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L'urlo muto degli angeli
L'urlo muto degli angeli
L'urlo muto degli angeli
E-book428 pagine5 ore

L'urlo muto degli angeli

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Info su questo ebook

Regina Prezioso è rientrata a Roma da circa sei mesi, allontanata dal servizio operativo per un’agenzia di spionaggio statunitense, dopo il fallimento di una missione in Francia volta a sgominare l’organizzazione che gestisce il traffico in Europa di una nuova potente droga.

Da giornalista, riesce a infiltrarsi negli ambienti romani dello spaccio dell’Apocalyptica, ritrovandosi sulle tracce di un vescovo, protagonista di uno scandalo che coinvolse la Chiesa alla fine degli anni Settanta.

L’omicidio di un potente banchiere belga sembra portare la firma di questo vescovo e della sua setta spariti nel nulla. Regina decide di richiamare a Roma la sua squadra operativa, convinta che dietro questa sanguinaria organizzazione di fanatici religiosi possa nascondersi la mente che gestisce il traffico di Apocalyptica. Le sue indagini sembrano coincidere, inoltre, con un fatto che la coinvolge direttamente: la scomparsa di sua sorella Rosa.

Per portare a compimento la missione, gli “Angeli Muti” devono accettare di calarsi in un inferno di cui non conoscono i meccanismi occulti. Realtà e allucinazione, verità e finzione si combinano tra loro in un crescendo di tensione e di orrori che condurranno alla soluzione di un terribile enigma.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2020
ISBN9788831684927
L'urlo muto degli angeli

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    Anteprima del libro

    L'urlo muto degli angeli - Flavia Basile Giacomini

    Kier­ke­gaard)

    1

    Ocu­lum pro ocu­lo

    et den­tem pro den­te

    Il fo­glio umi­do ap­pun­ta­to sul­la cor­tec­cia del gran­de cer­ro co­la­va la­cri­me di chi­na ne­ra. Ani­ma­to da un’im­prov­vi­sa fo­la­ta di ven­to si strap­pò, vol­teg­gian­do lon­ta­no dal suo sco­mo­do uf­fi­cio.

    Re­gi­na lo guar­dò al­lon­ta­nar­si, tra­sci­na­to via dall’or­ro­re che era sta­to chia­ma­to a te­sti­mo­nia­re. Spen­se il mo­to­re e sce­se dal­la mo­to, fis­san­do gli oc­chi sull’al­be­ro. Un ul­ti­mo lam­po ac­ce­se il cie­lo men­tre il tem­po­ra­le che si era ab­bat­tu­to per tut­ta la not­te sui Ca­stel­li Ro­ma­ni si spo­sta­va ver­so la cit­tà. Il so­le quel gior­no sem­bra­va non vo­ler sor­ge­re.

    Sen­za cu­rar­si de­gli uo­mi­ni del­la Scien­ti­fi­ca, si av­vi­ci­nò im­brac­cian­do la mac­chi­na fo­to­gra­fi­ca. Pas­sò ac­can­to a Ste­fa­no Ca­sa­gran­de, l’ispet­to­re ca­po, lo igno­rò men­tre la scru­ta­va con la co­da dell’oc­chio e si fer­mò qual­che pas­so avan­ti a lui per os­ser­va­re la sce­na.

    Al tron­co im­po­nen­te del­la pian­ta era ap­pe­so un uo­mo. Il cor­po pin­gue e nu­do. Ave­va i pol­si le­ga­ti all’al­be­ro con due stret­ti gi­ri di cor­da da ar­ram­pi­ca­ta. Una di quel­le co­lo­ra­te.

    Il chio­do che gli pe­ne­tra­va le ma­ni era lo stes­so sul qua­le po­co pri­ma sven­to­la­va la ban­die­ra del­la sua sen­ten­za.

    Re­gi­na si av­vi­ci­nò len­ta­men­te. I suoi pen­sie­ri era­no at­tra­ver­sa­ti so­lo dai ru­mo­ri di ri­co­gni­zio­ne del­la Scien­ti­fi­ca. Il suo sguar­do si spo­stò ra­pi­do sul­le fe­ri­te del ca­da­ve­re. Ina­lò pro­fon­da­men­te l’aria un pa­io di vol­te: odo­re di san­gue, mu­schio e for­se in­cen­so. E pau­ra.

    Scat­tò la pri­ma fo­to. Il brac­cio de­stro dell’uo­mo era sta­to scuo­ia­to con pe­ri­zia ana­to­mi­ca, i fa­sci mu­sco­la­ri espo­sti e in­te­gri. Il ca­po ri­ca­de­va in avan­ti, tin­to di san­gue scu­ro co­la­to dal­le or­bi­te svuo­ta­te. La boc­ca era ri­ma­sta spa­lan­ca­ta in una do­lo­ro­sa in­cre­du­li­tà, ma quell’an­tro buio era ri­ma­sto di­sa­bi­ta­to. I den­ti era­no sta­ti estrat­ti uno ad uno. Co­me la lin­gua. Il cor­po flac­ci­do era ve­sti­to di san­gue rap­pre­so fi­no ai pie­di, tra­pas­sa­ti da due chio­di rug­gi­no­si. La cal­vi­zie ri­flet­te­va il ba­glio­re del­le fo­to­cel­lu­le, ab­boz­zan­do un’au­reo­la bla­sfe­ma che ri­splen­de­va nel­la neb­bio­li­na che si al­za­va dal ter­re­no.

    Un tuo­no scos­se Re­gi­na, ra­pi­ta dal qua­dro ma­ca­bro di quel­la lu­ci­da ese­cu­zio­ne. Sen­tì in lon­ta­nan­za il mo­to­re di qual­che vet­tu­ra e guar­dò di sfug­gi­ta Ca­sa­gran­de che non smet­te­va di fis­sar­la, quin­di si ti­rò su il cap­puc­cio del­la fel­pa e s’inol­trò nel­la fo­re­sta, spa­ren­do dal­la vi­sta de­gli agen­ti che si spo­sta­va­no co­me fan­ta­smi cu­rio­si in­tor­no all’al­ta­re sa­cri­fi­ca­le.

