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Beni culturali Vol.3: Mediterranei e modelli di civiltà
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E-book237 pagine3 ore

Beni culturali Vol.3: Mediterranei e modelli di civiltà

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Info su questo ebook

Pierfranco Bruni è nato in Calabria. Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all'Estero, è presidente del Centro Studi “Grisi”. Ha pubblicato libri di poesia (tra i quali "Via Carmelitani", "Viaggioisola", “Per non amarti più", "Fuoco di lune", "Canto di Requiem"), racconti e romanzi (tra i quali vanno ricordati "L'ultima notte di un magistrato", "Paese del vento", "L’ultima primavera", “E dopo vennero i sogni", "Quando fioriscono i rovi"). Si è occupato di letteratura del Novecento con libri su Pavese, Pirandello, Alvaro, Grisi, D'Annunzio, Carlo Levi, Quasimodo, Ungaretti, Cardarelli, Gatto, Penna, Vittorini e la linea narrativa e poetica novecentesca che tratteggia le eredità omeriche e le dimensioni del sacro. Numerosi sono i suoi testi sulla letteratura italiana ed europea del Novecento. Ha scritto saggi sulle problematiche relative alla cultura poetica della Magna Grecia e si considera profondamente mediterraneo. Ha scritto, tra l'altro, un libro su Fabrizio De André e il Mediterraneo (“Il cantico del sognatore mediterraneo", giunto alla terza edizione), nel quale campeggia un percorso sulle matrici letterarie dei cantautori italiani, ovvero sul rapporto tra lingua.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita29 ott 2022
ISBN9791222017655
Beni culturali Vol.3: Mediterranei e modelli di civiltà

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    Anteprima del libro

    Beni culturali Vol.3 - Pierfranco Bruni

    Il Mediterraneo dell’arte tra luogo e metafisica

    Il Mediterraneo è una metafora di passioni di colori. Custodisce i destini degli Orienti e degli Occidenti. L’arte è lo specchio delle maschere che nascondono e rivelano. Il tempo dell’arte, nei percorsi di una visione mediterranea, è un tracciato in cui le visioni toccano il dato oggettivo e, soprattutto, il dato immaginario che diventa funzione antropologica in un legame tra antropos e civiltà. L’arte, quella pittorica e quella scultorea, ha sempre una percezione metafisica.

    Dentro questa metafisica i luoghi e i camminamenti costituiscono il magico irrisolto di un viaggiare come in Paul Signac di Antibes, mattino del 1914. Arte e Mediterraneo costituiscono un binomio in cui si compie un viaggio alla ricerca del centro. Ma è, sostanzialmente, un viaggio sempre verso il Sud. Un Sud dell’Anima.

    Un Sud dei colori e delle percezioni.

    Senza la percezione i colori non avrebbero senso e neppure forma. Il tempo della memoria del Mediterraneo è un tempo sia religioso – popolare che antropologico – estetico.

    Penso a Claude Lorrain del Riposo nel paesaggio durante la fuga in Egitto (1640 – 1645 circa), in cui il senso della pazienza è una costante dell’attesa. Oppure a Gustave Corbert quando ci mostra l’attesa della Riva del mare a Palavas (1854).

    Il mare come anima con le righe delle onde che vanno oltre e vanno dentro. Penetrano e sottraggono tempo al tempo delle assenze che il paesaggio sottolinea. Il Mediterraneo è una distesa e un golfo.

    Osservo la straordinarietà de L’Estacque. Veduta dal Golfo di Marsiglia (1878 – 1879 circa) di Paul Cézame, che diventa un racconto nelle immagini ferme e nell’immaginario non statico. Un racconto che non si ferma nei luoghi ma tocca la piazza dei mari come in Jean – Baptiste Olive de L’isola Maire, (1880 circa), nel quale acque e scogli creano piccole isole in un infinito che tocca orizzonti indivisibili.

    Come indivisibile è il paesaggio delle palme mediterranee di Claude Monet in Palme nel giardino Moreno a Bordighera del 1884.

    Palme che hanno colori autunnali ed estivi tra il giallognolo e il verde con casa e filtri di azzurri, che rimandano a un Pierre Bonnard del Paesaggio a Le Cannet (1933 circa), dove però è un castellato che emerge e si evidenzia con incastro di colori che creano le forme.

    Il Mediterraneo che tocca le finestre sul fotografico si avverte con molta forza in Felix Vallotton quando si specchia in Paesaggio provenzale. La finestra del 1920, dove la finestra apre e lega i due mondi: quello delle case esterne e quello della casa interna.

