasi in risonanza e opposizione a quelli dei torrioni montani del remoto. Ci si trova su una rotta comunque demolitiva che va dalle armonie di quella pura e assoluta Land Art in cui si realizzavano le nostre pianure, alle più esibite cancerosità. Turri poi non perde mai il senso dello sperpero immane, anche di bellezza, che pur si è sciorinata, scialata lungo i megasecoli senza essere adeguatamente percepita e amata, posto che l’uomo sia, del resto, il più alto percipiente
. Ed entropia, insensatezza, nullità si intrecciano al bisogno ed anche alla presenza dei loro contrari che sono propri, anch’essi, della natura umana, pur sempre ricercatrice di un senso dell’essere, di una dignità
dell’essere. Così, l’autore sa persino identificarsi con la tragedia degli ultimi dinosauri, ne coglie quasi l’urlo terribile, come seppe immaginarlo Dino Buzzati in un suo memorabile racconto. Ma il sottile, ineliminabile spleen da geologia, e perfino una tremenda depressione da geologia, evidenziati da Turri in questi suoi pensieri sparsi
(che sarebbero tutti da citare per la loro variegata e acuta forza di sintesi), ben lungi dal deviare nel patologicamente inutile, finiscono quasi per obbligare chi legge a un livello di alta contemplazione e nello stesso tempo di intellezione
che raramente si ottiene attraverso un libro puramente scientifico o di meditazione filosofico poetica. Turri ha saputo qui dare un saggio, dotato anche di valori schiettamente letterari, della sua sensibilità indagante, amorosa fino alla cupezza, davvero in carne viva
: ma che ha qualcosa da insegnare anche col disincanto. Che questo è il mondo assegnatoci, assegnato alla nostra, pur quasi insignificante, responsabilità.
Dice Turri: «Il nostro rapporto così intimo e profondo, scientificamente sublimato, con queste rocce riesce a ridestare il pensiero di quell’era geologica (il Mesozoico), a farci risentire i suoi silenzi, le sue forme di vita, i suoi mari solcati dagli ittiosauri. (...) Nei mari mesozoici affoghiamo allora con tutti i nostri dubbi, i nostri errori, i nostri dispiaceri. Poi da questa immersione o annullamento ogni volta riemergiamo come Noè scampato dal diluvio».
Le fotografie, anche queste dell’autore, che accompagnano gli appunti, sono pienamente adeguate all’insieme del libro, certo fra i migliori usciti di recente. E fra tante attese e brividi
indotti da una geologia e paleontologia ormai non sfuggite al diventare moda, e che stanno per sfornarci dei parchi del Giurassico
forniti di resuscitati dinosuari, questo weekend nel Mesozoico, che può essere a portata di chiunque senta il paesaggio e lo frequenti anche senza compiere gli esaltanti viaggi dell’autore, trova una sua rara e giusta collocazione. Guida a sopportare un allarme che incombe dal lontano e dall’indecifrabile, ma anche a sollevarsi un po’ dall’incubo peggiore di tutti: quello che ci fa sentire compartecipi dei giochi di tante orride, sculettanti marionette tolemaiche sempre intente a condizionarci alla loro volontà di dominare «per forza o per sofismi» i quasi spappolati coacervi di abitanti e i frammentatissimi catasti della crosticina di questo infimo, ma per noi unico, pianeta. Anche se essa è stata messa in rischio ormai di morte, e quasi di evanescenza.
Articolo tratto dal «Corriere della Sera» del 27 agosto 1993.
Il volume è uscito in due edizioni per Longanesi (1979 e 1990) e in una, recente, per Marsilio (2014).
Il diario del geologo
Prefazione
Queste brevi prose sono state scelte tra numerose altre scritte in diverse occasioni tra il 1955 e il 1965. Gran parte di esse sono state ispirate dal paesaggio familiare dei monti Lessini, nel Veronese, altre da viaggi ed esplorazioni di studio nelle diverse parti del mondo, Asia, Africa, Americhe.
La necessità di fissare e scrivere le sensazioni provate in montagna, di annotare i pensieri e le scoperte fatte, è sempre stata insopprimibile per me come l’andare sui monti. Nei motivi ricorrenti, insistiti di queste pagine, al di là d’ogni possibile risultato poetico, credo che vi sia materia adatta a psicologi, psicanalisti e fors’anche fisiologi per indagare certi rapporti uomo-geologia, uomo-geografia, uomo-meteorologia, campi di studio ancora così poco indagati. In ogni caso il sentimento della montagna e della geologia qui espresso, pur nelle sue motivazioni scientifiche, va interpretato, io penso, come un tipico male veneto, un vecchio languore che s’annida in noi gente delle Prealpi e del pedemonte veneti. Le montagne di antiche rocce sedimentarie (sorte dai mari ammonitici mesozoici, dai mari tropicali eocenici di Bolca) che dominano l’arco veneto sono il nostro territorio d’evasione, nostri naturali riferimenti geografici e geologici, nostre risposte regionali sull’origine e la fine dei mondi, sul perché dei nostri stessi comportamenti umani.
