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Il coraggio di una vita
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Il coraggio di una vita
E-book385 pagine5 ore

Il coraggio di una vita

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Info su questo ebook

In queste pagine l'autrice condivide i ricordi nascosti nel profondo del suo cuore.

Racconti di gioie, dolori e rivelazioni mai pronunciate, storie di una vita vissuta con

ardimento e sensibilità.

Tra le pagine del suo racconto, scopriamo una Roma lacerata dalla guerra, la fuga

dalla routine attraverso un'avventura giovanile in un circo e incontri che

modelleranno il suo destino.

Ogni capitolo svela le lotte interne e le vittorie silenziose di una donna che ha osato

sfidare il suo tempo, tessendo una narrazione che celebra la forza di andare avanti

nonostante tutto.

Questo romanzo è una finestra sul passato, una lezione su come gli eventi storici

personali e collettivi modellano irrevocabilmente la nostra identità.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2020
ISBN9788831678551
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    Anteprima del libro

    Il coraggio di una vita - Alessandra Angelo-Comneno

    stessi"

    Prefazione

    Il coraggio di una vita, un romanzo di Alessandra Angelo-Comneno.

    Ecco, ho chiuso gli occhi, il vento mi sfiora leggero i capelli e la pelle del viso che, anche se piena di rughe, sembra quasi distendersi sotto il lieve calore di questo sole primaverile. Il rumore del silenzio mi fa compagnia e quest’aria, questa luce, questo profumo mi portano improvvisamente indietro con la memoria.

    Primavera. La stagione degli amori, della rinascita, dei ricordi sopiti, nascosti come peccati inconfessabili, macchie indelebili, occultate, che diventano improvvisamente visibili.

    Silvia sente che la morte é ora più vicina che mai, ma non vuole andarsene. Non prima, almeno, di aver fatto pace con il passato.

    Lascia che i suoi ricordi scorrano liberi, veloci, raccontando ai suoi figli, ma prima di tutto a se stessa, ciò che non ha mai narrato in quei pomeriggi di decenni prima, quando i suoi bambini litigavano per sedersi sulle sue gambe e ascoltare, aggrappati a lei, le sue fiabe.

    Il coraggio di una vita é la storia di una donna con tanta vita alle spalle e con molto ancora da dire. Una donna che ha costruito il suo futuro sulle macerie, quelle vere, reali e quelle emotive, interne, laceranti. Una donna che ci mostra Roma attraverso i suoi occhi di ragazza. Una Roma che non é la città eterna e nemmeno la città della dolce vita o dei turisti affamati di bellezza e cultura. É una Roma distrutta dai bombardamenti, dilaniata dalla furia nazista, una città sul punto di crollare sotto il peso della fame e della miseria.

    Poi, dopo Roma, c’é Parigi, nella sua ripresa, nel suo ritorno alla normalità dopo una guerra lunga e devastante, dimentica di ció che é stato e proiettata verso un futuro di speranza e libertà.

    Con il suo romanzo, Alessandra Angelo-Comneno ci immerge nel racconto di un’esistenza condotta con coraggio e caparbietà. Una vita che sta per giungere al termine, quella di una donna che, liberando i suoi ricordi, libera anche se stessa per volare alto, oltre le circostanze, fuori da una gabbia fatta di memorie intricate.

    Una rinascita, in punto di morte, che solo la primavera, con il suo sole caldo e la sua brezza avvolgente, può donare.

    La nostra esistenza é simile a un’altalena che si muove nello spazio: quando sale, viviamo i nostri momenti migliori, quando scende, sono quelli più difficili a predominare e quando é ferma, assomiglia ai momenti di pausa che ci concediamo per riprendere le forze. Dentro di me sapevo che la mia altalena, non so se per merito o per destino, aveva corde molto robuste a sostenerla e questo faceva di me una persona fortunata.

    Chiara Minutillo

    Aprile 2010

    Martedì mattina

    Silvia! Silvia, su, da brava, apra gli occhi. Silvia, coraggio, li apra. Ecco così, faccia un bel respiro. Brava!

