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Il velo
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E-book177 pagine2 ore

Il velo

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La decadenza della potente famiglia Olivari attraverso la parabola di tre generazioni e il declino di un'intera classe dirigente. In una Genova superba e piccola, tra turbolenze epocali e ambigue tragedie individuali: uno "scempio storico", secondo le parole dello stesso patriarca. La Ditta, la città, le parentele. Una sessualità tanto vitale quanto occulta e repressa. La religione, il patrimonio, le intangibili e severe liturgie domestiche. Dove il mistero di alcuni decessi, anziché esprimersi in uno schema noir, si proietta nei chiaroscuri di una famiglia di imprenditori lungo un ampio ciclo, sempre in bilico tra profitto e perdita, epopea e crepuscolo, credito e discredito. Nel tempo - "il tempo lento della casa" - decadono valori, identità ed (est)etica borghese, fino alla liquidazione forzata di un piccolo impero. Le basi morali del decoro, il velo degli eufemismi, lo stesso buon nome: tutto si disfa in un decadimento individuale e storico che la stupefacente svolta finale non potrà riscattare. Da una scrittura raffinata e demodé come l'universo che descrive, scaturisce uno sguardo di ironica sfiducia sulle prospettive della società e della borghesia novecentesca, di cui lo stesso Autore si sente parte. Sullo sfondo, i grandi conflitti della vita italiana e l'indecifrabile rapporto tra il Bene dei quartieri alti e il Male del recinto, misero e vivo, dei bassi vicoli antichi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 giu 2020
ISBN9788831679329
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    Anteprima del libro

    Il velo - Gian Luca Caffarena

    decisivo

    I

    L'autunno del 1980 fu piovoso e umido. I coniugi Massimiliano e Maria Olivari si erano trasferiti per qualche giorno da Genova nella dimora di campagna vicina a Savignone, a pochi chilometri dalla città. Il Villone, così veniva chiamato, era un solido palazzotto ottocentesco a tre piani, turrito e di stile incerto, simbolo per generazioni di ricchezza e continuità. Qui la cinquantenne Maria, dopo brevissima agonia, spirò per un' inopinata epatite fulminante, munita dei conforti religiosi. Era il 24 di ottobre, un venerdì.

    Massimiliano, detto Max, d'accordo con il figlio Rodolfo, decise subito di allestire la camera ardente nella stessa villa, piuttosto che nell'abitazione genovese di corso Magenta. Una scelta ispirata anche a profondi valori morali e affettivi, rappresentando da sempre l'amato Villone un luogo di identità e coesione per una vasta platea di parenti prossimi e lontani. In seguito, la cara salma sarebbe stata traslata in città per gli onori funebri, e finalmente tumulata nella cappella di famiglia, presso la monumentale necropoli di Staglieno.

    L'ostensione delle spoglie mortali, tra candelabri ardenti e drappi neri, fu così predisposta al secondo piano nella sala delle vetrate, comunemente riservata a cenoni, compleanni, banchetti nuziali e battesimi: dove periodicamente la grande famiglia usava raccogliersi al completo, tra copiose vivande e architetture pregiate, per accantonare ataviche e mai sopite faide, ricomporre un ordine e ritrovare in quell'abbondanza, nel fasto come nel lutto, il comune orgoglio di un dominio forte e ovunque riconosciuto.

    Maria giaceva supina, adagiata dietro un paravento in un severo abito di velluto, chiuso in alto da un colletto di pizzo e un cammeo ovale: a detta di molti, demodé in morte come in vita. Mentre un mormorio di donne velate si levava per le sale in monotona cantilena, attraverso lustri corridoi e scalinate in marmo, tra pareti e volte ricche di fregi.

    Massimiliano Olivari si aggirava smarrito per quei locali. Nella figura imponente e nel viso asciutto si sarebbe detto il ritratto del padre: stessi tratti marcati, stessa altera signorilità. Ora la brusca condizione di vedovo gli evocava confusamente scenari simili, recenti e lontani, a cominciare dal decesso della madre Ida, mancata tanti anni prima per un brutto male. Questa volta toccava a lui, come erede di un' antica tradizione, ricevere quanti cominciavano ad affluire in gran numero nella casa, debitamente contriti.