    Po­co più in­die­tro, pri­ma dell’ini­zio del bo­sco, una Bmw ne­ra e una Mu­stang an­tra­ci­te si fer­ma­ro­no sul la­to del­la stra­da ster­ra­ta.

    Mar­kus Phil­lips sce­se dal­la pri­ma vet­tu­ra e an­dò a bus­sa­re al fi­ne­stri­no scu­ro dell’al­tra mac­chi­na, che sci­vo­lò giù per po­chi cen­ti­me­tri.

    «Dob­bia­mo pro­se­gui­re a pie­di.»

    Erik Fo­ster ri­spo­se con un cen­no e, chiu­so in un si­len­zio in­fa­sti­di­to, sce­se dall’au­to in­sie­me al suo col­le­ga. Na­than Par­ker si al­zò il ba­ve­ro del giub­bot­to di pel­le e in­fi­lò la sua Glock 19 nel­la cin­tu­ra dei pan­ta­lo­ni, die­tro la schie­na.

    «E se fos­se so­lo un re­go­la­men­to di con­ti?» bo­fon­chiò Erik, guar­dan­do le Ho­gan in­fan­ga­te, «Un cri­mi­ne le­ga­to al­la ge­lo­sia.»

    Na­than non ral­len­tò.

    «Un uo­mo in­chio­da­to a un al­be­ro, se­con­do te, può es­se­re vit­ti­ma di un omi­ci­dio pas­sio­na­le?»

    Erik ci pen­sò una fra­zio­ne di se­con­do.

    «Per­ché no? Un ma­ri­to in­caz­za­to che ap­pen­de per le pal­le lo stron­zo che si sco­pa sua mo­glie. Io lo fa­rei se ne va­les­se la pe­na.»

    «Sen­ti da che pul­pi­to. Sa­re­sti tu quel­lo ap­pe­so per le pal­le. Se fos­se so­lo que­sto, non sa­rem­mo qui.»

    Erik gli ri­vol­se un’oc­chia­ta e al­lun­gò il pas­so, ac­cor­cian­do la di­stan­za con i col­le­ghi che si era­no già inol­tra­ti lun­go il sen­tie­ro. Le ge­li­de goc­ce di un cie­lo pe­san­te ini­zia­ro­no a col­pir­li pri­ma che il fol­to del­la ve­ge­ta­zio­ne li in­ghiot­tis­se. All’om­bra de­gli al­ti cer­ri, la piog­gia pic­chia­va con vio­len­za sul­le fo­glie de­gli al­be­ri, rim­bom­ban­do co­me la sca­ri­ca di un MA­C10. Su­pe­ra­ro­no la fi­la com­po­sta da due fuo­ri­stra­da del­la Po­li­zia, un fur­gon­ci­no del­la Scien­ti­fi­ca, uno del­la Mor­tua­ria e un’am­bu­lan­za; po­co più avan­ti la sce­na del cri­mi­ne, il­lu­mi­na­ta da due fo­to­cel­lu­le.

    Mar­kus, da­van­ti a lo­ro, mo­strò il di­stin­ti­vo a un agen­te del­la Po­li­zia e si di­res­se ver­so l’ispet­to­re ca­po.

    «Dot­tor Ca­sa­gran­de, pos­sia­mo rac­co­glie­re qual­che pro­va?» chie­se Mar­kus, fin­gen­do di ri­co­no­sce­re all’ispet­to­re la pre­ce­den­za sul ca­so.

    «Do­po che i miei avran­no fi­ni­to. Sia chia­ro, que­sto è il mio ca­so e voi sie­te ospi­ti. Non gra­di­ti. Non in­tral­ce­rò il vo­stro la­vo­ro se voi non in­tral­ce­re­te il mio, ognu­no pen­si al suo. Cer­chia­mo sol­tan­to di non schiac­ciar­ci i pie­di.»

    Erik, ar­ri­van­do­gli al­le spal­le, non lo la­sciò con­ti­nua­re:

    «Al­tri­men­ti?»

    Ste­fa­no Ca­sa­gran­de si vol­tò con aria di suf­fi­cien­za:

    «Al­tri­men­ti nien­te.» ri­spo­se stiz­zi­to e si ri­vol­se di nuo­vo a Mar­kus:

    «Ades­so vi ad­de­stra­no an­che a par­la­re cor­ren­te­men­te l’ita­lia­no?»

    Mar­kus non rac­col­se la pro­vo­ca­zio­ne e fe­ce cen­no a Erik di al­lon­ta­nar­si.

    «Si trat­ta dun­que di Her­mann Sch­wai­tz?»

    Ca­sa­gran­de lo fis­sò un istan­te pri­ma di ri­spon­de­re.

    «Sa­pe­te be­ne chi è. Lo sa­pe­va­te an­che pri­ma che fos­se tru­ci­da­to. Mi do­man­do quan­to sia­te coin­vol­ti in que­sta sto­ria. Co­no­sco i vo­stri me­to­di in­ve­sti­ga­ti­vi e Sch­wai­tz na­scon­de­va mol­ti se­gre­ti.»

    «Ve­de, dot­tor Ca­sa­gran­de, noi non la­scia­mo né pro­ve, né ca­da­ve­ri in gi­ro per i bo­schi. Per­ché an­che i ca­da­ve­ri par­la­no, se in­ter­ro­ga­ti nel mo­do cor­ret­to.»

    Sul vol­to di Ca­sa­gran­de si di­se­gnò una smor­fia astio­sa.

    «Fa­te quel­lo che do­ve­te e le­va­te­vi di mez­zo.» dis­se al­lon­ta­nan­do­si dal grup­po di col­le­ghi stra­nie­ri.

    Mar­kus si vol­tò ver­so To­bias che, giun­to in­sie­me a lui, era ri­ma­sto in si­len­zio al suo fian­co:

    «Dob­bia­mo man­te­ne­re un pro­fi­lo bas­so. Per ora. Qual è la tua pri­ma im­pres­sio­ne, Doc?»