    Ma perché non mi lasciano in pace una buona volta?

    Silvia! Silvia!

    La voce dell’infermiera m’infastidisce e, proprio per farle dispetto, decido di non accontentarla. Una mano, la sua? mi tocca un braccio, poi il viso. Mi sento scuotere quasi con forza.

    Ah questa poi! La manderò sicuramente via! Ma come si permette di trattarmi così?

    Mi lascio scivolare nuovamente in quell’oceano buio dal quale la donna cerca di tirarmi fuori. Vi sono sprofondata lentamente, forse poco fa, ma non ho paura, stranamente non ho paura.

    Come sono finita qua? Non lo ricordo proprio. Sto bene, però. Mi sento leggera e l’acqua, che mi avvolge, sembra una coperta soffice o è invece veramente una coperta quella che tocco con le mie dita?

    Ecco, sta muovendo le dita finalmente. Silvia!

    Una luce violenta mi ferisce improvvisamente gli occhi. Li serro ancora di più. Non voglio aprirli e quella luce mi dà fastidio. Mi sento chiamare ancora. Decido, allora, di accontentare quella voce implorante. Le palpebre sono pesantissime, ma riesco a sollevarle, seppur con fatica. Non riesco a capire dove sono. Che fine ha fatto il mio mare? Forse, se li richiudo ancora, solo per qualche minuto, riesco a fare un altro tuffo in quel consolante oblio.

    No, Silvia, no! Apra gli occhi, ho detto!, mi urla quasi nell’orecchio quella donna. Com’è che si chiama? Non lo so, non più almeno. Il nome inizia con la lettera M: Marina, Mafalda, Michela. No, proprio non mi ricordo, ma che importa? È, comunque, una grande maleducata.

    Sento una porta aprirsi, poi del trambusto intorno a me e parole, incomprensibili, sussurrate da voci sconosciute.

    "Allora, Marta, come sta andando? Non ce l’ho fatta ad arrivare prima.

    Sono partito dallo studio subito dopo la tua telefonata, ma il traffico a quest’ora è terrificante!"

    Marta. Ecco, finalmente mi ricordo. La donna, la seccatrice, si chiama Marta.

    Un bel nome, un nome antico. Voglio accontentarla e apro gli occhi, con più determinatezza, questa volta. Il mio sguardo incontra il suo, interrogativo, colmo di ansia.

    Ben tornata tra noi Silvia! Ci ha fatto proprio prendere un grande spavento, questa volta. Ho avvertito i suoi figli che stanno per arrivare. Ora, il dottor Ridolfi la visita, così stiamo più tranquilli.

    Come tante altre volte prima di allora, mi sento toccare e premere in vari punti del mio corpo.

    Alzi il braccio destro, sì, bene, e ora il sinistro. Guardi su, segua il mio dito. Ora guardi in basso. Respiri forte, ancora di più… tossisca, tossisca ancora… brava! Fa male qua? E in quest’altro punto?

    Scrupolosamente il dottore continua quel suo minuzioso controllo sul mio corpo e io, francamente, ne sono proprio seccata; ma mi rendo conto che si sta impegnando veramente e così, obbediente come una bambina, lo assecondo, lasciandolo terminare e dandogli la soddisfazione di essersi meritato la sua costosa parcella.

    Un sorriso nascosto mi allarga il cuore. Lo credo che il dottore si precipiti qui appena viene chiamato, visto quello che mi costa! Ma no, magari, in fondo, mi si è anche un po’ affezionato, come un vecchio cane. Cane? Che dico? Un cane ama il suo padrone incondizionatamente, come solo lui sa fare. Un umano non è in grado di uguagliarlo, ma è meglio non fare paragoni. Si è affezionato, forse, e basta.

    Lo guardo mentre con cura ripone nella borsa i suoi strumenti. Chissà chi gliela avrà regalata quella borsa! Non la vedo bene, ma sembra di buona fattura.

    Ora il dottore mi sta guardando e mi sorride. Gli sorrido anche io.