    L’anima si affaccia sulla realtà. Una metafora ricorrente nelle metafisiche del Mediterraneo. Tra questi percorsi artistici (e pittorici nelle loro intrecciature) campeggia quel Paesaggio mediterraneo,che risale al 1907 (circa), di Emile – Othon Friesz, che sembra leggersi come una voluttà di un vento che spinge gli alberi a piegarsi verso le acque e le terre.

    In tutto questo qual è la percezione più palpabile?

    È quella di un Mediterraneo che non ha linee e neppure limiti.

    Il Mediterraneo nella pittura è una osservanza della metafora nel tempo delle esistenze dei Sud del mondo. Non il Sud delle civiltà. Ma quel Sud in cui le rocce sono rosse tra l’ondulare del vento che spinge i rossi tramonti proprio lungo le costiere: Rocce rosse ad Agay (punta di Cap Roux) del 1903.

    Oppure è un Sud dell’anima del paesaggio la sfumatura tra le acque, gli alberi e la terra in fiore di Théo van Rysselberghe in Punta di Saint – Pierre a Saint – Tropez, risalente al 1896.

    Il Mediterraneo dell’arte si fa antropologia degli Orienti che si confrontano con i Sud degli Occidenti come avviene in Joan Miró con Figure di notte guidate dalle tracce fosforescenti delle lumache del 1940.

    Insomma si crea un tale intreccio tra arte, estetica ed antropologia tanto da viverlo come una vibrazione di intermittenze di ontologiche appartenenze. In fondo

    il Mediterraneo è una ontologica appartenenza altrimenti diverrebbe una mera geografia. La maschera si rivela nello svelare la coscienza della memoria dei camminamenti. Il Mediterraneo è un camminare e un navigare tra le sponde di Ulisse in una costante metafisica dechirichiana: da Arnold Böcklin con Odysseus e Calipso, del 1883 al de Chirico di L’enigma dell’oracolo del 1910.

    Il falò nella teatralità del rito e nella tradizione dei miti.

    Il falò è una rappresentazione di una civiltà in cui i modelli etnici costituiscono il linguaggio di una rievocazione. La rievocazione recupera il mito per farlo diventare rito. Il mito e il rito sono la teatralità di una antropologia del linguaggio sommerso delle etnie. Il Mediterraneo è anche la terra dei falò. L’Occidente e l’Oriente. Disse Rûmi: Il fuoco non ha più fumo quando è diventato fiamma.

    La Puglia tra Adriatico e Mediterraneo ha il canto delle magie, come la Calabria ha il canto delle magare. La Campania la danza delle streghe. La Tarantata è l’Oriente che danza nella grecità e nel bizantino mondo. Brindisi (e Mesagne), Novoli (Lecce) e Grottaglie (Taranto) hanno l’antica tradizione dell’accensione dei falò che è strettamente legata ad una cultura popolare il cui elemento fondamentale resta la religiosità. Ogni Regione, comunque, ha la sua teatralità con il falò. Cambiano le tradizioni e cambiano i luoghi e cambiano le date. Ma la grata simbolica ha sempre un amuleto come segno di rappresentatività orfico – propiziatrice.

    Sia a Brindisi che a Novoli o a Mesagne il Santo che è nella trascrizione rituale è Sant’Antonio Abate la cui data calenderizzata è il 17 gennaio. Mentre a Grottaglie è San Ciro che si festeggia con uno straordinario falò (Focra – Foc’ra) il 31 gennaio. Chiaramente il rito del falò non comprende soltanto queste date, in Puglia, o questi Santi.

    I grandi festeggiamenti per San Giuseppe continuano lungo questo percorso. Un Santo segnato da matrici anche etniche. Si pensi a San Marzano di San Giuseppe, una comunità che si mobilita interamente per celebrare riti sacri e riti pagani il 18 e 19 marzo. C’è un processo antropologico che si innesca dentro questi sistemi culturali ai quali l’identità dei territori diventa fondamentale. Il fuoco, il falò, la danza intorno al fuoco, i canti hanno richiami non solo storici ma anche etno – archeologici.

    È naturale che la etno - antropologia recupera anche il linguaggio del falò attraverso le recite e il canto. Una visione innovativa che entra nel nuovo concetto di bene culturale. Ha sostenuto la studiosa di antropologia Maria Zanoni: "Un tempo i contadini raccoglievano i rami secchi nelle loro campagne per poi farne un enorme rogo e spargere le ceneri nei campi per propiziare il raccolto. La mattina successiva, dopo aver fatto il giro tre volte intorno alla cenere lasciata dal falo', se ne raccoglieva un po' e la si passava sui capelli o sul corpo, per scacciare i mali; mentre tizzoni accesi venivano portati nel focolare delle proprie case come protezione dagli spiriti maligni.