    To­bias Mc­Graw fis­sò con oc­chi acu­ti la sce­na. La­vo­ra­va al fian­co di Mar­kus or­mai da ol­tre tre­di­ci an­ni. Il lo­ro af­fia­ta­men­to era co­sì for­te che spes­so ba­sta­va so­lo uno sguar­do per in­ten­der­si. Lo chia­ma­va­no tut­ti Doc, un chi­rur­go per i vi­vi, un ot­ti­mo psi­ca­na­li­sta per i mor­ti.

    «Co­me pri­ma ipo­te­si pen­se­rei a un ar­re­sto car­dia­co av­ve­nu­to tra le no­ve di ie­ri mat­ti­na e mez­za­not­te di og­gi, in ogni ca­so non do­po le sei di que­sta mat­ti­na e co­mun­que non ol­tre ven­ti­quat­tro ore fa.» I suoi oc­chi ver­di con­ti­nua­ro­no a per­cor­re­re co­me uno scan­ner ogni cen­ti­me­tro di quel cor­po pro­fa­na­to. «Non pre­sen­ta se­gni di per­cos­se o fe­ri­te da pro­iet­ti­le, da quel­lo che pos­so os­ser­va­re co­sì, in que­sto mo­men­to. Lo han­no tor­tu­ra­to con so­fi­sti­ca­to sa­di­smo. Ha per­so mol­to san­gue, ma non ab­ba­stan­za da es­ser­si dis­san­gua­to, lo scuo­ia­men­to del brac­cio è sta­to ope­ra­to in ma­nie­ra chi­rur­gi­ca sen­za pro­vo­ca­re le­sio­ni al­le strut­tu­re va­sco­la­ri. Han­no cau­te­riz­za­to le fe­ri­te. Lo sta­to di ri­gor…»

    Mar­kus si la­sciò sfug­gi­re un ge­sto d’im­pa­zien­za. A lui tut­te quel­le in­for­ma­zio­ni tec­ni­che non era­no mai in­te­res­sa­te. Vo­le­va un’ar­ma, un mo­ven­te e un as­sas­si­no. To­bias sol­le­vò il so­prac­ci­glio e pro­se­guì: «Lo sta­to di ri­gor può es­se­re sta­to ac­ce­le­ra­to da al­cu­ne cir­co­stan­ze co­me la tem­pe­ra­tu­ra ester­na o l’over­do­se da co­cai­na o me­tan­fe­ta­mi­ne.»

    «Quin­di il vec­chio ha avu­to un col­po al cuo­re du­ran­te qual­che gio­chet­to trop­po spin­to?» dis­se Erik av­vi­ci­nan­do­si. Fi­no a quel mo­men­to si era te­nu­to in di­spar­te, ispe­zio­nan­do l’area più di­stan­te dal­la sce­na del cri­mi­ne. Era sta­to ve­te­ra­no in mis­sio­ni mi­li­ta­ri in Af­gha­ni­stan, Iraq e Si­ria, di ca­da­ve­ri ne ave­va vi­sti a de­ci­ne, an­che in con­di­zio­ni peg­gio­ri di quel­lo che ave­va da­van­ti, ma l’odo­re del san­gue e del­la mor­te mi­schia­ti in­sie­me non riu­sci­va a sop­por­tar­lo. Se lo por­ta­va ap­pic­ci­ca­to ad­dos­so in­sie­me ai pez­zi dell’ami­co sal­ta­to sul­la mi­na an­ti­uo­mo nel­le cam­pa­gne in­tor­no a Du­ma. Un brac­cio, una gam­ba, una ma­no, il tron­co che pa­re­va di un bu­rat­ti­no non an­co­ra fi­ni­to di co­strui­re. E quell’odo­re che gli ave­va im­pre­gna­to i ve­sti­ti, la pel­le, il cer­vel­lo e l’ani­ma.

    E lì in­tor­no c’era una for­tis­si­ma puz­za di mor­te.

    Na­than, in­ve­ce, con­ti­nua­va a per­lu­stra­re il ter­re­no in­tor­no al ca­da­ve­re. Gi­rò in­tor­no all’al­be­ro, die­tro al qua­le era­no am­muc­chia­ti i ve­sti­ti dell’uo­mo. Non era­no né spor­chi di san­gue né strap­pa­ti, le scar­pe ap­pa­ia­te ac­can­to. I pan­ta­lo­ni ges­sa­ti e la giac­ca del ban­chie­re bel­ga, era­no sta­ti ada­gia­ti con cu­ra; la ca­mi­cia bian­ca, con il col­let­to e i pol­si­ni ina­mi­da­ti, era sta­ta ri­pie­ga­ta per be­ne. La cra­vat­ta ste­sa so­pra. Pro­ba­bil­men­te lo ave­va­no fat­to spo­glia­re con cal­ma af­fin­ché il ter­ro­re di ciò che sta­va per ac­ca­der­gli in­cep­pas­se il suo oro­lo­gio men­ta­le.

    Do­po aver scat­ta­to qual­che fo­to con il cel­lu­la­re, Na­than si rial­zò guar­dan­do­si in­tor­no. Tra gli al­be­ri scor­se la Ya­ma­ha R1 ne­ra.

    Po­chi se­con­di do­po en­trò nel suo cam­po vi­si­vo una fi­gu­ra slan­cia­ta, giub­bot­to di pel­le ne­ra e cap­puc­cio del­la fel­pa ti­ra­to su, dal qua­le sfug­gi­va una cioc­ca di ca­pel­li bion­da stria­ta di blu. La don­na avan­zò con gli oc­chi fis­si sul ter­re­no, ave­va in ma­no una mac­chi­na fo­to­gra­fi­ca pro­fes­sio­na­le. Si fer­mò e con il pie­de spo­stò un muc­chio di fo­glie ros­sa­stre. Si in­chi­nò per scat­ta­re una fo­to al fo­glio di car­ta or­mai zup­po ma an­co­ra leg­gi­bi­le.