    Eh sì, signora Silvia, sono proprio contento. Questa crisi è stata più forte delle altre, ma sembra superata. La pressione si è stabilizzata e il battito cardiaco è regolare, ma dobbiamo monitorarla. Ho aggiunto un farmaco a quelli che già sta prendendo e stasera torno per controllare la situazione. Lei, mi raccomando, stia tranquilla. Ci vediamo più tardi, arrivederci.

    Gli faccio un cenno con la mano e un altro sorriso. Mi sento generosa oggi.

    "Tranquilla", ha detto il dottor Ridolfi. Che mai potrei fare? Andare a ballare, forse? O correre su e giù per le scale? Marta aveva parlato dei miei figli… eh sì… li ha avvertiti.

    Mi dispiace che si siano preoccupati e che si stiano precipitando qui. Già immagino i loro volti sconvolti, le loro espressioni cariche di tensione. Mi fa piacere però che vengano. Il solo vederli mi colma il cuore. Sicuramente Marta avrà pensato che stessi lì lì per crepare. No, questa volta si è sbagliata, ma arriverà il momento, arriva sempre, e per tutti. Il mio è solo stato rimandato un po’ più in là, ma non manca molto oramai. Sono vecchia e già arrivare a questa età è stata una bella sfida per me. Quanti sono? Ottantasette? No, si può dire ottantotto. Tra un mese esatto ne avrò, anzi ne finirò, ottantotto ed entrerò nel mio ottantanovesimo anno! Ottantanove anni! Mai e poi mai avrei pensato di vivere così a lungo, malata com’ero, ma la vita riserva veramente tante sorprese e in fondo, nonostante tutto, è stata generosa con me. Oddio, generosa poi… No, non direi, non nel senso stretto della parola. Ho preso dalla vita, con caparbietà, quello che, di volta in volta, lei voleva tenersi ben stretto e spesso, coloro che mi stavano intorno, i conoscenti, per dirla in parole povere, hanno pensato che tutto quello che volevo mi venisse elargito dal destino, in abbondanza. Gliel’ho lasciato credere, non mi è mai importato di dimostrare loro il contrario. Non valeva la pena sprecare anche una sola briciola del mio prezioso tempo. Il tempo l’ho usato per vivere veramente la vita, per goderne ogni attimo, da sola e con la mia amata famiglia. Penso, sempre più spesso, che dovrò andarmene, morire insomma, e, questo, a volte mi spaventa; soprattutto, mi angoscia l’idea di dover abbandonare tutto ciò che mi circonda. Come farò senza i colori travolgenti di alcuni tramonti? Quelli che trasformano il cielo in una tavolozza incredibile, con quei rosa e quei violetti che, lievi come veli, si stendono sinuosi e morbidi, abbracciando nuvole leggere come batuffoli di cotone?

    Come farò senza quei colori che, inesistenti fino all’attimo prima, improvvisamente si materializzano per pochi istanti, per poi scomparire, un’altra volta, insieme agli ultimi raggi di sole?

    Mi chiedo come farò senza quel verde, così chiaro e brillante, della prima erba, che spunta dopo il freddo dell’inverno o senza i richiami degli uccelli, quando inizia la primavera e l’aria più tiepida risveglia in loro l’istinto degli amori. Mi domando, ancora, come farò senza le montagne con le loro cime maestose, senza le foreste che ricoprono parti del nostro povero e stupendo pianeta, cercando di celare, gelosamente, a indiscreti occhi umani, i loro preziosi segreti?

    Vedo un’armonia che non ha uguali nel mondo che ho la fortuna di abitare e, talvolta, ho l’impressione di osservare dall’alto questo nostro pianeta, come fossi un uccello; mi lascio andare, allora, a questo volo lento e silenzioso, allargo le mie ali immaginarie e lo stringo a me, in un unico grande abbraccio, catturando, con la mente, tutta l’armonia di suoni che mi giunge dalle molteplici forme di vita che lo abitano e mi stupisco che altri non riescano a cogliere le meraviglie che abbiamo.

