L'urlo muto degli angeli
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Anteprima del libro
L'urlo muto degli angeli - Flavia Basile Giacomini
Kierkegaard)
1
Oculum pro oculo
et dentem pro dente
Il foglio umido appuntato sulla corteccia del grande cerro colava lacrime di china nera. Animato da un’improvvisa folata di vento si strappò, volteggiando lontano dal suo scomodo ufficio.
Regina lo guardò allontanarsi, trascinato via dall’orrore che era stato chiamato a testimoniare. Spense il motore e scese dalla moto, fissando gli occhi sull’albero. Un ultimo lampo accese il cielo mentre il temporale che si era abbattuto per tutta la notte sui Castelli Romani si spostava verso la città. Il sole quel giorno sembrava non voler sorgere.
Senza curarsi degli uomini della Scientifica, si avvicinò imbracciando la macchina fotografica. Passò accanto a Stefano Casagrande, l’ispettore capo, lo ignorò mentre la scrutava con la coda dell’occhio e si fermò qualche passo avanti a lui per osservare la scena.
Al tronco imponente della pianta era appeso un uomo. Il corpo pingue e nudo. Aveva i polsi legati all’albero con due stretti giri di corda da arrampicata. Una di quelle colorate.
Il chiodo che gli penetrava le mani era lo stesso sul quale poco prima sventolava la bandiera della sua sentenza.
Regina si avvicinò lentamente. I suoi pensieri erano attraversati solo dai rumori di ricognizione della Scientifica. Il suo sguardo si spostò rapido sulle ferite del cadavere. Inalò profondamente l’aria un paio di volte: odore di sangue, muschio e forse incenso. E paura.
Scattò la prima foto. Il braccio destro dell’uomo era stato scuoiato con perizia anatomica, i fasci muscolari esposti e integri. Il capo ricadeva in avanti, tinto di sangue scuro colato dalle orbite svuotate. La bocca era rimasta spalancata in una dolorosa incredulità, ma quell’antro buio era rimasto disabitato. I denti erano stati estratti uno ad uno. Come la lingua. Il corpo flaccido era vestito di sangue rappreso fino ai piedi, trapassati da due chiodi rugginosi. La calvizie rifletteva il bagliore delle fotocellule, abbozzando un’aureola blasfema che risplendeva nella nebbiolina che si alzava dal terreno.
Un tuono scosse Regina, rapita dal quadro macabro di quella lucida esecuzione. Sentì in lontananza il motore di qualche vettura e guardò di sfuggita Casagrande che non smetteva di fissarla, quindi si tirò su il cappuccio della felpa e s’inoltrò nella foresta, sparendo dalla vista degli agenti che si spostavano come fantasmi curiosi intorno all’altare sacrificale.
Poco più indietro, prima dell’inizio del bosco, una Bmw nera e una Mustang antracite si fermarono sul lato della strada sterrata.
Markus Phillips scese dalla prima vettura e andò a bussare al finestrino scuro dell’altra macchina, che scivolò giù per pochi centimetri.
«Dobbiamo proseguire a piedi.»
Erik Foster rispose con un cenno e, chiuso in un silenzio infastidito, scese dall’auto insieme al suo collega. Nathan Parker si alzò il bavero del giubbotto di pelle e infilò la sua Glock 19 nella cintura dei pantaloni, dietro la schiena.
«E se fosse solo un regolamento di conti?» bofonchiò Erik, guardando le Hogan infangate, «Un crimine legato alla gelosia.»
Nathan non rallentò.
«Un uomo inchiodato a un albero, secondo te, può essere vittima di un omicidio passionale?»
Erik ci pensò una frazione di secondo.
«Perché no? Un marito incazzato che appende per le palle lo stronzo che si scopa sua moglie. Io lo farei se ne valesse la pena.»
«Senti da che pulpito. Saresti tu quello appeso per le palle. Se fosse solo questo, non saremmo qui.»
Erik gli rivolse un’occhiata e allungò il passo, accorciando la distanza con i colleghi che si erano già inoltrati lungo il sentiero. Le gelide gocce di un cielo pesante iniziarono a colpirli prima che il folto della vegetazione li inghiottisse. All’ombra degli alti cerri, la pioggia picchiava con violenza sulle foglie degli alberi, rimbombando come la scarica di un MAC10. Superarono la fila composta da due fuoristrada della Polizia, un furgoncino della Scientifica, uno della Mortuaria e un’ambulanza; poco più avanti la scena del crimine, illuminata da due fotocellule.