    Ri­sol­le­van­do­si, no­tò Na­than che la sta­va fis­san­do. Gli sor­ri­se e gli cor­se in­con­tro.

    «Quan­do sie­te ar­ri­va­ti?»

    «Mezz’ora fa.»

    «Non in­ten­de­vo qui.»

    «Due set­ti­ma­ne fa, più o me­no. Con­ta­va­mo di tro­var­lo pri­ma noi. Vi­vo.»

    «Lui è qui?» gli chie­se tra­den­do l’an­sia.

    Na­than le fe­ce un cen­no af­fer­ma­ti­vo e con lo sguar­do pun­tò Erik.

    «Per­fet­to.» sus­sur­rò Re­gi­na.

    «Co­sa hai tro­va­to?»

    «Nul­la di più di quel­lo che ve­di ap­pe­so all’al­be­ro. Non ser­vi­rà a mol­to, Ca­sa­gran­de non vi fa­rà av­vi­ci­na­re ai la­bo­ra­to­ri sen­za un man­da­to.»

    «Che ci fa­ce­vi die­tro a Sch­wai­tz?» le do­man­dò Na­than.

    «Sto la­vo­ran­do per un ar­ti­co­lo su una set­ta di fa­na­ti­ci re­li­gio­si. Voi in­ve­ce?» gli fe­ce un sor­ri­so a mez­za boc­ca.

    «Stia­mo cer­can­do il lea­der di Men­te, po­te­re e cam­bia­men­to, l’or­ga­niz­za­zio­ne che ge­sti­sce il mer­ca­to di Apo­ca­lyp­ti­ca.»

    «Dim­mi di più su Sch­wai­tz. Per­ché lo cer­ca­va­te?»

    «Sch­wai­tz po­te­va es­se­re la chia­ve che ci avreb­be aper­to le por­te giu­ste, ma a quan­to pa­re qual­cu­no ha de­ci­so di cam­bia­re le ser­ra­tu­re. Trac­cian­do i flus­si di de­na­ro le­ga­ti ad Apo­ca­lyp­ti­ca sia­mo ri­sa­li­ti ad al­cu­ni mem­bri in­fluen­ti del mo­vi­men­to. Han­no tut­ti fat­to il no­me di un cer­to Adam e di Sch­wai­tz. Il ban­chie­re sen­ten­do­si mi­nac­cia­to è cor­so a gam­be le­va­te fi­no a Ro­ma, cer­can­do qual­che ap­pog­gio. E tu, per­ché sei ar­ri­va­ta a lui?»

    Re­gi­na stor­se le lab­bra.

    «Era un gre­ga­rio del­la set­ta.» dis­se sen­za di­lun­gar­si ol­tre.

    Ave­va smes­so di pio­ve­re. In­tor­no con­ti­nua­va in­ces­san­te lo scal­pic­cìo e l’ab­ba­glia­re dei fla­sh de­gli agen­ti del­la Scien­ti­fi­ca.

    «Co­me stai?» ta­gliò cor­to Na­than, che ave­va trat­te­nu­to quel­la do­man­da spi­no­sa dall’istan­te in cui si era ac­cor­to di lei.

    «So­no an­co­ra vi­va, non mi ve­di?» gli ri­spo­se in un sor­ri­so for­za­to, pri­ma di al­lon­ta­nar­si con pas­so si­cu­ro ver­so Mar­kus.

    «Co­me gli av­vol­toi, ar­ri­va­te sem­pre ul­ti­mi.» si an­nun­ciò con sar­ca­smo.

    Mar­kus Phil­lips si vol­tò sor­pre­so di ve­der­la lì; To­bias, di­strat­to dal­la sua vo­ce, di­stol­se lo sguar­do dal ca­da­ve­re. Le si av­vi­ci­nò, le sfi­lò il cap­puc­cio del­la fel­pa e la ba­ciò sul­la nu­ca.

    «Queen, mi sei man­ca­ta.» le sus­sur­rò in un orec­chio.

    Re­gi­na Pre­zio­so strin­se le lab­bra e gli ac­ca­rez­zò una ma­no.

    «Ave­vi mai in­con­tra­to Sch­wai­tz pri­ma di tut­to que­sto?» le do­man­dò Mar­kus.

    Re­gi­na scos­se la te­sta: «Mi ave­va da­to un ap­pun­ta­men­to per in­ter­vi­star­lo la pros­si­ma set­ti­ma­na, evi­den­te­men­te qual­cu­no ha fat­to lo scoop pri­ma di me.»

    «E che co­sa gli avre­sti chie­sto?» To­bias ri­se e inar­cò le fol­te so­prac­ci­glia ros­se, «Ma­ga­ri po­te­va dar­ti del­le drit­te su co­me ma­ni­po­la­re la real­tà con la for­za del pen­sie­ro, co­me pre­di­ca­no quel­li di Men­te, po­te­re e cam­bia­men­to

    «Gli avrei chie­sto che fi­ne ha fat­to il ve­sco­vo Neu­mann e la con­fra­ter­ni­ta mas­so­ni­ca che fon­dò al­la fi­ne de­gli an­ni Set­tan­ta e che pro­cu­rò un enor­me de­bi­to al­la Chie­sa. Tut­ta gen­te di ce­to ele­va­tis­si­mo e di po­te­re. Uno scan­da­lo sof­fo­ca­to nel si­len­zio del­le isti­tu­zio­ni». Re­gi­na non di­stol­se lo sguar­do da quel­lo at­ten­to di To­bias.

    «E tut­ta que­sta sto­ria che co­sa c’en­tra con Sch­wai­tz?»

    «Sch­wai­tz era uno di lo­ro: fe­de­le de­vo­to, ami­co del ve­sco­vo Neu­mann, fre­quen­ta­to­re as­si­duo del­la sua co­mu­ni­tà di pre­ghie­ra. Il lo­ro po­te­re, guar­da ca­so, si ac­creb­be pro­prio in que­gli an­ni. Sa­pe­vo che lo cer­ca­va­te e l’ho tro­va­to. Voi per Apo­ca­lyp­ti­ca, io per il dia­vo­lo. A quan­to pa­re il ma­le na­sce sem­pre dal­la stes­sa ra­di­ce.»