    Sono vecchia, ma ancora mi entusiasmo, per le piccole cose di ogni giorno, proprio come quando ero una bambina, tanti e tanti anni fa. Lo avevo promesso a mia madre. Voglio dire, avevo promesso a mia madre che avrei conservato in me questa capacità di vedere la vita con l’innocenza di un bambino. Mia madre. Chissà dov’è ora? Magari mi sta aspettando insieme a tutti gli altri. Sì, mi piace pensare proprio questo, che mi stia aspettando insieme a mio padre e a tutti gli altri. O forse no! Magari, non c’è niente dall’altra parte e, allora, come farò a sopportare il dolore del distacco da ciò che amo? Per questo, forse, quando penso alla mia morte, mi tuffo nel mio mare dell’oblio, per non soffrire all’idea di non poter più vedere certe meraviglie, le persone che amo, i miei figli, i miei nipoti, ma soprattutto i miei figli; sono loro che, inconsapevoli, sono stati la forza motrice della mia vita.

    La mia vita... lunga e piena di capitoli, proprio come un romanzo; ma, in fondo, la vita di ognuno è un romanzo e non è mai banale come alcuni vogliono far credere.

    Quello che mi dispiace è il constatare che, molti di coloro, che ho incontrato durante il mio cammino, non se ne sono resi conto, non si sono accorti della non banalità della vita che stavano vivendo e non ne hanno saputo trarre l’essenza. Che peccato! Ho cercato diverse volte di far capire loro che stavano sbagliando e, talvolta, ci sono anche riuscita, ma altre volte no. Allora, ho lasciato che andassero avanti, ignari delle meraviglie che li circondavano e che erano lì solo per loro, pronte per essere raccolte, mentre, invece, venivano ricoperte dal nero velo dell’indifferenza.

    Signora Silvia, le preparo un tè?

    Marta si è affacciata, con fare titubante, sulla soglia della porta e mi guarda in attesa che le risponda. In fondo è gentile questa donna. Forse, non le dirò niente di quanto accaduto prima, di quando mi ha scosso come fossi stata una pupazza. Ho deciso: aspetto a licenziarla. Voglio vedere come continua a comportarsi. Alla fine è sicuramente meglio dell’ultima che ho avuto e di cui non ricordo neppure il nome. Oh, ma che importa! Cos’è che mi ha chiesto? Ah sì, il tè. Mi ha chiesto se voglio una tazza di tè.

    Grazie Marta, lo prendo volentieri, però fuori, in giardino. Aiutami, per favore.

    In giardino? Ma non sarà troppo presto? È stata così male!

    No, non è presto. Fuori c’è un bel sole e non è freddo.

    Come vuole.

    Ecco, ora va meglio. Sono stesa su una chaise longue che i miei figli mi hanno voluto per forza regalare. È di legno di teck e il materasso ha una fodera color panna fornita anche di chiusura lampo.

    Così, mamma, quando vorrai rimanere fuori in giardino, starai sicuramente più comoda che su quella poltroncina di vimini, mi aveva detto Andrea, il giorno che si era presentato con un lungo e piatto scatolone legato sul porta-pacchi della sua station-wagon.

    Ah, e poi è facilissima da pulire. Quando è necessario, si apre la lampo sul lato, si sfila la fodera e via, dritta in lavatrice. È anche da parte di Giulia questa nuova sdraio. Lei oggi non è potuta venire perché doveva accompagnare Michela a nuoto, ma passa sicuramente domani. Mamma dimmi, allora, che ne pensi? Stai comoda? Sì, vero?

    Andrea e Giulia, i miei cari e amatissimi figli, così diversi tra loro, eppure così simili.

    Andrea è ancora oggi un bell’uomo. Alto e ben fatto, si è sempre mantenuto in forma, praticando regolarmente dell’attività fisica e i suoi capelli, un tempo biondi, sono ora di un grigio tenue, ma ancora folti. I suoi occhi, verdi come le foglie degli ulivi, quando c’è il sole, e grigi come quando il cielo si ricopre di nuvole, hanno mantenuto quella luce scintillante di quando era bambino. È diventato padre già da tanti anni e ora è da poco nonno.