Markus, davanti a loro, mostrò il distintivo a un agente della Polizia e si diresse verso l’ispettore capo.
«Dottor Casagrande, possiamo raccogliere qualche prova?» chiese Markus, fingendo di riconoscere all’ispettore la precedenza sul caso.
«Dopo che i miei avranno finito. Sia chiaro, questo è il mio caso e voi siete ospiti. Non graditi. Non intralcerò il vostro lavoro se voi non intralcerete il mio, ognuno pensi al suo. Cerchiamo soltanto di non schiacciarci i piedi.»
Erik, arrivandogli alle spalle, non lo lasciò continuare:
«Altrimenti?»
Stefano Casagrande si voltò con aria di sufficienza:
«Altrimenti niente.» rispose stizzito e si rivolse di nuovo a Markus:
«Adesso vi addestrano anche a parlare correntemente l’italiano?»
Markus non raccolse la provocazione e fece cenno a Erik di allontanarsi.
«Si tratta dunque di Hermann Schwaitz?»
Casagrande lo fissò un istante prima di rispondere.
«Sapete bene chi è. Lo sapevate anche prima che fosse trucidato. Mi domando quanto siate coinvolti in questa storia. Conosco i vostri metodi investigativi e Schwaitz nascondeva molti segreti.»
«Vede, dottor Casagrande, noi non lasciamo né prove, né cadaveri in giro per i boschi. Perché anche i cadaveri parlano, se interrogati nel modo corretto.»
Sul volto di Casagrande si disegnò una smorfia astiosa.
«Fate quello che dovete e levatevi di mezzo.» disse allontanandosi dal gruppo di colleghi stranieri.
Markus si voltò verso Tobias che, giunto insieme a lui, era rimasto in silenzio al suo fianco:
«Dobbiamo mantenere un profilo basso. Per ora. Qual è la tua prima impressione, Doc?»
Tobias McGraw fissò con occhi acuti la scena. Lavorava al fianco di Markus ormai da oltre tredici anni. Il loro affiatamento era così forte che spesso bastava solo uno sguardo per intendersi. Lo chiamavano tutti Doc, un chirurgo per i vivi, un ottimo psicanalista per i morti.
«Come prima ipotesi penserei a un arresto cardiaco avvenuto tra le nove di ieri mattina e mezzanotte di oggi, in ogni caso non dopo le sei di questa mattina e comunque non oltre ventiquattro ore fa.» I suoi occhi verdi continuarono a percorrere come uno scanner ogni centimetro di quel corpo profanato. «Non presenta segni di percosse o ferite da proiettile, da quello che posso osservare così, in questo momento. Lo hanno torturato con sofisticato sadismo. Ha perso molto sangue, ma non abbastanza da essersi dissanguato, lo scuoiamento del braccio è stato operato in maniera chirurgica senza provocare lesioni alle strutture vascolari. Hanno cauterizzato le ferite. Lo stato di rigor…»
Markus si lasciò sfuggire un gesto d’impazienza. A lui tutte quelle informazioni tecniche non erano mai interessate. Voleva un’arma, un movente e un assassino. Tobias sollevò il sopracciglio e proseguì: «Lo stato di rigor può essere stato accelerato da alcune circostanze come la temperatura esterna o l’overdose da cocaina o metanfetamine.»
«Quindi il vecchio ha avuto un colpo al cuore durante qualche giochetto troppo spinto?» disse Erik avvicinandosi. Fino a quel momento si era tenuto in disparte, ispezionando l’area più distante dalla scena del crimine. Era stato veterano in missioni militari in Afghanistan, Iraq e Siria, di cadaveri ne aveva visti a decine, anche in condizioni peggiori di quello che aveva davanti, ma l’odore del sangue e della morte mischiati insieme non riusciva a sopportarlo. Se lo portava appiccicato addosso insieme ai pezzi dell’amico saltato sulla mina antiuomo nelle campagne intorno a Duma. Un braccio, una gamba, una mano, il tronco che pareva di un burattino non ancora finito di costruire. E quell’odore che gli aveva impregnato i vestiti, la pelle, il cervello e l’anima.