    Il momento dedicato ai falò coincideva con l'inizio dell'anno, che era anche inizio dell'anno agricolo, tra febbraio e marzo, stagione dedicata a Marte, dio dell'agricoltura e simbolo maschile di giovinezza e rinascita, legato all'elemento del fuoco e del sole".

    Così prosegue: Si cominciava con il falò di S. Antonio Abate, il 17 gennaio, per continuare con quello che bruciava il re Carnevale e poi quello dedicato a San Giuseppe e ad altri Santi protettori. Probabilmente all'origine di queste feste c'è il mito del fuoco che Prometeo rubò agli dei, per restituirlo agli uomini a cui Zeus l'aveva sottratto per punirli della loro empietà.

    Ci sono riti e modelli che richiamano culture neolitiche e medioevali. La Zanoni ancora: Per punizione del suo gesto, Prometeo è incatenato ad una rupe del Caucaso, dove ogni giorno un'aquila gli mangiava il fegato, che ricresceva durante la notte rendendo il supplizio eterno (Maria Zanoni).

    Anche in Sardegna è un rito propiziatore. Il cosiddetto ballo tondo di cui parla Grazia Deledda. O il falò pavesiano sul quale non solo ha scritto un libro Pavese, ma ha intavolato un percorso antropologico profondo con Paesi tuoi del 1941 e poi con Feria d’agosto del 1946.

    Il rito del fuoco è il rito del falò. O i falò della tradizione albanese (ziarri, fuoco) con il ballo tondo anche qui in onore di Scanderbeg. Sino al Falò di Grottaglie (la Foc’ra, sempre in un contesto geografico Magno Greco – Salentino e Ionico).

    Addirittura Eraclito sosteneva: Il fuoco vive della morte della terra e l'aria vive della morte del fuoco; l'acqua vive della morte dell'aria, la terra della morte dell'acqua.

    Un richiamo etno – antropologico che proviene, come già si è sottolineato, dalla tradizione mediterranea e dall’intreccio di culture dell’Oriente e dell’Occidente è la Focara di Novoli. La fòcara, meglio con l’accento sulla o) questa suggestiva parola che rievoca antiche tradizioni e che sta ad indicare in dialetto salentino un falò di legna da bruciare, è diventata una delle principali attrazioni del comune di Novoli, in provincia di Lecce.

    In occasione dei festeggiamenti del santo patrono Sant’Antonio Abate, ogni 16 gennaio la fòcara viene accesa da uno spettacolare gioco di fuochi d’artificio che rende particolarmente scenografica la piazza principale del noto paese salentino.

    Siamo in un contesto tarantolato.

    Siamo in un tessuto territoriale Griko.

    Siamo nella piana espressione di una demoetnoantropologia greco – mediterranea – arabo – orientale.

    L’evento, per la sua spettacolarità, attrae ogni anno migliaia di persone provenienti da tutto il sud d’Italia tanto da essere stato oggetto di un documentario della National Geographic. Al fine di rendere questa tradizione il più possibile originale, alla pira ardente viene attribuita ogni volta una forma differente dotandola, occasionalmente, di un varco centrale all’interno del quale viene fatto passare il Santo durante la processione.

    La fòcara è formata da circa 90.000 fascine e la sua preparazione inizia già a metà dicembre. L’origine di questa tradizione non è certa, è tuttavia probabile che derivi da antichi riti pagani o da un terremoto che colpì il Salento diversi secoli fa.

    Certo è che questo termine, intriso di fascino e mistero, deve aver colpito anche Dante poiché lo ritroviamo nel XXVIII Canto dell’Inferno: poi farà sì, ch'al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco.

    In questo caso, pare che il sommo poeta si riferisse al nome di un monte dal quale soffiavano venti impetuosi, ma ci piace pensare che il monte prendesse il suo nome da questa suggestiva tradizione di origine millenaria e dal sapore antico.

    Ci sono richiami e rimandi che toccano le culture neolitiche in un geografia in cui il Mediterraneo ha lasciato segni indelebili.

    Il fuoco, la legna, le fascine, la notte,,, sono tutte griglie simboliche che rimandano anche a riti sciamani. Infatti il falò è nella tradizioni sia balcaniche che delle culture sciamaniche. Il mondo sciamanico vive di questi riti. Eraclito ancora una volta aveva letto molto bene: Tutte le cose sono uno scambio del fuoco, e il fuoco uno scambio di tutte le cose, come le merci sono uno scambio dell'oro e l'oro uno scambio delle merci.