    Giulia, la mia piccola, così tenera e così tenace; forte come una roccia e fragile come una stalattite di ghiaccio; vigile e sempre attenta a tutto quello che le sta intorno, soprattutto al benessere della sua famiglia, ora è nonna di Michela, ma sembra la sua mamma. Gli anni sono passati anche per lei, ma non hanno lasciato tracce visibili sul suo viso e sul suo corpo.

    Ecco il tè, signora. Ci vuole limone o lo preferisce con del latte?

    Con niente, grazie. È quello al bergamotto, vero?

    Sì, proprio quello. Le lascio anche dei biscotti, quelli all’arancia e cioccolato, che le piacciono tanto.

    Vai, vai pure. Se ho bisogno ti chiamo.

    Sul piccolo tavolo accanto a me, dove Marta ha appoggiato il vassoio, c’è un campanello, uguale a quelli che si usavano una volta per chiamare la servitù.

    All’inizio, quando Giulia si è presentata un pomeriggio con questa campanella d’argento, dall’impugnatura scanalata e sormontata da un piccolo bocciolo di rosa, sempre in argento, prima mi sono messa a ridere e poi mi sono sentita veramente ridicola. L’oggetto in sé è di fattura finissima e delicata, lo avevo gradito come regalo, ma usarlo per chiamare la badante mi sembrava assurdo. Lei però aveva insistito facendomi notare che, oltre a essere grazioso, era soprattutto utile.

    Provalo una volta almeno! In questo modo, non dovrai urlare, per farti sentire quando la chiami, no? I suoi occhi scuri mi fissavano imploranti.

    Così il campanello d’argento era diventato un altro insostituibile accessorio nella mia vita.

    Si è alzato un leggero venticello. L’aria è tiepida e gli alberi del mio giardino hanno le gemme talmente gonfie e piene, che stanno per aprirsi. Anzi, alcune già si sono schiuse. Vedo del piccolissimo fogliame su alcuni rami. Devo ricordarmi di dire a Marta di mettere le sementi nella mangiatoia per gli uccelli. Vero è che, oramai, possono trovarlo da soli il cibo, ma si sono abituati e mi fanno compagnia, proprio come il mio Jack. Ma, a proposito, dov’è? Provo a chiamarlo. Chissà se mi sente? Sta diventando vecchio anche lui, vecchio e leggermente sordo.

    Jack, Jack, vieni!

    Vedo Jack che sbuca da dietro un cespuglio, ha l’andatura di chi si è appena svegliato; si ferma un attimo, si stira la schiena, allungandola ben bene sulle zampe anteriori, e poi, dopo una scrollata, eccolo che mi si avvicina. Il suo grande e bel muso nero si appoggia sulle mie gambe e i suoi occhi mi fissano, scuri, intensi.

    Jack è un labrador ed è tutto nero, con una macchietta bianca sul petto. Ho quasi sempre avuto cani, fin da piccola, e ogni volta sono riuscita a stabilire un rapporto meraviglioso con loro, ma con quest’ultimo, Jack, è veramente incredibile. Tante volte penso che in lui ci sia un essere umano, imprigionato in un corpo da cane. Non sono necessarie parole per farmi capire. Sembra avere, più di tutti gli altri, lo straordinario dono della telepatia e percepisce sempre i miei desideri, i miei stati d’animo. Di quanti uomini si può dire altrettanto? Ben pochi, veramente.

    La mia mano sulla sua testa. Il pelo è soffice e setoso. Gli occhi mi si chiudono. Faccio scivolare piano le mie dita sul contorno del suo cranio, poi giù verso le guance, poi sotto il muso dove il pelo è ancora più folto e caldo. Sfioro leggera il suo naso per sincerarmi che sia freddo e umido. Mi tranquillizzo e mi abbandono alla stanchezza che mi assale all’improvviso. Sento le palpebre sempre più pesanti; forse mi addormenterò e magari arriveranno anche i sogni o i ricordi.

