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Il Sacrificio di Cristo
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E-book141 pagine2 ore

Il Sacrificio di Cristo

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Il Sacrificio di Cristo l’opera che dovrà completare l’altare del Convento Domenicano di San Marco a Firenze è vicina alla conclusione, ma Lorenzo, il pittore, vuole catturare l’intima sofferenza del Creatore, ritrarre sulla tela l’ultimo suo soffio vitale. Girolamo Savonarola, suo committente, non può aspettare, gli eventi rischiano di travolgerlo, il destino diventare avverso.

Luigi Amato è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università degli studi Federico II di Napoli, è dottore in Lengüistica Aplicada a la Enseñanza del Español como Lengua Extranjera presso l’Università Antonio de Nebrija di Madrid e ha poi conseguito il Master in Programmazione Comunitaria e Finanziamenti Europei presso la Seconda Università di Napoli, ambito nel quale opera.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2019
ISBN9788835374367
Il Sacrificio di Cristo

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    Anteprima del libro

    Il Sacrificio di Cristo - Luigi Amato

    Niccolò

    I

    Dominare la materia era per lui un’impresa sempre più ardua dar-Le forma, modellarLa secondo le proprie intenzioni.

    Ricreare le figure che vivevano nella sua mente era uno sforzo titanico, una sfida, audace e ardita, per la quale non aveva mai considerato l’eventualità di fallire: la materia doveva piegarsi al suo volere!

    Un pallido sole penetrò nella bottega di Maestro Lorenzo, illuminando e ravvivando le tele sparse dappertutto: alcune già terminate altre vicine alla conclusione. Un’enorme pala d’altare campeggiava al centro della stanza: era meravigliosamente bella, osservarla diffondeva nell’anima una sensazione di serenità, la prospettiva era perfetta e i colori caldi e dolci le donavano le stimmate del capolavoro. Chiunque entrasse nello studio non poteva fare a meno di ammirare quella pittura e complimentarsi con l’autore, il quale, però, l’avvertiva come incompleta, mancante di un qualcosa che ancora gli sfuggiva.

    Lorenzo non riusciva a comprendere le ragioni di quella imperfezione e come individuare l’ultimo tassello necessario per concludere il lavoro, perciò un dolore lancinante gli percorreva i sensi ogni volta che lo sguardo si posava su quella tela. L’opera gli era stata commissionata dal Savonarola in persona per essere collocata sull’altare della Chiesa di San Marco e abbellire con umiltà quell’edificio di cui il domenicano era priore e dal quale partì la sua battaglia per il ripristino della Regola. Il frate ferrarese gli aveva detto: «Vedi, Lorenzo, per i fedeli osservare quest’opera dovrà significare rapimento e sofferenza, la stessa di Cristo, il cui sacrificio ci ha salvati. Sono il rigore dei costumi e la privazione gli unici strumenti per annientare l’imperante dissolutezza».

    Lorenzo tornò ad avvertire in cuor suo, come quella volta, il pulsare dell’entusiasmo: il convento e la Chiesa di San Marco ospitavano le opere del Beato Angelico, il frate pittore… eguagliare la sua grandezza o soltanto avvicinarsi a essa sarebbe stato impossibile.

    «Magister», ritornò con la mente alla sua risposta, «Voi mi concedete un onore incommensurabile. Io, creare un’opera che riposerà per l’eternità accanto ai capolavori del Beato Guido di Pietro? Spero soltanto di esserne all’altezza».

    Aveva accompagnato la frase appena conclusa con un leggero inchino, professione d’umiltà, che non convinse il Savonarola. Egli disprezzava la presunzione; ritenere la propria opera degna dell’immortalità: un’imperdonabile sfrontatezza.

    «Lorenzo! Cristo predicava l’umiltà. Non dimenticarlo mai!». Con tale sentenza il domenicano lo congedò.

    Lorenzo volle che Il Sacrificio di Cristo fosse posto al centro della bottega per osservarlo continuamente e catturare l’ispirazione conclusiva, quel bagliore fulmineo da imprimere sulla tela nel momento stesso della sua rivelazione. Scrutando i solchi della sofferenza sul viso del Salvatore, non avvertiva però alcuna sensazione, si sentiva svuotato, stranamente insensibile.