    La Focara di Novoli nasce in una tradizione consolidata in cui la grecità, la salentinità e il mondo Orientale e Mediterraneo sono ceselli di una tradizione che si rinnova puntualmente. Perché, dunque, il falò come elemento antropologico? Perché la funzione del fuoco è un richiamo ancestrale tra gli elementi della natura ed è, insieme alla luna, un elemento rivelante come interpretazione profetica del destino. Destino dei popoli e delle civiltà. Tradizione. Diceva bene Cesare Pavese: "Che cos'è questa valle per una famiglia che viene dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa, averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza bisogno di parlarne.

    Il falò vive di riti e dei luoghi. Il mito del falò ha bisogno dei riti. La danza, il canto, le cantilene, il dialetto come elemento significativo della comunicazione costituiscono elementi di una vera e propria rappresentazione. Il falò diventa teatro. Ha un suo significato esistenziale secondo Cioran: Avevano ragione quegli antichi filosofi che assimilavano il Fuoco al principio dell'universo, e del desiderio. Il desiderio infatti brucia, divora, annienta: agente e distruttore degli esseri, è oscuro, è infernale per eccellenza.

    Archeologia e antropologia in una filosofia del bene culturale

    La demo etno antropologia è un bene culturale. Considerato ciò credo che il dibattito tra archeologia e territorio non può fare a meno di una visione prettamente antropologica. L’archeologia ha necessità di entrare nelle antropologie comparate. Le etnie linguistiche che presentano forti aspetti demo-antropologici risultano sempre più interessanti su un piano pedagogico ed educativo. In questo senso il ruolo della scuola diventa sempre più importante e necessario.

    La scuola è una agenzia nella quale il modello multiculturale costituisce una chiave di lettura di apprendimento di modelli e strategie ad intreccio. Soprattutto la scuola della nuova riforma ha la necessità di confrontarsi tra le identità acquisite e le appartenenze altre. La scuola come riferimento, dunque, tra lingua, tradizione ed identità.

    In una società in cui il concetto di etnia o di comprensione dei significati e significanti di etnocentricità diventano elementi culturali includenti la scuola non può essere intesa come struttura che si apre alle società ma ridiventa sempre più agenzia della società e come tale deve avere la forza e la capacità di raccogliere istanze che provengono da realtà articolate non solo dal punto di vista antropologico in sé ma anche linguistico.

    Le minoranze etno – linguistiche sono testimonianze di fenomeni in cui l’espressione culturale diventa articolata attraverso delle varianti che provengono da diverse conoscenze perché la stessa è contaminata ma parimenti diventa contaminante.

    Una scuola assorbente è una scuola motivata perché mette in moto delle caratterizzazioni individuali e di gruppo in cui il portato esperenziale diventa formativo e formante in un intreccio di fenomeni che hanno una loro valenza prioritaria: la conoscenza.

    Soprattutto in quelle scuole che ricadono nei territori dove non c’è una memoria storica etno – antropologica e linguistica diversificata compararsi con le lingue altre ( lingue tagliate come si usava ripetere alcuni anni fa) significa non solo aprirsi ad una integrazione comprensiva ma ad una conoscenza valorizzante.

    Ormai molti Istituti scolastici, al di là della questione relativa alle minoranze linguistiche storiche, hanno costanti rapporti con le culture migranti proprio attraverso la presenza di alunni che provengono da altri Paesi, da altre comunità, da altre identità.

    Questa apertura interessa certamente il confronto con una società sia multietnica sia pluriculturale ma un discorso completamente diverso è quello delle scuole che vivono il fenomeno di un bilinguismo storico o di una cultura radicata come quella Italo – albanese o grecanica, quella catalana ad Alghero o occitana nell’area delle valli piemontesi (zona Pellice), quella ladina o friulana con una koinè ben definita e così via.

    È su queste strutture territoriali che la comparazione tra minoranza storica (sia etnica che linguistica) e tessuto scolastico trova una sua importanza nevralgica sia sul versante istituzione e giuridico (la Legge 482/99 è una dimostrazione della sintesi di alcuni proposte e di alcuni risultati oltre ad essere ancora un punto di riferimento per ulteriori necessità che permettono l’utilizzo di un percorso di pedagogia della conoscenza) sia su quello prettamente educativo che tocca aspetti inerenti la storia e la tutela di un processo fatto di tradizioni, di intrecci tra lingue, di costumi, di scavi puramente identitari.