    Ecco, ho chiuso gli occhi, il vento mi sfiora leggero i capelli e la pelle del viso che, anche se piena di rughe, sembra quasi distendersi sotto il lieve calore di questo sole primaverile.

    Il rumore del silenzio mi fa compagnia e quest’aria, questa luce, questo profumo mi portano improvvisamente indietro con la memoria.

    Oddio, ma quanto tempo è passato? Tanto, tantissimo, e mi viene da sorridere nel ricordare. Eh sì, è proprio vero, sto invecchiando; anzi no, sono vecchia. Non rammento quasi più quello che ho fatto ieri, ma, quello che è successo più di cinquant’anni fa, sì, benissimo. È questo un aspetto della vecchiaia, della mia vecchiaia, che mi affascina: è così facile chiudere gli occhi, quando ne ho voglia, e lasciarmi andare al ricordo, proprio come ora...

    Capitolo 1

    La giornata si preannunciava piuttosto fredda, almeno a giudicare dai vetri appannati e dalle persone che, strette nei loro cappotti, vedevo camminare frettolosamente giù in strada. Contrariamente al solito, ero piuttosto di buonumore e non avevo neanche brontolato un po’ quando mia madre mi aveva svegliata.

    Normalmente, l’idea di uscire dal calduccio del mio letto non mi attirava per niente, soprattutto perché dovevo andare a scuola e difficilmente ne ero contenta. Non che non fossero simpatiche le mie compagne, né tanto meno le insegnanti, ma quello che non sopportavo erano le lezioni di latino e di greco e, ahimè, quasi tutti i giorni avevo o l’una o l’altra materia.

    Mio padre, che si chiamava Luigi, a differenza della maggior parte dei padri delle mie amiche, era straordinariamente moderno, per quei tempi, e si era messo in testa che una ragazza dovesse avere la stessa istruzione e possibilità lavorativa degli uomini e non si stancava mai di parlarci di questo argomento. Il suo modo di essere, da una parte, mi rendeva sicuramente molto più libera e anche, in un certo senso, invidiata dalle mie compagne, ma nello stesso tempo era un bel fardello da sostenere e spesso ero in difficoltà. D’altra parte sapevo che, per conquistarmi quella libertà di pensiero e di azione, di cui mio padre era così fiero, dovevo lottare duramente contro la mia quasi indifferenza nei confronti di quelle due, tanto odiate, lingue, ma era difficile perché ben altro mi passava per la testa.

    Avevo quindici anni ed ero l’ultima di cinque fratelli, di cui tre erano già sposati e mi avevano reso anche zia.

    Mia sorella più grande, Clara, era fidanzata con un giovane ufficiale e si sarebbe sposata l’anno successivo; ragion per cui, era talmente presa dai suoi pensieri, che non aveva certo tempo, ma soprattutto voglia, di dedicarsi a qualcos’altro che non riguardasse vestiti o mobili. Sì, perché, a detta di tutti, questo giovanotto che si chiamava Giovanni, detto Nino, era quello che si diceva essere un buon partito.

    Nato e cresciuto, senza nessun merito da parte sua, in una famiglia facoltosa, aveva, oltre a questa grande fortuna, anche un salario tale da potergli consentire di accogliere la giovane sposa in una casa tutta loro. Questo non era poco, considerando il fatto che, molte giovani coppie, non così privilegiate, spesso iniziavano la loro vita matrimoniale o nella casa di uno dei genitori o prendendo una camera in sub-affitto...

    Rassegnata all’idea di affrontare il freddo che c’era in camera, mi decisi ad alzarmi e mi infilai, frettolosamente e rabbrividendo, la vestaglia che tenevo ai piedi del letto. Le calze di lana le avevo già indossate, perché non andavo mai a dormire senza, visto la temperatura così bassa. Andai quindi alla toletta, che mia madre mi aveva sistemato vicino alla finestra e che proveniva dalla sua casa paterna, e mi sedetti sul basso sgabello. Presi la spazzola, dal manico in madreperla, che mi aveva regalato mio padre quando avevo compiuto quindici anni, e con gesti lenti, ma decisi, incominciai a spazzolarmi i capelli che mi arrivavano appena fin sotto le spalle.