E lì intorno c’era una fortissima puzza di morte.
Nathan, invece, continuava a perlustrare il terreno intorno al cadavere. Girò intorno all’albero, dietro al quale erano ammucchiati i vestiti dell’uomo. Non erano né sporchi di sangue né strappati, le scarpe appaiate accanto. I pantaloni gessati e la giacca del banchiere belga, erano stati adagiati con cura; la camicia bianca, con il colletto e i polsini inamidati, era stata ripiegata per bene. La cravatta stesa sopra. Probabilmente lo avevano fatto spogliare con calma affinché il terrore di ciò che stava per accadergli inceppasse il suo orologio mentale.
Dopo aver scattato qualche foto con il cellulare, Nathan si rialzò guardandosi intorno. Tra gli alberi scorse la Yamaha R1 nera.
Pochi secondi dopo entrò nel suo campo visivo una figura slanciata, giubbotto di pelle nera e cappuccio della felpa tirato su, dal quale sfuggiva una ciocca di capelli bionda striata di blu. La donna avanzò con gli occhi fissi sul terreno, aveva in mano una macchina fotografica professionale. Si fermò e con il piede spostò un mucchio di foglie rossastre. Si inchinò per scattare una foto al foglio di carta ormai zuppo ma ancora leggibile.
Risollevandosi, notò Nathan che la stava fissando. Gli sorrise e gli corse incontro.
«Quando siete arrivati?»
«Mezz’ora fa.»
«Non intendevo qui.»
«Due settimane fa, più o meno. Contavamo di trovarlo prima noi. Vivo.»
«Lui è qui?» gli chiese tradendo l’ansia.
Nathan le fece un cenno affermativo e con lo sguardo puntò Erik.
«Perfetto.» sussurrò Regina.
«Cosa hai trovato?»
«Nulla di più di quello che vedi appeso all’albero. Non servirà a molto, Casagrande non vi farà avvicinare ai laboratori senza un mandato.»
«Che ci facevi dietro a Schwaitz?» le domandò Nathan.
«Sto lavorando per un articolo su una setta di fanatici religiosi. Voi invece?» gli fece un sorriso a mezza bocca.
«Stiamo cercando il leader di Mente, potere e cambiamento, l’organizzazione che gestisce il mercato di Apocalyptica.»
«Dimmi di più su Schwaitz. Perché lo cercavate?»
«Schwaitz poteva essere la chiave che ci avrebbe aperto le porte giuste, ma a quanto pare qualcuno ha deciso di cambiare le serrature. Tracciando i flussi di denaro legati ad Apocalyptica siamo risaliti ad alcuni membri influenti del movimento. Hanno tutti fatto il nome di un certo Adam e di Schwaitz. Il banchiere sentendosi minacciato è corso a gambe levate fino a Roma, cercando qualche appoggio. E tu, perché sei arrivata a lui?»
Regina storse le labbra.
«Era un gregario della setta.» disse senza dilungarsi oltre.
Aveva smesso di piovere. Intorno continuava incessante lo scalpiccìo e l’abbagliare dei flash degli agenti della Scientifica.
«Come stai?» tagliò corto Nathan, che aveva trattenuto quella domanda spinosa dall’istante in cui si era accorto di lei.
«Sono ancora viva, non mi vedi?» gli rispose in un sorriso forzato, prima di allontanarsi con passo sicuro verso Markus.
«Come gli avvoltoi, arrivate sempre ultimi.» si annunciò con sarcasmo.
Markus Phillips si voltò sorpreso di vederla lì; Tobias, distratto dalla sua voce, distolse lo sguardo dal cadavere. Le si avvicinò, le sfilò il cappuccio della felpa e la baciò sulla nuca.
«Queen, mi sei mancata.» le sussurrò in un orecchio.
Regina Prezioso strinse le labbra e gli accarezzò una mano.
«Avevi mai incontrato Schwaitz prima di tutto questo?» le domandò Markus.
Regina scosse la testa: «Mi aveva dato un appuntamento per intervistarlo la prossima settimana, evidentemente qualcuno ha fatto lo scoop prima di me.»
«E che cosa gli avresti chiesto?» Tobias rise e inarcò le folte sopracciglia rosse, «Magari poteva darti delle dritte su come manipolare la realtà con la forza del pensiero, come predicano quelli di Mente, potere e cambiamento.»