    «Dun­que il ban­chie­re par­te­ci­pa­va a che co­sa? Pre­ghie­re? Mes­se ne­re? Ri­ti pa­ga­ni?» chie­se To­bias con un ve­lo di sar­ca­smo vol­gen­do lo sguar­do al ca­da­ve­re del vec­chio tor­tu­ra­to.

    «Si di­ce che il lo­ro cul­to con­tem­plas­se il sa­cri­fi­cio, co­me ri­tor­no al­le ori­gi­ni del­la tra­di­zio­ne sa­cra e per la ri­sco­per­ta dell’uo­mo pu­ro in di­ret­to con­tat­to con la di­vi­ni­tà. Ma fi­no­ra si trat­ta so­lo di leg­gen­da.»

    To­bias ac­cen­nò, sot­to la bar­ba ful­va, una smor­fia con­tra­ria­ta all’in­di­riz­zo di Mar­kus.

    «In­som­ma, que­sto Sch­wai­tz sguaz­za­va nel­la mer­da da ol­tre qua­rant’an­ni e spe­ra­va di le­var­se­la di dos­so sol­tan­to con una doc­cia d’ac­qua be­ne­det­ta?» dis­se Erik, av­vi­ci­nan­do­si e in­se­ren­do­si nel­la lo­ro con­ver­sa­zio­ne, «Queen, ti tro­vo in for­ma.»

    I due si scru­ta­ro­no un istan­te. Gli oc­chi scu­ri di lei era­no pie­ni di astio, quel­li qua­si tra­spa­ren­ti di lui in cer­ca di re­den­zio­ne.

    «Non ab­bia­mo più vin­co­li re­ci­pro­ci di al­cun ge­ne­re, per­ciò Re­gi­na, se pro­prio ri­tie­ni in­di­spen­sa­bi­le no­mi­nar­mi.»

    Erik si pas­sò una ma­no tra i ca­pel­li bion­di e umi­di, «D’ac­cor­do…» sus­sur­rò scuo­ten­do la te­sta.

    «Que­sto è il mio pae­se e non ti ho in­vi­ta­to io, per­ciò cer­ca di evi­tar­mi.»

    Mar­kus cer­cò una ra­pi­da via di fu­ga da quel­la dif­fi­ci­le si­tua­zio­ne che, po­co più di sei me­si pri­ma a Nan­cy, ave­va mes­so in cri­si l’in­te­ra squa­dra e ave­va por­ta­to all’al­lon­ta­na­men­to di Re­gi­na.

    «La squa­dra è la stes­sa dell’ope­ra­zio­ne Apo­ca­lyp­ti­ca. Aspet­tia­mo da Bo­ston l’ agen­te spe­cia­le che in­da­ga da tem­po sul gi­ro di un ta­le Adam e che si è in­fil­tra­to ai ver­ti­ci di quel­lo che sem­bre­reb­be es­se­re il suo grup­po.» Mar­kus ri­por­tò l’at­ten­zio­ne sul mo­ti­vo prin­ci­pa­le del­la lo­ro pre­sen­za in Ita­lia.

    «Ave­vi pro­prio bi­so­gno di por­ta­re Erik qui?» ta­gliò cor­to Re­gi­na.

    Erik la guar­dò ama­reg­gia­to e le vol­tò le spal­le per rag­giun­ge­re Na­than.

    Mar­kus le ri­vol­se un’oc­chia­ta se­ve­ra: «È il mi­glio­re a con­dur­re azio­ni di ri­cer­ca tat­ti­ca mi­li­ta­re, que­sto lo sai. Non hai al­cu­na ne­ces­si­tà di in­te­ra­gi­re con lui, è qui so­lo per la­vo­ro. E tu, non met­ter­ti nei guai. »

    Re­gi­na guar­dò Erik sen­za al­cu­na in­dul­gen­za. Nel suo la­vo­ro era il mi­glio­re. Ognu­no di lo­ro era una pun­ta di dia­man­te nel ri­spet­ti­vo ruo­lo all’in­ter­no dell’agen­zia go­ver­na­ti­va sta­tu­ni­ten­se per cui la­vo­ra­va­no. Lo era sta­ta an­che lei, pri­ma del fal­li­men­to dell’ope­ra­zio­ne Apo­ca­lyp­ti­ca. Tut­te le lo­ro co­per­tu­re era­no ca­du­te po­co pri­ma dell’ir­ru­zio­ne in uno dei più so­fi­sti­ca­ti la­bo­ra­to­ri di quel­la po­ten­te me­tan­fe­ta­mi­na che sta­va di­la­gan­do in tut­ta Eu­ro­pa.

    Ca­sa­gran­de li os­ser­va­va in­fa­sti­di­to or­mai da pa­rec­chi mi­nu­ti.

    Re­gi­na tor­nò in­die­tro ver­so la sua mo­to e l’ispet­to­re la fer­mò: «Non abu­sa­re del mio fa­vo­re, Re­gi­na. Sce­gli da che par­te sta­re, il lim­bo è dei mor­ti. Non sei più dei no­stri e pos­so di­men­ti­ca­re con fa­ci­li­tà che tu lo sia sta­ta. Hai cam­bia­to trop­pe ban­die­re. Po­trei an­che non aiu­tar­ti più con i tuoi ar­ti­co­li di cro­na­ca ne­ra, ca­ra la mia gior­na­li­sta. Le tue ami­ci­zie de­vo­no re­sta­re fuo­ri dai no­stri rap­por­ti.»