    Mi piacevano i miei capelli, ondulati naturali e di un bel colore castano; al sole assumevano delle sfumature riflesse che dal biondo arrivavano al rosso. In genere li pettinavo tirandoli su, ai lati, scoprendo così le orecchie che, fortunatamente, erano piccole e ben attaccate alla testa, e li fermavo con delle forcine; il resto della capigliatura la lasciavo ricadere giù sulle spalle, assecondandone il verso. Altre volte invece li tiravo completamente su, ma allora mio padre non ne era troppo contento, perché diceva che così pettinata dimostravo più della mia età e questo non andava bene.

    Mi guardai con attenzione nello specchio e pensai che, pur non essendo bella, almeno secondo il canone di bellezza di quei tempi, ero decisamente carina. C’era una cosa, di me, che mi piaceva veramente: i miei occhi. Erano grandi e leggermente tagliati in obliquo, scuri, ma talmente scuri che mi chiedevano sempre se per caso non fossero stati tinti dal carbonaio; io ne ridevo ogni volta, ma mi faceva piacere che mi venisse detto.

    Andai velocemente a lavarmi e ringraziai, mentalmente, mia madre che mi aveva fatto trovare una brocca di acqua calda in bagno. Era sempre molto premurosa e attenta alle necessità della nostra famiglia e, quando aveva tempo a sufficienza, le piaceva viziarci, magari, con delle piccole attenzioni, tanto gradite da tutti noi, come quella di farci trovare dell’acqua calda nel bagno quando la mattina ci si doveva lavare.

    Si stava facendo tardi e perciò, tornata nella mia stanza, aprii l’armadio per decidere quello che avrei dovuto indossare. Ero abbastanza fortunata da avere un discreto numero di abiti, perché mia madre, che aveva imparato a cucire quando studiava dalle suore, si divertiva di tanto in tanto a confezionarmene qualcuno. Quando andavo a scuola di solito indossavo una sorta di divisa composta da camicetta bianca, gonna blu a pieghe e un giacchetto di lana dello stesso colore, ma quella mattina mi sarei vestita diversamente.

    Avevo raccontato a mia madre che a scuola avremmo fatto una lezione di storia dell’arte all’aperto e, in effetti, questo sarebbe avvenuto, ma solo la settimana seguente. Nel firmare i fogli di autorizzazione, mia madre non aveva fatto troppo caso alla data e a quello che vi era scritto sopra, perché andava di fretta e, in realtà, oltre al permesso per la lezione all’aperto, aveva anche convalidato un’assenza per una lieve indisposizione occorsa. Ovviamente, l’indisposizione era stata pianificata proprio per quel giorno e un po’ mi sentivo in colpa.

    Fino a quel momento non le avevo mai mentito, ma l’idea mi era venuta qualche giorno prima quando, rientrando a casa da scuola, avevo incontrato Lucia, una mia compagna delle elementari, che avevo perso di vista da quando si era trasferita in un’altra città a causa del lavoro di suo padre ingegnere. Avevamo percorso un tratto di strada insieme e fui molto contenta di sapere che era ritornata a vivere a Roma. Abitava, ora, in Viale delle Medaglie d’Oro, in un bel villino con giardino, e la fermata del tram, che vi arrivava, era proprio davanti allo stesso. Non vi erano negozi intorno, e la sua era una delle ultime abitazioni oltre le quali iniziava la campagna. Il tram proseguiva il suo tragitto, costeggiando la strada che attraversava i campi dove, di tanto in tanto, si vedevano case di contadini, con i loro orti ben coltivati, greggi di pecore, alla cui guardia provvedevano dei grandi cani pastore, canneti vasti e fitti; si arrampicava poi verso Monte Mario, passando vicino a una bella pineta che io, però, non conoscevo, terminando la sua corsa davanti all’Ospedale di Santa Maria della Pietà, un luogo orribile dove venivano ricoverate le persone malate di mente.