Eugenio Turri, Milano, dicembre 1966
La pietra rara
In una gora del torrente, sotto la cascata, c’era una sfera di pietra perfetta, quasi fosse stata tornita artificialmente. Era stata molinata dall’acqua con un lavorìo di decenni, a cominciare dal tempo in cui ero ancora ragazzo, in maggio. Risultava evidente il meccanismo che l’aveva foggiata: da quella cavità in cui romba e vortica la cascata la pietra non è mai uscita, rimasta lì a rigirarsi e arrotarsi durante stagioni e stagioni, fino a diventare sfera perfetta.
È una di quelle scoperte che si fanno in primavera tra le acque schiumose dei torrenti. Ho raccolto la pietra e l’ho conservata, messa in un cassetto dell’armadio, come fosse un oggetto prezioso. Non è infatti la solita pietra, è come se avesse sbagliato la forma ovale e irregolare delle altre: un raro frutto perfetto che, non raccolto, sarebbe corso via un giorno o l’altro indistinto nei greti, negli strati di alluvioni che rimpolpano la Terra.
La cava
Gli scheletri dei dinosauri si trovano stretti, imprigionati dentro gli strati più pesanti dell’età secondaria e terziaria: e non è facile trovarli in questi ermetici pilastri. Ma oggi nella cava, grande come un tempio egiziano, si poteva scorgere nella stratificazione superiore, da cui era stato come scollato il contiguo strato inferiore, tutto un arabesco di segni, di cavità, di convessità come fossero (ed erano in parte) le orme di una vita superficiale remota. Oggi essa è chiusa in questa specie di urna, seppellita in questa notte sepolcrale. E si vedeva, contorto, schiacciato, come un mostro in catene, il profilo di un dinosauro con il collo strozzato sotto il peso, la bocca aperta con la lingua fuori: a suo modo perfetto come un esemplare di teriologia. Si aveva come l’impressione di una tremenda condanna che l’aveva colpito: il peso di innumerevoli strati, di milioni e milioni di anni sotto cui si trovava sepolto insieme con il sole e le verdi praterie del suo tempo.
I penepiani
I campi di fondovalle, nelle loro perfette geometrie orientate nel senso delle alluvioni, con le loro tinte verdi, grigioverdi, gialle, ocra, distese come vernici nuove nel paesaggio ben curato della campagna, esprimono la provvisorietà dei segni umani, richiamano al lento rigiro della Terra, al distendersi delle montagne, al colmamento delle valli, al formarsi dei penepiani. Eventi in atto che continueranno nel loro lento ritmo anche quando noialtri avremo cessato di esistere e guardare. Ma in questa fatalità della vicenda geologica ci resta la certezza della morte, con noi, del nostro paesaggio: la morte dei prati verdi, dei campi, delle 160 case sulla collina, delle allodole in quest’ora, di quest’ora che è nostra solo in questi momenti. Non esisteremo per i paesaggi ritrasformati da albe colossali, e il panorama che qui si ripresenterà sarà come un mondo estraneo a noi, al nostro sentimento, come un altro pianeta o un altro strato geologico che non ci sarà necessario per la sufficienza e la compiutezza del nostro che accoglie, seppellito nel buio con noi, questo paesaggio di adesso che ci ha aperto alla vita.
La nuova età geologica
Scrivono i giornali che gli ultimi inverni sono straordinariamente miti, che non hanno più la forza di un tempo, che insomma la stagione invernale va attenuandosi in maniera impressionante e che non si vede quasi più la neve nel giorno di Natale. Anche quest’anno l’inverno non si fa sentire, è come una stagione piatta, senza carattere, che s’interpone senza soluzione di continuità tra autunno e inverno. Io ricordo il freddo pungente di quand’ero ragazzo, vent’anni fa, quel freddo che ci faceva correre e saltare continuamente, che ci faceva godere i fasci di legna gettati sul focolare senza parsimonia; e ricordo la neve che cadeva ogni anno, immancabilmente, dietro la mia casa (da quanti anni non si può più sciare dietro la mia casa? da quanti anni non si vede la neve sugli alberi di ciliegio intirizziti e da quanto tempo ho smesso di celare le tagliole sotto la neve con un chicco di grano perché abboccassero i passeri?), e ricordo le sciarole di ghiaccio che si trovavano dappertutto lungo le strade. È come una lontana stagione, un’età quaternaria che esiste ormai solo nella memoria.