    Re­gi­na, quin­di, pro­se­guì dan­do­gli una spal­la­ta, cal­zò il ca­sco e poi tor­nò sui suoi pas­si. Pun­tò il di­to ver­so Ste­fa­no Ca­sa­gran­de: «Non so­no io ad ave­re bi­so­gno del tuo aiu­to, ma tu del mio. So­no pas­sa­ti an­ni da quan­do era­va­mo col­le­ghi, ma non ab­ba­stan­za per­ché io di­men­ti­chi.» Lo dis­se for­te in mo­do che tut­ti sen­tis­se­ro, che i suoi ami­ci al­zas­se­ro la guar­dia e che i suoi ne­mi­ci tre­mas­se­ro.

    Na­than ed Erik scat­ta­ro­no pron­ti a in­ter­ve­ni­re.

    «La re­gi­na è tor­na­ta.» bo­fon­chiò Mar­kus.

    To­bias sor­ri­se sod­di­sfat­to e la guar­dò mon­ta­re in sel­la, men­tre al­za­va la ma­no per sa­lu­tar­li.

    Si al­lon­ta­nò sul­la stra­da ster­ra­ta pie­na di poz­zan­ghe­re. Po­co do­po si udì il tuo­no sor­do del mo­to­re in ac­ce­le­ra­zio­ne del­la sua Ya­ma­ha.

    Con la ruo­ta po­ste­rio­re gi­ra­ta a vuo­to sol­le­vò uno tsu­na­mi di fan­go che tra­vol­se la Mu­stang di Erik, pri­ma di al­lon­ta­nar­si da tut­ti.

    2

    La fi­ne di set­tem­bre era la più afo­sa e sof­fo­can­te de­gli ul­ti­mi an­ni e in­fuo­ca­va l’asfal­to di Ro­ma ren­den­do la cit­tà una fu­ci­na in­fer­na­le.

    Re­gi­na si se­det­te in un ban­co cen­tra­le del­la chie­sa ba­roc­ca nei pres­si del Cir­co Mas­si­mo.

    Fa­ce­va fa­ti­ca a met­te­re a fuo­co. I suoi oc­chi, an­co­ra ac­ce­ca­ti dal­la lu­ce vio­len­ta del so­le che l’ave­va tor­tu­ra­ta per tut­to il tra­git­to a pie­di da Tra­ste­ve­re fi­no a lì, non si abi­tua­va­no al buio del­la ba­si­li­ca.

    La chie­sa era già pie­na di per­so­ne e Re­gi­na an­nu­sò l’aria in­tri­sa di in­cen­so e sen­to­re di muf­fa an­ti­ca. Sem­bra­va riu­scis­se a sen­ti­re an­che l’afro­re del­la sof­fe­ren­za che la cir­con­da­va. Re­stò im­mo­bi­le sul fon­do del­la chie­sa a os­ser­va­re, in­ca­pa­ce di pro­ce­de­re ol­tre, co­me se le gam­be fos­se­ro di­ven­ta­te im­prov­vi­sa­men­te due co­lon­ne di gra­ni­to.

    Nel si­len­zio che riem­pi­va quel luo­go di cul­to co­me l’im­bot­ti­tu­ra di un enor­me pu­paz­zo, si udi­va, qua e là, un la­men­to, un sin­ghioz­zo, una sup­pli­ca.

    L’al­ta­re era spo­glio, in un ri­go­re con­tra­stan­te con le nu­me­ro­se ope­re d’ar­te, qua­dri e scul­tu­re che riem­pi­va­no l’in­te­ro pe­ri­me­tro di quel ric­co tem­pio di Dio.

    Un gio­va­ne sa­cer­do­te le si av­vi­ci­nò e con gen­ti­lez­za le in­di­cò un po­sto a se­de­re an­co­ra li­be­ro tra i ban­chi più avan­ti.

    «Le con­vie­ne ac­co­mo­dar­si. La ce­le­bra­zio­ne è lun­ga e par­ti­co­la­re.» le dis­se con un sor­ri­so mi­te, qua­si a giu­sti­fi­ca­re la pro­pria in­va­den­za.

    Re­gi­na lo guar­dò stra­ni­ta e sen­za ri­spon­der­gli an­dò a pren­de­re po­sto do­ve le era sta­to in­di­ca­to.

    L’uo­mo se­du­to al suo fian­co ave­va in ma­no un ro­sa­rio di pla­sti­ca in­gial­li­ta e con­su­ma­ta, che fa­ce­va scor­re­re in­ces­san­te­men­te tra le di­ta, con­ti­nuan­do a ba­ciar­ne il cro­ci­fis­so. Si don­do­la­va sen­za so­sta, con gli oc­chi fis­si nel vuo­to. Ba­ciò e ri­ba­ciò quel suo Ge­sù ta­sca­bi­le sen­za mai fer­mar­si.

    «Tra po­co ini­zia tut­to.» le dis­se sot­to­vo­ce in un orec­chio, sen­za guar­dar­la. «Lei è nuo­va, non l’ho mai vi­sta qui. Lei è una di noi?»

    Era un uo­mo sul­la cin­quan­ti­na, ben ve­sti­to, il vol­to gla­bro e dia­fa­no. Re­gi­na si vol­tò a fis­sar­lo qual­che se­con­do: «No, non so­no mai sta­ta qui. Di­co­no che la mes­sa ce­le­bra­ta dal car­di­na­le sia mol­to spe­cia­le.» gli ri­spo­se.

    L’uo­mo non di­stol­se lo sguar­do dal vuo­to in cui era per­so e ri­co­min­ciò a don­do­lar­si. Do­po un pa­io di mi­nu­ti le sus­sur­rò di nuo­vo: «In­so­li­ta. Non è so­lo una mes­sa. Quan­do c’è il car­di­na­le, ac­ca­do­no co­se.» L’uo­mo pas­sò al tu af­fer­ma­ti­vo, «Tu sei una di noi.».

    «Che ge­ne­re di co­se?» Re­gi­na gli do­man­dò fin­gen­do di es­se­re ca­pi­ta­ta lì per pu­ra cu­rio­si­tà.

    L’uo­mo si fer­mò, si vol­tò a guar­dar­la ne­gli oc­chi, pie­no di stu­po­re, «Tu sei una di noi.»