    Lucia mi aveva raccontato che un gruppo di artisti si era accampato proprio non distante da casa sua e che era stato montato un grande tendone in cui si esibivano giocolieri e acrobati; c’erano anche diversi cavalli che eseguivano, così almeno le era stato detto, dei numeri bellissimi. Gli spettacoli venivano effettuati di pomeriggio, ma, se si andava di mattina, era possibile vedere da vicino quegli artisti e magari anche conoscerli. Dopo avermi raccontato tutto questo, aveva aggiunto:

    Potremmo andarci insieme, se vuoi.

    Di mattina?

    Certo! Altrimenti, dov’è il divertimento?

    E la scuola? Come faccio?

    Oh beh, che ne so io? Ti… anzi no, ci inventeremo qualche cosa. Per una volta, dai, che vuoi che succeda?

    Avevo trascorso i giorni seguenti riflettendo su quell’inopportuna proposta di Lucia. Più mi dicevo che era una follia, più l’idea mi stuzzicava.

    Ma sì mi dissi, infine, ha ragione lei. Per una volta!

    Il giorno stabilito era finalmente arrivato. Scelsi, prendendolo dall’armadio, un vestito di lana, marrone scuro, con uno stretto collo alla coreana che si chiudeva sul davanti grazie a una fila di piccoli bottoni bianchi, mentre una sottile cintura bianca in pelle evidenziava il punto vita. Mi guardai con occhio critico nello specchio che era fissato all’interno dell’anta dell’armadio e trovai che quell’abito mi stesse proprio bene, ma poi pensai che, in fondo, non fosse così importante, perché non mi sarei di certo tolta il cappotto, considerato il freddo che faceva. Mi misi il basco un po’ di traverso sulla fronte, presi sciarpa e guanti e andai a salutare mia madre.

    Ciao mamma. Io vado. Torno alla solita ora.

    Sì. Ciao e buona giornata.

    Grazie. Scusa, scappo altrimenti faccio tardi.

    Sì, sì. Vai, vai.

    Uscii, quasi di corsa, senza guardarla negli occhi, temendo che si sarebbe accorta del rossore che mi aveva imporporato le guance, e mi diressi verso la fermata del tram che stava dalla parte opposta a quella dove solitamente aspettavo. Lo vidi arrivare da lontano e ne provai sollievo. Avevo fretta di mescolarmi tra la gente, preoccupata che qualcuno potesse riconoscermi e magari potesse riferirlo ai miei genitori. Quando il pesante mezzo si fermò, davanti a me, con uno stridio assordante di freni, saltai su. Trovai un sedile libero e, dopo essermi rapidamente accertata che non fossero salite, con me, persone anziane da far accomodare al mio posto, mi sedetti. Tirai fuori dalla cartella un libro di scuola e cercai di darmi un contegno. Le lettere si accavallavano le une sulle altre e le righe mi ballavano davanti. Ogni tanto sussultavo nell’udire lo scampanellio che faceva il conducente tutte le volte che fermava la vettura: il segnale, infatti, mi permetteva di controllare il tragitto.

    Oltrepassammo Viale delle Milizie, poi il tram attraversò Via della Giuliana e proseguì per Via Candia. Non mancava molto e diedi un’occhiata all’orologio. In base agli accordi presi, Lucia doveva essere già alla fermata ad aspettarmi. Mi dissi che, se non l’avessi trovata, sarei tornata immediatamente indietro, inventandomi chissà quale scusa con mia madre, che mi avrebbe visto rientrare a casa molto prima del previsto. Sicuramente, senza Lucia non sarei andata da nessuna parte.

    Il tram cominciò la salita per Viale delle Medaglie d’Oro e io mi alzai trepidante, con il cuore che batteva all’impazzata, pronta a scendere.

    Ecco, ero giunta. Vidi attraverso il finestrino che Lucia era

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