«Gli avrei chiesto che fine ha fatto il vescovo Neumann e la confraternita massonica che fondò alla fine degli anni Settanta e che procurò un enorme debito alla Chiesa. Tutta gente di ceto elevatissimo e di potere. Uno scandalo soffocato nel silenzio delle istituzioni». Regina non distolse lo sguardo da quello attento di Tobias.
«E tutta questa storia che cosa c’entra con Schwaitz?»
«Schwaitz era uno di loro: fedele devoto, amico del vescovo Neumann, frequentatore assiduo della sua comunità di preghiera. Il loro potere, guarda caso, si accrebbe proprio in quegli anni. Sapevo che lo cercavate e l’ho trovato. Voi per Apocalyptica, io per il diavolo. A quanto pare il male nasce sempre dalla stessa radice.»
«Dunque il banchiere partecipava a che cosa? Preghiere? Messe nere? Riti pagani?» chiese Tobias con un velo di sarcasmo volgendo lo sguardo al cadavere del vecchio torturato.
«Si dice che il loro culto contemplasse il sacrificio, come ritorno alle origini della tradizione sacra e per la riscoperta dell’uomo puro in diretto contatto con la divinità. Ma finora si tratta solo di leggenda.»
Tobias accennò, sotto la barba fulva, una smorfia contrariata all’indirizzo di Markus.
«Insomma, questo Schwaitz sguazzava nella merda da oltre quarant’anni e sperava di levarsela di dosso soltanto con una doccia d’acqua benedetta?» disse Erik, avvicinandosi e inserendosi nella loro conversazione, «Queen, ti trovo in forma.»
I due si scrutarono un istante. Gli occhi scuri di lei erano pieni di astio, quelli quasi trasparenti di lui in cerca di redenzione.
«Non abbiamo più vincoli reciproci di alcun genere, perciò Regina, se proprio ritieni indispensabile nominarmi.»
Erik si passò una mano tra i capelli biondi e umidi, «D’accordo…» sussurrò scuotendo la testa.
«Questo è il mio paese e non ti ho invitato io, perciò cerca di evitarmi.»
Markus cercò una rapida via di fuga da quella difficile situazione che, poco più di sei mesi prima a Nancy, aveva messo in crisi l’intera squadra e aveva portato all’allontanamento di Regina.
«La squadra è la stessa dell’operazione Apocalyptica
. Aspettiamo da Boston l’ agente speciale che indaga da tempo sul giro di un tale Adam e che si è infiltrato ai vertici di quello che sembrerebbe essere il suo gruppo.» Markus riportò l’attenzione sul motivo principale della loro presenza in Italia.
«Avevi proprio bisogno di portare Erik qui?» tagliò corto Regina.
Erik la guardò amareggiato e le voltò le spalle per raggiungere Nathan.
Markus le rivolse un’occhiata severa: «È il migliore a condurre azioni di ricerca tattica militare, questo lo sai. Non hai alcuna necessità di interagire con lui, è qui solo per lavoro. E tu, non metterti nei guai. »
Regina guardò Erik senza alcuna indulgenza. Nel suo lavoro era il migliore. Ognuno di loro era una punta di diamante nel rispettivo ruolo all’interno dell’agenzia governativa statunitense per cui lavoravano. Lo era stata anche lei, prima del fallimento dell’operazione Apocalyptica. Tutte le loro coperture erano cadute poco prima dell’irruzione in uno dei più sofisticati laboratori di quella potente metanfetamina che stava dilagando in tutta Europa.
Casagrande li osservava infastidito ormai da parecchi minuti.
Regina tornò indietro verso la sua moto e l’ispettore la fermò: «Non abusare del mio favore, Regina. Scegli da che parte stare, il limbo è dei morti. Non sei più dei nostri e posso dimenticare con facilità che tu lo sia stata. Hai cambiato troppe bandiere. Potrei anche non aiutarti più con i tuoi articoli di cronaca nera, cara la mia giornalista. Le tue amicizie devono restare fuori dai nostri rapporti.»