    Ci sono esperienze che vanno recuperate come quelle sottolineate tra territori che portano una loro cultura di bilinguismo vero e proprio e territori monolinguistici (e anche monoculturali) che vivono però sullo stesso tessuto geografico, o meglio sono comunità confinanti.

    Ci sono diverse realtà che si presentano in un tessuto paesaggistico similare. A distanza di ottocento metri, faccio un esempio, si riscontrano comunità Italo – albanesi affiancate a paesi di lingua e tradizione completamente italiana. La scuola, in questi casi, deve saper dialogare e non può creare degli steccati a priori o delle nette separazioni partendo da un presupposto principale che è quello del confronto a tutto tondo tra culture e lingue.

    Credo che il vero modello di integrazione contaminata e valorizzante passi dentro questa rete di contatti e intermittenze antropologiche. D’altronde, la scuola è anche una agenzia delle conoscenza e del recupero delle antropologie disperse.

    Abbiamo due contesti. Il primo riguarda il rapporto tra scuole e minoranze linguistiche nelle comunità che rientrano nella normativa di tutela delle minoranze perché le comunità hanno una loro radice storica etno – linguistica ben definita. Il secondo, invece, riguarda il dialogo tra scuole e territori che non presentano una realtà di bilinguismo ma viciniori alle comunità che vivono nel contesto culturale e giuridico del bilinguismo.

    Cosa fare? Si pone il problema per le scuole non interessate al bilinguismo storico? È un interrogativo sul quale occorre chiaramente riflettere. Occorre però una lettura complessiva, soprattutto in termini culturali, del fenomeno da parte delle scuole non interessate al bilinguismo storico ma che accolgono però alunni provenienti dalle comunità di minoranza linguistica.

    Si parte da una considerazione che ha una visione geografico – territoriale. Abbiamo bisogno di conoscenza e consapevolezza. Pur non usufruendo dei diritti della normativa vigente inerente la tutela delle minoranze linguistiche, la scuola deve raccogliere i patrimoni linguistici dei territori vicini e fare in modo che la cultura definita possa diventare un percorso di culture comprese e capite come patrimonio di una eredità di beni storici, linguistici, umani.

    Il nostro è stato sempre un Paese delle etnie e delle lingue incluse. Proprio in virtù della nostra storia linguistica (unitaria, articolata e disomogenea), che parte da molto prima della Unità d’Italia, il modello etnie – lingue è un rafforzativo in una scuola delle identità ritrovate e delle appartenenze, antiche e contemporanee, coinvolgenti in un dialogo tra pedagogie del rispetto, minoranze linguistiche e comunità con antropologie confinanti. In virtù di ciò sono convinto che sempre più bisogna considerare gli aspetti demo-antropologici ed etnici un bene culturale forte nella comprensione dei territori. I territori sono storia e identità.

    Un Mediterraneo vissuto tra la Magna Grecia

    Io vissi di tramonti nel cuore delle sere/ in attesa del giorno nuovo/ lungo le vie dei deserti e dei mari (Manuz Zarateo). Il Mediterraneo delle statue e del racconto affidato ai musei. Il Mediterraneo delle parole e dei linguaggi. Il Mediterraneo degli incontri imprevedibili tra Ulisse, Cristo e Maometto. Il Mediterraneo ancora degli Orienti (i più Orienti che abbiano nella nostra storia e nelle nostre memorie) e dell’Occidente. Ma in un Mediterraneo che ha un cruore cristiano, musulmano, berbero, ebraico, armeno (intrecciamo religioni e civiltà), greco e Magno – greco la letteratura diventa il meridiano dell’attesa.

    Occorre precisare alcuni dettagli che riguardano il tema in questione. In un tempo in cui il Mediterraneo non è soltanto una geografia o un modello geopolitico l’antropologia delle etnie assume una concordanza con quelle eredità che hanno attraversato la civiltà pre Magno Greca sino a tutto il contesto Romano. È proprio nello spaccato tra le identità greche, neogreche e latine che le etnie del Mediterraneo assumano una valenza sia politica sia prettamente antropologica sia metafisica.

    Finora abbiamo trattato la questione relativa al rapporto etnie e Mediterraneo come se fosse una dimensione meramente territoriale. In un tempo di vissute incompiutezze esistenziali il Mediterraneo resta un destino, come volle definirlo Braudel, ma anche una sostanziale filosofia della conoscenza dei saperi.

    I veri saperi del Mediterraneo nascono dalla definizione di un processo etnico che significa la

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