E quante altre cose sono cambiate in questi vent’anni: gli aeroplani, le ragazze e, perfino, come dimostrano gli inverni, è nata una età geologica nuova. I ghiacciai si ritirano e il mondo umano si estende vertiginosamente, come si estendeva il dominio dei rettili nelle età secondaria e terziaria. Le case si sono moltiplicate per dieci, per cento, non si sa neanche più quanto, sulla faccia della Terra. La mia valle, un tempo deserta e silenziosa, è zeppa ormai di nuove costruzioni, di strade, di gente che va e viene dappertutto. La nostra giovinezza, con gli inverni gelidi e i geloni sulle mani che ci facevano soffrire, è un ricordo quasi tramandato di generazione in generazione, che si colloca nell’età degli orsi delle caverne, un’età ormai lontanissima e perduta.
L’età della Terra
Ho visto un ragazzo che andava numerando, nelle pareti di una cava, gli strati sovrapposti di cui era composta la roccia. Erano strati sottilissimi, come foglie di fango una sull’altra, ognuna di colore diverso. Disse il ragazzo che voleva contare l’età della Terra, come si fa con i tronchi per sapere gli anni degli alberi. L’operazione sembrava non finir più, poteva ormai occupare un giorno intero, tutta una settimana, mesi e mesi, il ragazzo: il gesto che compiva aveva il carattere del gesto proseguibile all’infinito; e tuttavia non c’era nulla di annichilente in quel gesto. Anzi, aumentava con gli strati il piacere di scoprire un numero più grande del numero atteso. Uno strato sopra l’altro, un numero sopra un altro numero, con base e unità assoluta la vita di un uomo. L’impegno giocoso che nella numerazione ci metteva il ragazzo voleva dire che non ne restava atterrito: era un ragazzo, nello strato uno della vita.
L’arco morenico
Compagni e compagne di gita siamo arrivati sulla cima del monte dopo la lunga camminata. Abbiamo aperto gli zaini e abbiamo cominciato a tirar fuori le borracce piene di vino e d’acqua fresca, i panini imbottiti, la marmellata, i dolci. E poi tutti lì seduti sulle rocce a guardare giù la valle, i bassi pendii coperti di pascoli verdi e levigati, i boschi e, più lontana, la pianura con i campi coltivati e divisi in rettangoli gialli, verdi, ocra, i paesi, le case sparse, le strade bianche.
Una ragazza indicò a tutti un curioso arco di colline boscose, perfetto, quasi tracciato con strumenti da ingegnere, che spiccava nella pianura ben coltivata. Osservò che per un fatto di natura era strana tanta precisione geometrica, ma non diede importanza alla sua scoperta. Se ne scordò subito, riprese a parlare e a ridere con i compagni.
L’arco delle colline non era nato per caso. Lo dissi alla ragazza che, prima distratta e svagata, si mise ad ascoltare con seria attenzione la storia dell’arco. Era una costruzione di ventimila anni fa. Formata dai detriti di una gigantesca fiumana glaciale che scendeva attraverso la valle alpina fino alla pianura pedemontana: in un’epoca di freddi inverni, di freddi polari, come quelli che ancor oggi ci sono in Alaska o in Groenlandia. Oggi di quell’epoca c’è appena un ricordo sulle cime delle alte montagne imbiancate di neve.
Per la ragazza l’arco di colline non era adesso più qualcosa di strano (di estraneo). La curiosa geometria naturale, formata dalla fronte dell’antico ghiacciaio sceso in pianura con le sue leggi precise e geometriche (rintracciabili nella perfezione circolare), le suggeriva adesso il ritmo delle ere geologiche, la lenta rinascita delle epoche tiepide e dolci, dopo gli oscuri millenari inverni del Quaternario, con queste stesse pendici montane popolate di orsi vellosi, di grandi cervi, e sovrastate da cieli nuvolosi con squarci di un livido gelido verdazzurro. La ragazza era meravigliata e felice della scoperta, della verità geologica espressa in maniera così palmare. Disse: è meraviglioso sapere tutto questo. Ma notò poi, con un vago senso d’angoscia, l’enorme baratro di tempo che divide la geologia dalla vita.
Era un giorno di tepori primaverili sul monte e si era ragazzi e ragazze giovani venuti su a fare la gita, a festeggiare i giorni della primavera.
L’erosione
Sull’alto versante della valle, vicino a una solitaria casa abbandonata dai contadini fuggiti verso le città industriali, c’è un argine tutto eroso alla base che ha lasciato sospesa