Regina, quindi, proseguì dandogli una spallata, calzò il casco e poi tornò sui suoi passi. Puntò il dito verso Stefano Casagrande: «Non sono io ad avere bisogno del tuo aiuto, ma tu del mio. Sono passati anni da quando eravamo colleghi, ma non abbastanza perché io dimentichi.» Lo disse forte in modo che tutti sentissero, che i suoi amici alzassero la guardia e che i suoi nemici tremassero.
Nathan ed Erik scattarono pronti a intervenire.
«La regina è tornata.» bofonchiò Markus.
Tobias sorrise soddisfatto e la guardò montare in sella, mentre alzava la mano per salutarli.
Si allontanò sulla strada sterrata piena di pozzanghere. Poco dopo si udì il tuono sordo del motore in accelerazione della sua Yamaha.
Con la ruota posteriore girata a vuoto sollevò uno tsunami di fango che travolse la Mustang di Erik, prima di allontanarsi da tutti.
2
La fine di settembre era la più afosa e soffocante degli ultimi anni e infuocava l’asfalto di Roma rendendo la città una fucina infernale.
Regina si sedette in un banco centrale della chiesa barocca nei pressi del Circo Massimo.
Faceva fatica a mettere a fuoco. I suoi occhi, ancora accecati dalla luce violenta del sole che l’aveva torturata per tutto il tragitto a piedi da Trastevere fino a lì, non si abituavano al buio della basilica.
La chiesa era già piena di persone e Regina annusò l’aria intrisa di incenso e sentore di muffa antica. Sembrava riuscisse a sentire anche l’afrore della sofferenza che la circondava. Restò immobile sul fondo della chiesa a osservare, incapace di procedere oltre, come se le gambe fossero diventate improvvisamente due colonne di granito.
Nel silenzio che riempiva quel luogo di culto come l’imbottitura di un enorme pupazzo, si udiva, qua e là, un lamento, un singhiozzo, una supplica.
L’altare era spoglio, in un rigore contrastante con le numerose opere d’arte, quadri e sculture che riempivano l’intero perimetro di quel ricco tempio di Dio.
Un giovane sacerdote le si avvicinò e con gentilezza le indicò un posto a sedere ancora libero tra i banchi più avanti.
«Le conviene accomodarsi. La celebrazione è lunga e particolare.» le disse con un sorriso mite, quasi a giustificare la propria invadenza.
Regina lo guardò stranita e senza rispondergli andò a prendere posto dove le era stato indicato.
L’uomo seduto al suo fianco aveva in mano un rosario di plastica ingiallita e consumata, che faceva scorrere incessantemente tra le dita, continuando a baciarne il crocifisso. Si dondolava senza sosta, con gli occhi fissi nel vuoto. Baciò e ribaciò quel suo Gesù tascabile senza mai fermarsi.
«Tra poco inizia tutto.» le disse sottovoce in un orecchio, senza guardarla. «Lei è nuova, non l’ho mai vista qui. Lei è una di noi?»
Era un uomo sulla cinquantina, ben vestito, il volto glabro e diafano. Regina si voltò a fissarlo qualche secondo: «No, non sono mai stata qui. Dicono che la messa celebrata dal cardinale sia molto speciale.» gli rispose.
L’uomo non distolse lo sguardo dal vuoto in cui era perso e ricominciò a dondolarsi. Dopo un paio di minuti le sussurrò di nuovo: «Insolita. Non è solo una messa. Quando c’è il cardinale, accadono cose.» L’uomo passò al tu affermativo, «Tu sei una di noi.».
«Che genere di cose?» Regina gli domandò fingendo di essere capitata lì per pura curiosità.
L’uomo si fermò, si voltò a guardarla negli occhi, pieno di stupore, «Tu sei una di noi.»
Regina fece un cenno di diniego con il capo. L’uomo le sorrise e tornò a perdersi nel suo molle dondolio.
Dalla navata opposta si alzò un’invocazione, Gesù, un grido disperato di donna, di cui nessuno si curò. Tutti restarono assorti nella loro preghiera.
L’assemblea quindi si alzò in piedi, voltandosi a guardare il corridoio centrale dove stava entrando il cardinale. Sfilava seguito da due giovani preti con paramenti bianchi e da un altro sacerdote molto anziano, sorretto da un chierico imberbe e allampanato.