    Le sue visite alla Chiesa di San Marco furono numerose come i colloqui con Girolamo Savonarola, al quale svelò quei tormenti.

    «Padre, la tela che ho dipinto non ha afflato religioso. È solo fredda materia priva di anima».

    «Lorenzo», ribatté il domenicano, «non essere severo con te stesso. Firenze ti annovera tra i suoi talenti, e non senza ragione, certamente troverai quello che cerchi, devi solo avere fede e pazienza. Non cadere nel peccato gli oggetti non hanno anima. Un giorno verrò nel tuo studio per ammirare di persona la pala d’altare», sentenziò il frate con malcelata soddisfazione.

    La bottega era stranamente vuota in quel giorno di febbraio del 1497. Lorenzo anelava quei momenti di solitudine, favorivano la contemplazione e la riflessione artistica; tuttavia i rumori che provenivano dalla strada erano assordanti e molesti, sembrava che un gran numero di persone si stesse dirigendo nello stesso luogo e le voci si sovrapponevano ingenerando una grossa confusione. Il pittore nutriva una particolare repulsione nei confronti di ciò che lui definiva la marmaglia: frotte di persone prive di individualità, pronte a schierarsi con chi, attraverso l’eloquenza, riuscisse ad animarli, dicendogli ciò che desideravano ascoltare. Il frate ferrarese era un eccellente interprete di tali sentimenti: egli, brandendo lo scettro della religione, era riuscito a farsi strada e diventare l’arbitro assoluto di Firenze. Aveva paventato funesti accadimenti e sciagure imminenti, acquisendo tra i poveri consenso e credibilità.

    Il Consiglio Maggiore¹ deteneva un potere simbolico e limitato. Firenze, come in altri momenti della sua storia, era teatro di scontri molto duri: le diverse fazioni cittadine non lesinavano sforzi per conquistare il potere e le grandi speranze suscitate dalla cacciata dei Medici erano state completamente disattese.

    Il pittore si avvicinò alla finestra intenzionato a capire cosa stesse accadendo e rimase non poco turbato: una lunghissima processione percorreva le strade cittadine in un crescendo mistico di preghiere e lamenti. Un’atmosfera spettrale era calata sulla città: i volti delle persone tradivano tensione e preoccupazione, dovute forse al ricordo del passato recente quando una simile processione degenerò in cieca e incontrollata violenza; i palazzi dei nobili furono assaltati e bruciati, le ruberie e gli omicidi non si contarono, un’indescrivibile crudeltà aveva guidato una follia generalizzata e collettiva sfociata nella proclamazione della Repubblica. A Lorenzo tornò in mente la disavventura che gli era occorsa in quell’occasione: alcuni gaglioffi erano penetrati nella bottega e armati di mazze erano seriamente decisi a distruggere tutto. Fu solo il suo coraggio a evitare il peggio: egli prontamente aveva caricato la sua balestra, puntandola verso gli assalitori, che, sorpresi da quel gesto, si resero conto di essere a loro volta in pericolo e arretrarono.

    «Denaro e oro li troveremo da un’altra parte. Il pittore è povero ma fiero. Andiamo via!», gridò uno di loro.

    Girolamo Savonarola era a capo degli esagitati fedeli anche in quel giorno di febbraio del 1497. Urlava frasi profetiche e terribili, accrescendo l’ira e l’impeto di quelle persone che si lanciavano in esclamazioni e digrigni tutt’altro che rassicuranti, imprecando contro i Medici traditori e i loro alleati portatori di vizi e depravazioni. Le debolezze di quella famiglia erano una ferita ancora aperta per chi, come quella gente, aspirava a una sopravvivenza che gli era stata negata e individuava nella fede una via d’uscita. Uomini e donne vestiti di stracci, stipati in tuguri sovraffollati, uccisi dalla fame, dal freddo e dalle malattie. Questi erano i fiorentini che avevano riposto la loro fiducia nel ferrarese, accendendosi di speranza durante le sue prediche. Nonostante provenisse da una famiglia benestante, il domenicano condivideva con la plebe il fanatismo, l’impulsività e l’assolutezza di idee e sentimenti, tratti caratteriali che integrava con una ferrea disciplina e l’obbedienza incondizionata alla parola di San Domenico de Guzmán. La semplicità del suo linguaggio, diretto e incisivo, aveva fatto il resto, procurandogli una grande popolarità da lui gestita con un’abilità fuori del comune.