    Re­gi­na fe­ce un cen­no di di­nie­go con il ca­po. L’uo­mo le sor­ri­se e tor­nò a per­der­si nel suo mol­le don­do­lio.

    Dal­la na­va­ta op­po­sta si al­zò un’in­vo­ca­zio­ne, Ge­sù, un gri­do di­spe­ra­to di don­na, di cui nes­su­no si cu­rò. Tut­ti re­sta­ro­no as­sor­ti nel­la lo­ro pre­ghie­ra.

    L’as­sem­blea quin­di si al­zò in pie­di, vol­tan­do­si a guar­da­re il cor­ri­do­io cen­tra­le do­ve sta­va en­tran­do il car­di­na­le. Sfi­la­va se­gui­to da due gio­va­ni pre­ti con pa­ra­men­ti bian­chi e da un al­tro sa­cer­do­te mol­to an­zia­no, sor­ret­to da un chie­ri­co im­ber­be e al­lam­pa­na­to.

    Re­gi­na cer­cò in gi­ro il sa­cer­do­te con cui ave­va par­la­to po­can­zi, se ne sta­va ap­pog­gia­to sul la­to di una co­lon­na, con abi­ti or­di­na­ri. Lui la no­tò e le sor­ri­se. Lei di­stol­se ve­lo­ce­men­te lo sguar­do.

    Il si­len­zio si fe­ce ri­go­ro­so e cu­po. Non un can­to, non un re­spi­ro, non il tic­chet­tio di un oro­lo­gio a se­gna­re quel tem­po so­spe­so e fer­mo. An­che l’uo­mo al suo fian­co fi­nal­men­te si fer­mò.

    Cen­ti­na­ia di te­ste si in­chi­na­ro­no e si rial­za­ro­no al pas­sag­gio del por­po­ra­to, co­me l’on­da len­ta del ma­re in at­te­sa di lam­bi­re una ri­va de­si­de­ra­ta e lon­ta­na. Tut­ti guar­da­va­no in avan­ti, im­mo­bi­li.

    La mes­sa pro­ce­det­te con una len­tez­za este­nuan­te; Re­gi­na si con­cen­trò sol­tan­to sul vec­chio pre­te se­du­to in un an­go­lo buio die­tro l’al­ta­re. Lo co­no­sce­va. Don Sa­ve­rio Astal­li. Non par­te­ci­pa­va at­ti­va­men­te al­la ce­le­bra­zio­ne, era as­sor­to, tre­mo­lan­te e pri­vo di mi­mi­ca fac­cia­le.

    Re­gi­na era lì per lui. Non era sta­to poi co­sì dif­fi­ci­le rin­trac­ciar­lo. Do­po le gra­vi ac­cu­se di un pre­sun­to abu­so su una mi­no­re al­la fi­ne de­gli an­ni Set­tan­ta, per il qua­le mai fu con­dan­na­to, per­ché mai fu pos­si­bi­le pro­va­re il suo ef­fet­ti­vo coin­vol­gi­men­to, era ri­ma­sto all’om­bra del­la Chie­sa, mi­gran­do da una se­de all’al­tra per poi ap­pro­da­re in quel­la ba­si­li­ca del Pa­la­ti­no di cui era ret­to­re. Il ve­sco­vo au­si­lia­re al tem­po dei fat­ti era An­dreas Neu­mann, uni­co fi­glio del ric­co am­ba­scia­to­re te­de­sco che, ap­pe­na no­mi­na­to nel­la dio­ce­si cen­tra­le di Ro­ma, s’in­ca­ri­cò di met­te­re a ta­ce­re lo scan­da­lo che si sta­va sol­le­van­do in­tor­no ad Astal­li. Il pre­te era il re­spon­sa­bi­le spi­ri­tua­le non so­lo del­la sua par­roc­chia, ma an­che di una strut­tu­ra re­li­gio­sa pri­va­ta al cui in­ter­no era­no ri­co­ve­ra­ti ra­gaz­zi af­fet­ti da pa­to­lo­gie psi­chia­tri­che. La strut­tu­ra chiu­se i bat­ten­ti nel 1979, con l’at­tua­zio­ne del­la leg­ge Ba­sa­glia, e i suoi ospi­ti, tut­ti gio­va­ni sen­za fa­mi­glia e già fan­ta­smi al mon­do e al­la vi­ta, fu­ro­no man­da­ti al­tro­ve. Ognu­no in­con­tro al pro­prio de­sti­no o li­be­ro dal­la pro­pria pri­gio­nia.

    Don Sa­ve­rio Astal­li ri­sie­de­va an­co­ra nel­la ba­si­li­ca, as­si­sten­do al­le mes­se e as­sol­ven­do le ore di pre­ghie­ra, dal­le lo­di del­la mat­ti­na ai ve­spri. Nel frat­tem­po vi­ve­va con la mor­te al fian­co, in at­te­sa di far­si ac­com­pa­gna­re nell’in­fer­no che me­ri­ta­va, pen­sò Re­gi­na.

    A me­tà del­la ce­le­bra­zio­ne si ele­vò un la­men­to gut­tu­ra­le, via via sem­pre più for­te, cui ne fe­ce­ro se­gui­to al­tri, fi­no a quan­do tut­ti par­te­ci­pa­ro­no a quel­la me­lo­dia mo­no­cor­de.

    L’uo­mo vi­ci­no a Re­gi­na, che te­ne­va le lab­bra ser­ra­te e gli oc­chi stret­ti, emi­se un suo­no co­sì pro­fon­do che sem­bra­va pro­ve­ni­re dal­le vi­sce­re del­la ter­ra.

    Una don­na ini­ziò a in­chi­nar­si e a bat­te­re la te­sta con­tro la spal­lie­ra del ban­co avan­ti a lei. Un ra­gaz­zo, ab­ba­stan­za gio­va­ne, uscì dal suo po­sto e con le ma­ni al­za­te al cie­lo ini­ziò a ur­la­re e pian­ge­re, piom­ban­do pe­san­te­men­te in gi­noc­chio al cen­tro dell’as­sem­blea, in sta­to ca­ta­let­ti­co. Nes­su­no in­tor­no si pre­oc­cu­pò di as­si­ster­lo.