Regina cercò in giro il sacerdote con cui aveva parlato pocanzi, se ne stava appoggiato sul lato di una colonna, con abiti ordinari. Lui la notò e le sorrise. Lei distolse velocemente lo sguardo.
Il silenzio si fece rigoroso e cupo. Non un canto, non un respiro, non il ticchettio di un orologio a segnare quel tempo sospeso e fermo. Anche l’uomo al suo fianco finalmente si fermò.
Centinaia di teste si inchinarono e si rialzarono al passaggio del porporato, come l’onda lenta del mare in attesa di lambire una riva desiderata e lontana. Tutti guardavano in avanti, immobili.
La messa procedette con una lentezza estenuante; Regina si concentrò soltanto sul vecchio prete seduto in un angolo buio dietro l’altare. Lo conosceva. Don Saverio Astalli. Non partecipava attivamente alla celebrazione, era assorto, tremolante e privo di mimica facciale.
Regina era lì per lui. Non era stato poi così difficile rintracciarlo. Dopo le gravi accuse di un presunto abuso su una minore alla fine degli anni Settanta, per il quale mai fu condannato, perché mai fu possibile provare il suo effettivo coinvolgimento, era rimasto all’ombra della Chiesa, migrando da una sede all’altra per poi approdare in quella basilica del Palatino di cui era rettore. Il vescovo ausiliare al tempo dei fatti era Andreas Neumann, unico figlio del ricco ambasciatore tedesco che, appena nominato nella diocesi centrale di Roma, s’incaricò di mettere a tacere lo scandalo che si stava sollevando intorno ad Astalli. Il prete era il responsabile spirituale non solo della sua parrocchia, ma anche di una struttura religiosa privata al cui interno erano ricoverati ragazzi affetti da patologie psichiatriche. La struttura chiuse i battenti nel 1979, con l’attuazione della legge Basaglia, e i suoi ospiti, tutti giovani senza famiglia e già fantasmi al mondo e alla vita, furono mandati altrove. Ognuno incontro al proprio destino o libero dalla propria prigionia.
Don Saverio Astalli risiedeva ancora nella basilica, assistendo alle messe e assolvendo le ore di preghiera, dalle lodi della mattina ai vespri. Nel frattempo viveva con la morte al fianco, in attesa di farsi accompagnare nell’inferno che meritava, pensò Regina.
A metà della celebrazione si elevò un lamento gutturale, via via sempre più forte, cui ne fecero seguito altri, fino a quando tutti parteciparono a quella melodia monocorde.
L’uomo vicino a Regina, che teneva le labbra serrate e gli occhi stretti, emise un suono così profondo che sembrava provenire dalle viscere della terra.
Una donna iniziò a inchinarsi e a battere la testa contro la spalliera del banco avanti a lei. Un ragazzo, abbastanza giovane, uscì dal suo posto e con le mani alzate al cielo iniziò a urlare e piangere, piombando pesantemente in ginocchio al centro dell’assemblea, in stato catalettico. Nessuno intorno si preoccupò di assisterlo.
Regina era sconcertata, ma sapeva di avere a che fare con individui psicolabili, o almeno era quanto continuava a ripetersi osservando quelle scene surreali.
Altri iniziarono a contorcersi, urlare, imprecare. Qualcuno svenne.
Chi non veniva investito da quella potente onda emotiva, restò fermo al suo posto, continuando a emettere incessantemente un suono grave e monotono. Non era voce e neppure canto, soltanto un piatto ronzio simile a quello di uno sciame di calabroni.
Don Astalli rimase accartocciato su sé stesso, il volto nascosto nella coppa delle mani avvizzite.
Regina osservò la scena cercando di non farsi confondere. Ciò a cui stava assistendo era reale, possibile. Ciò che l’assalì dentro, però, fu così potente da farla vacillare. La sua storia iniziava proprio da lì e portava il nome di sua sorella Rosa e di don Astalli. Questo la eccitava. Sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene.
Il cardinale si voltò e posò lo sguardo su di lei, come se la conoscesse, come se la aspettasse. Si fissarono. Regina sostenne lo sguardo del ministro di Dio.
Anche Don Astalli sollevò la testa e la fissò, udiva il suo silenzio tra quella moltitudine di voci. La guardò attraverso gli occhi velati da una pesante cataratta, insinuandosi nella sua mente come un’ombra tossica.