    Tra i primi si presentò Monsignor Guido, molto vicino a Sua Eminenza, intimo della povera Maria e fidato consigliere spirituale di famiglia. Il prelato abbracciò Max e Rodolfo, poi strinse fortemente le mani di tutti con brevi parole di solidarietà: Vi porto la benedizione dell'Arcivescovo. Stringiamoci uniti: Maria è qui, è tra noi.

    Max fu felice di baciare il viso fresco di Gemma, la sorella più giovane. C'era anche la cognata Egle, vedova di Attilio detto Titti, sopraggiunta precipitosamente da Forte dei Marmi, per l'occasione molto sobria e compunta in un classico tailleur blu. Figura più gradevole che bella, abitualmente sgargiante, Egle ostentava di frequente una certa esuberanza salottiera e un po' vanesia, nella silenziosa perplessità del Monsignore; ma per l'occasione seppe apparire dolente quanto le circostanze imponevano, senza rinunciare al ciuffo d'oro che le scendeva compatto sulla fronte.

    Sopraggiunsero nipoti, cugini, amici e parenti più o meno prossimi o acquisiti, più o meno intimi o interessati, che non era mai stato facile identificare, per un intreccio genealogico sempre più intricato. Cravatte pesanti, volti ben pasciuti. Mancava il Commendator Cesare, l'anziano padre, gravemente cardiopatico e provato dai troppi lutti, cui la seconda e piacente moglie Clara, sempre assidua al suo fianco, aveva deciso di risparmiare ogni frangente penoso.

    Tutti erano raccolti nell'austero decoro del salotto rosso: dove, tra scene agresti di macchiaioli, campeggiava il ritratto del capostipite Carlo Alberto, un grande tela che esaltava con pastose pennellate i tratti volitivi dell'antenato navigatore, che aveva non poco contribuito alla supremazia della Superba sui mari. Sul suo conto si favoleggiava di grandi fortune e spericolate escursioni commerciali in Asia e nelle Americhe: genuensis, ergo mercator. Effigie immancabilmente presente in un'infinità di varianti in ogni stabilimento, ufficio e abitazione, benché sulle origini storiche di quel patrimonio gravassero talvolta non poche reticenze.

    L'ambiente cominciava ad animarsi di una conversazione varia e contenuta, in un clima di familiarità. Fu naturalmente evocata la figura della signora, che il vicario definì indomita eroina della Fede. Tutti si interrogavano sulle cause di un decesso così repentino e prematuro. Si accennò al fervore religioso della defunta, al suo impegno a difesa della famiglia e del Gruppo, oltre alle indiscusse doti di carità, forza d'animo e dedizione domestica.

    La piccola Ludovica, nipote del notaio Ottonello, accennò su istigazione materna una poesiola edificante e mesta imparata dalle Madri Dorotee: per la timidezza si impappinò facendosi rossa, e venne subito soccorsa dal divertito conforto di tutti.

    Rodolfo, giovane dirigente, parlò con commozione della breve agonia della madre. Poi, su insistenza generale e nella sorda invidia di certi cugini, riferì sommariamente delle sue esperienze nelle aziende di famiglia e dei relativi progetti di espansione, favoriti dallo sviluppo finanziario di quegli anni.

    L'anziano prelato, a voce bassa e non senza apprensioni, aggiornò i presenti sulle iniziative di Sua Santità Giovanni Paolo II in rapporto ai nascenti fermenti dell'Est. Venne acceso qualche sigaro, gli uomini cominciarono a commentare le incognite della politica internazionale e italiana, esprimendo dubbi sulle prospettive del governo e della Borsa. Presto le donne fecero gruppo a sé, per scambiarsi confidenze di casa e mondanità, mentre Gemma passava con i salatini. La bionda cognata non mancò di decantare un soprabito cammello notato nelle vetrine di Pescetto: Un bel taglio sportivo, nemmeno troppo caro. Insomma, per quanto discreto, cominciò prender corpo un certo brusio di chiacchiere, proprio mentre dal salone accanto, tra giaculatorie e avemarie, dalla nenia del mortorio si levava un crescendo più sonoro, in un singolare sovrapporsi di sacro e profano.