    Lorenzo notò che molti tra i processanti levavano in aria vari oggetti e in alcuni momenti si fermavano per distruggerli, utilizzando le loro stesse mani o scaraventandoli in terra per infierire su di essi con rabbia e veemenza. Decise di unirsi a quella marea come attratto da un’insana curiosità. Sperò, immergendosi in quel fanatismo di massa, di incontrare la pura spiritualità, il misticismo e soprattutto la sofferenza di quella plebe, forse la stessa di Cristo. Il pittore avanzò a grandi passi raggiungendo con facilità il corteo, che procedeva lentamente, bloccato a più riprese dai gesti e dalle prediche strazianti del ferrarese. Le sue urla squarciavano il cielo, catturando anche l’attenzione di quanti erano dominati dalla furia distruttrice: essi, dopo essersi arrestati, si buttavano in ginocchio e chiedevano perdono con inquietanti lamenti, attaccandosi alle vesti di chi gli stava davanti che, a sua volta, si prostrava sofferente e ripeteva quel gesto; sincronicamente tutti i fedeli, sgomenti, cadevano in ginocchio, offrendo, a chi osservava, la scena di una esaltazione di massa dalle gigantesche proporzioni.

    Erano specchi, ampolle, pettini, bambole, parrucche, bracciali, collane, pendenti e fermagli, gli oggetti sui quali si abbatteva il loro accanimento accresciuto dalle parole del piagnone², che non partecipava a quel rito annientatore fattivamente ma attraverso la sua eloquenza, ugualmente violenta e distruttrice. Lorenzo, atterrito e disgustato, si rese conto che lì non avrebbe trovato né fede né spiritualità, solo violento e folle odio. Distratto da quei pensieri quasi non si accorse che la processione era giunta in Piazza della Signoria. Le migliaia di fedeli sembravano aver smarrito quell’esaltazione che li aveva guidati fino a quel momento, la violenza parve diradarsi, ma era solo una sensazione: il rito era tutt’altro che concluso. A uno a uno, i fedeli si inginocchiarono davanti alla loro guida spirituale e, dopo aver ricevuto la sua benedizione, con disprezzo, gettarono quegli oggetti del peccato in terra, rivolgendo parole supplichevoli al Creatore. In poco tempo si formò una gigantesca catasta. Il Savonarola, dando le spalle a essa, si parò davanti a quell’orda di fedeli, urlò una preghiera di perdono e richiamò a sé alcuni uomini armati di tizzoni, che, partendo dalla base diedero fuoco a quella pila di maledizioni. Le fiamme si propagarono molto velocemente, minacciando anche gli edifici di Piazza della Signoria: una danza di riflessi infuocati si levava altissima, riflettendosi su ogni palazzo e creando un infernale gioco di ombre. Un calore fortissimo investiva quella moltitudine umana: alcuni sembravano tarantolati e posseduti da una forza incontrollabile. Si muovevano a scatti, squarciavano le fiamme con frasi incomprensibili, si graffiavano il viso con le unghie per cadere poi esausti nella polvere.

    Lorenzo aveva gli occhi arrossati e sentiva un bruciore insopportabile sulla pelle; gli sembrava di essere circondato da folli invasati impegnati in un crudo e blasfemo rito di purificazione. Riuscì, stropicciandosi con forza gli occhi, a scorgere la figura del Savonarola: era impassibile e ammutolito a poca distanza dal rogo, minacciato dalle lingue di fuoco, era assorto in un’estasi mistica tanto da sembrare alieno da ciò che stava accadendo. Uomini e donne si avvicinavano a lui in cerca di conforto spirituale ma era come se non li vedesse: ogni loro sforzo per restituirlo a una percezione della realtà fu vano, la sua estasi bruciava intensamente come quelle fiamme.

    «L’uomo venuto da Ferrara è un indovino non un priore domenicano, le sue presunte virtù profetiche usciranno rafforzate da questa messinscena», pensò Lorenzo, guardandosi bene dal rendere partecipi altri di quell’opinione. Il pittore percorse il tragitto da Piazza della Signoria fino alla sua bottega rapidissimamente: ricordò di aver lasciato il portone aperto e fu colto da un timore.

    Il

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