Regina si guardò intorno, il giovane sacerdote non era più vicino alla colonna, non lo scorse da nessuna parte. Tutti tenevano gli occhi chiusi e le labbra serrate. Quelli che prima si erano agitati erano caduti in uno strano sopore, chi seduto al suo posto, chi sdraiato per terra, chi rannicchiato sull’inginocchiatoio.
Percepì quasi fisicamente il peso di qualcosa che cercava di schiacciarla, le tremarono per un istante le gambe. Ne ebbe abbastanza, Regina prese la borsa che aveva posato in terra. Fece il primo passo per allontanarsi e l’uomo al suo fianco le afferrò il polso, stringendolo forte.
«Devi stare attenta. Tu sei come noi.»
Gli diede uno strattone, staccandosi da quella stretta inopportuna.
«Chi sei?» gli domandò senza gentilezza.
«Non è importante chi io sia, ma chi sei tu.»
Regina lo guardò in attesa di una risposta sensata, cercò di mantenere un’espressione solida, ma gli occhi la tradirono. L’uomo la fissò ancora un istante e tornò alla sua preghiera.
Una volta uscita dal suo posto, Regina si appoggiò a una colonna e si impose di razionalizzare.
Non aveva paura, questo continuava a ripetersi.
Non ne aveva avuta quando si era arruolata, né durante tutte le missioni sotto copertura, infiltrata in una cellula terroristica a Stoccolma o in mezzo ai trafficanti di Apocalyptica. Non aveva avuto paura a Nancy, quando aveva scoperto la relazione di Erik con la loro informatrice più attendibile e, accecata di furore, aveva deciso di andarsene. E, no, non aveva paura di scovare quella verità che era la zona d’ombra del suo passato e che in qualche modo la legava all’anziano prete che tremava nell’angolo nascosto dietro l’altare.
Le persone si disposero ordinate su varie file per ricevere il sacramento eucaristico. Regina, senza esitazione, si inserì tra i fedeli.
Don Astalli, sorretto dal solito chierico, alzò il piccolo disco di ostia davanti ai suoi occhi:
«Il corpo…»
Regina non lo fece parlare e gli ringhiò:
«Io so chi sei.»
L’ostia tremò nella mano del vecchio: «Ti stavamo aspettando da molto tempo, anche noi sappiamo chi sei tu.»
Regina, piena di rabbia, gli voltò le spalle e si allontanò. Mentre camminava veloce per raggiungere il fondo della basilica, incontrò di nuovo il giovane prete. Stava in piedi a braccia conserte e la guardò appena, tornando a vagare con lo sguardo vigile sull’intera assemblea di devoti.
Alla fine della messa, Regina s’infilò nella sacrestia dove il cardinale, aiutato da alcuni giovani preti, si stava spogliando dei paramenti liturgici.
«Eminenza?»
Il cardinale Patrick Fournier si voltò. Era un uomo corpulento, sulla settantina, con capelli e barba brizzolati. Il suo volto aveva perso l’austerità di poco prima e rivelava un’espressione paterna e accogliente.
«Belli i capelli blu. Li ho notati mentre celebravo.» le sorrise, ammiccando allegro. Regina fu cólta alla sprovvista da un atteggiamento così confidenziale e umile. Gli porse la mano: «Eminenza, mi chiamo Regina Prezioso e sono una giornalista.»
Lui l’afferrò calorosamente: «Una regina senza un re?». Si sentì imbarazzata, ma rise insieme a lui. «In che cosa posso esserle utile?»
«Vorrei poterle parlare, se possibile.»
«Certamente, chi sono io per negarmi a una regina? Di che cosa vorrebbe parlare?»
Oh, di un sacco di cose, sua Eminenza. Per esempio, vorrei sapere perché Astalli era seduto dietro di lei invece che su una pira ardente. Magari anche chiarire i suoi rapporti, passati e presenti, con Herman Schwaitz. Che ruolo ha in tutta questa vicenda?
«Sono vere le cose che fate qui?»
Fournier trasse un lungo sospiro.
«Quali cose?»
Regina lo guardò senza rispondere, in attesa.
«Lei è credente?»
Ci pensò un istante, prima di rispondergli, «Sì, credo di sì.»
«O sì o no. Non esiste una via di mezzo.»
«Diciamo che voglio mettere la mano