    Max smise di camminare inquieto su e giù, si lisciò i baffetti chiari e curati, poi cacciò i pugni nelle tasche della giacca, come usava ogni volta che doveva prender coraggio. Si aprì cautamente un varco nell'emiciclo delle donne che continuavano a sgranare rosari, e decise che era giunto il momento di contemplare il profilo senza vita di Maria, nella luce fredda di quel freddo corpo: dove, nel cono della lampada, il pallore e la rigidità della morte non gli sarebbero sembrati molto diversi dal pallore e la rigidità della vita. Le labbra carnose non ammorbidivano i lineamenti duri.

    Maria Olivari nata Repetto veniva da una famiglia di militari: il padre Ruggero era un decorato capitano di marina. Da ragazza era stata bella, poi le severe liturgie della vita familiare ne avevano logorato brio e vitalità, riducendola con lenta metamorfosi a una figura sterile e neutra. I rapporti coniugali cosiddetti intimi, per lungo tempo rari e senza piacere, erano cessati da anni. Memorabili i rimbrotti che la signora riservava alle ragazze del servizio, sempre gelosa della loro vitalità giovanile e rustica. Neppure si potevano dimenticare le crisi mistiche della defunta, e quel pellegrinaggio a Fatima: dove, dopo un interminabile raccoglimento, era parsa trafitta da prolungata estasi, quasi un orgasmo sublimato, senza che fosse mai chiarito che cosa si fossero realmente detto le due Marie.

    Da allora aveva cominciato a tormentarla un cupo assillo di dannazione, e quella che in precedenza poteva sembrare una comune devozione, ancorché fervida, si era fatta delirio visionario. Gli angelus in latino, tre volte al giorno. I digiuni di penitenza e il ripudio del corpo, sempre più coperto di veli e scialli scuri. Le giaculatorie bisbigliate tra i denti in raffica convulsa, nelle circostanze più varie. Un'ossessione che si traduceva in frequenti richiami all' insanabile conflitto tra il Bene e il Male, e invettive di fuoco contro il lassismo dei tempi, in particolare per certe svergognate cortigiane subdolamente presenti anche in istituzioni e famiglie in apparenza irreprensibili, comunque destinate all'eterno rogo. E poi le aspre gerarchie della casa, quando cadeva il cielo se stoviglie e posate non erano composte in simmetrica armonia sulle tovaglie in pizzo. Erano fulmini apocalittici ogni volta che Rodolfo si faceva cogliere con l'Espresso, dove ai contenuti laicisti si sommava l'aggravante delle immagini discinte. Per non parlare dell'abbigliamento e del lessico: nel fare salotto la signora si compiaceva di indumenti vedovili e vocaboli desueti, come i vecchi ninnoli che ornavano gli arredi. Tutta la vita familiare era insomma irrigidita in un ordine matriarcale antiquato e arcigno.

    Ma ora, osservando la salma con più attenzione e pietà, Max mitigò la prima impressione, e riconobbe che nella sua bianca maschera la morte sembrava averne gentilmente svelato qualche femminilità, addolcendo i lineamenti in un'espressione più serena, dove le tensioni apparivano placate, mentre una piega della bocca misteriosamente languida poteva persino evocare tratti di dolcezza e femminilità. Strenua in vita nel culto della fede, della proprietà e della famiglia, Maria giaceva ora finalmente quieta, nella sua solenne inerzia. Tra emozioni contrastanti, il vedovo ammise che era spirata una grande signora.

    Gli ultimi giorni erano stati strazianti, con i tremiti della morente che balbettava parole sconnesse e spasmodiche invocazioni a Dio e agli uomini, poche frasi febbricitanti e indecifrabili. Il medico di famiglia, l'anziano professor Parodi, internista, gran brava persona e nel suo campo vero luminare, che allargava le braccia con fatalismo. Per il tipo di virus contratto, il buon medico si era chiesto se l'inferma avesse assunto qualche essenza tossica. Forse, considerando che la signora usava non di rado assistere gli infermi negli ospedali e a domicilio, si poteva pensare a qualche contaminazione di sostanze organiche o fluidi biologici infetti. Per ovvie ragioni venne escluso il contagio sessuale: ma presto ogni ipotesi clinica venne superata dal precipitare del morbo, con i rantoli, gli estremi sussulti e l'Olio somministrato dallo stesso Monsignore. Dopo tre strazianti giornate, tutto il travaglio si era infine risolto in un supremo brivido: un gemito acuto, prolungato e sensuale, di uno strazio più vitale della vita, quasi una sintesi o conclusione del suo ciclo terreno.

    Subito la camera era stata chiusa, per spogliare, lavare e rivestire la salma secondo le istruzioni della stessa Maria. A questo si affaccendavano Santina e l'infermiera, con altre pie donne. Max, che per sbaglio aveva aperto la porta, fu subito rudemente allontanato per l'improvvida profanazione: Fuori! Fuori! Ma in quel breve attimo, sul letto disfatto, aveva colto in controluce l'immagine della nudità compatta, chiara e quasi giovane di un corpo adagiato con cura: la spoglia, più che inerte, si sarebbe detta morbidamente abbandonata. Max ne fu turbato, perché nel corso della sua poco esaltante vita  coniugale non gli era mai stato dato di fruire di tali visioni.

    Ricordava il vociare delle donne e dei bambini tante volte echeggiato nella sala ora addobbata a lutto. I giochi nel parco e le corse affannose per la scala a chiocciola in ferro battuto della torretta. Per fortuna, pensò, quel giorno il papà non c'era: in pochi anni il Commendatore aveva perso il figlio Attilio detto Titti e il genero Edoardo detto Edy, marito di Gemma, in verità non proprio benvoluto. Entrambi scomparsi in circostanze ambigue o cruente. Quanti lutti.

    Alla scena presente si sovrapponevano immagini antiche: sulla grossa poltrona in pelle marrone si arrampicava il piccolo Rodolfo, giocando con chiassosi coetanei. Presso il grande camino in pietra una giovane Egle seduceva il fratello Attilio, detto Titti, rifacendo Marilyn: troppi lustrini, troppe gambe, troppe risatine di vanità. Il patriarca Cesare, energico e galante, che tagliava il tacchino o giocava alla tombola, rievocando la giovinezza e i tempi di Mussolini. Lo sciagurato Edoardo che faceva il bel tenebroso con Gemma, e la sventurata che rispondeva. Nell'angolo opposto, tra una portata e l'altra, bisbigliavano e ridevano le ragazze del servizio.

    Quanti decenni, quante voci, quanti alti e bassi negli affari e negli affetti. Le vele annerite dei soffitti, fra Nereidi e Tritoni, sembravano aver assorbito la densità del tempo.

    Finalmente le donne avevano concluso la veglia, e molti cominciavano a prender congedo. Verso sera calò sulla casa un silenzio sepolcrale. Il feretro venne caricato sul furgone. Max e il figlio rientrarono in città con la servitù. Il Villone, scuro e massiccio, restò vuoto.

    L'indomani, sotto un cielo basso e livido di mattina autunnale, il corteo si avviò con solenne lentezza alla Cattedrale, dove le esequie vennero officiate personalmente da Sua Eminenza, nella calca di parenti, amici e curiosi. Tra formule di rito e cantilene in latino, il feretro troneggiava al centro della navata. In prima fila, accanto a Max, Rodolfo e Gemma, spiccava il drammatico bianco e nero di una Egle velata e pallida, che anche nel lutto trovava il suo smalto.

    Oltre i maggiorenti cittadini, c'erano i dirigenti del Gruppo, con rappresentanze di collaboratori, dipendenti e maestranze. Comune borghesia e popolo minuto. Ancora abbracci, commozione, tante corone e troppo incenso, tra aroma di chiesa e cupi raggi di vetrate sacre.

    Infine la tumulazione a Staglieno, la monumentale città dei morti, dove la gotica cappella di famiglia da sempre accoglieva gli Olivari passati a miglior vita: a cominciare dal progenitore Carlo Alberto, il cui marziale profilo nettamente si stagliava sul bassorilievo di un pesante sarcofago.

    Tra i vari emblemi di famiglia, un gruppo bronzeo di figure polverose e annerite ostentava con ridondante dovizia il dovuto repertorio di simboli e allegorie, tra scheletri, falci, sudari, angeli della morte, croci, madonnine sgomente, figure esanimi di progenitori trapassati.

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