    Re­gi­na era scon­cer­ta­ta, ma sa­pe­va di ave­re a che fa­re con in­di­vi­dui psi­co­la­bi­li, o al­me­no era quan­to con­ti­nua­va a ri­pe­ter­si os­ser­van­do quel­le sce­ne sur­rea­li.

    Al­tri ini­zia­ro­no a con­tor­cer­si, ur­la­re, im­pre­ca­re. Qual­cu­no sven­ne.

    Chi non ve­ni­va in­ve­sti­to da quel­la po­ten­te on­da emo­ti­va, re­stò fer­mo al suo po­sto, con­ti­nuan­do a emet­te­re in­ces­san­te­men­te un suo­no gra­ve e mo­no­to­no. Non era vo­ce e nep­pu­re can­to, sol­tan­to un piat­to ron­zio si­mi­le a quel­lo di uno scia­me di ca­la­bro­ni.

    Don Astal­li ri­ma­se ac­car­toc­cia­to su sé stes­so, il vol­to na­sco­sto nel­la cop­pa del­le ma­ni av­viz­zi­te.

    Re­gi­na os­ser­vò la sce­na cer­can­do di non far­si con­fon­de­re. Ciò a cui sta­va as­si­sten­do era rea­le, pos­si­bi­le. Ciò che l’as­sa­lì den­tro, pe­rò, fu co­sì po­ten­te da far­la va­cil­la­re. La sua sto­ria ini­zia­va pro­prio da lì e por­ta­va il no­me di sua so­rel­la Ro­sa e di don Astal­li. Que­sto la ec­ci­ta­va. Sen­ti­va l’adre­na­li­na scor­rer­le nel­le ve­ne.

    Il car­di­na­le si vol­tò e po­sò lo sguar­do su di lei, co­me se la co­no­sces­se, co­me se la aspet­tas­se. Si fis­sa­ro­no. Re­gi­na so­sten­ne lo sguar­do del mi­ni­stro di Dio.

    An­che Don Astal­li sol­le­vò la te­sta e la fis­sò, udi­va il suo si­len­zio tra quel­la mol­ti­tu­di­ne di vo­ci. La guar­dò at­tra­ver­so gli oc­chi ve­la­ti da una pe­san­te ca­ta­rat­ta, in­si­nuan­do­si nel­la sua men­te co­me un’om­bra tos­si­ca.

    Re­gi­na si guar­dò in­tor­no, il gio­va­ne sa­cer­do­te non era più vi­ci­no al­la co­lon­na, non lo scor­se da nes­su­na par­te. Tut­ti te­ne­va­no gli oc­chi chiu­si e le lab­bra ser­ra­te. Quel­li che pri­ma si era­no agi­ta­ti era­no ca­du­ti in uno stra­no so­po­re, chi se­du­to al suo po­sto, chi sdra­ia­to per ter­ra, chi ran­nic­chia­to sull’in­gi­noc­chia­to­io.

    Per­ce­pì qua­si fi­si­ca­men­te il pe­so di qual­co­sa che cer­ca­va di schiac­ciar­la, le tre­ma­ro­no per un istan­te le gam­be. Ne eb­be ab­ba­stan­za, Re­gi­na pre­se la bor­sa che ave­va po­sa­to in ter­ra. Fe­ce il pri­mo pas­so per al­lon­ta­nar­si e l’uo­mo al suo fian­co le af­fer­rò il pol­so, strin­gen­do­lo for­te.

    «De­vi sta­re at­ten­ta. Tu sei co­me noi.»

    Gli die­de uno strat­to­ne, stac­can­do­si da quel­la stret­ta inop­por­tu­na.

    «Chi sei?» gli do­man­dò sen­za gen­ti­lez­za.

    «Non è im­por­tan­te chi io sia, ma chi sei tu.»

    Re­gi­na lo guar­dò in at­te­sa di una ri­spo­sta sen­sa­ta, cer­cò di man­te­ne­re un’espres­sio­ne so­li­da, ma gli oc­chi la tra­di­ro­no. L’uo­mo la fis­sò an­co­ra un istan­te e tor­nò al­la sua pre­ghie­ra.

    Una vol­ta usci­ta dal suo po­sto, Re­gi­na si ap­pog­giò a una co­lon­na e si im­po­se di ra­zio­na­liz­za­re.

    Non ave­va pau­ra, que­sto con­ti­nua­va a ri­pe­ter­si.

    Non ne ave­va avu­ta quan­do si era ar­ruo­la­ta, né du­ran­te tut­te le mis­sio­ni sot­to co­per­tu­ra, in­fil­tra­ta in una cel­lu­la ter­ro­ri­sti­ca a Stoc­col­ma o in mez­zo ai traf­fi­can­ti di Apo­ca­lyp­ti­ca. Non ave­va avu­to pau­ra a Nan­cy, quan­do ave­va sco­per­to la re­la­zio­ne di Erik con la lo­ro in­for­ma­tri­ce più at­ten­di­bi­le e, ac­ce­ca­ta di fu­ro­re, ave­va de­ci­so di an­dar­se­ne. E, no, non ave­va pau­ra di sco­va­re quel­la ve­ri­tà che era la zo­na d’om­bra del suo pas­sa­to e che in qual­che mo­do la le­ga­va all’an­zia­no pre­te che tre­ma­va nell’an­go­lo na­sco­sto die­tro l’al­ta­re.

    Le per­so­ne si di­spo­se­ro or­di­na­te su va­rie fi­le per ri­ce­ve­re il sa­cra­men­to eu­ca­ri­sti­co. Re­gi­na, sen­za esi­ta­zio­ne, si in­se­rì tra i fe­de­li.

    Don Astal­li, sor­ret­to dal so­li­to chie­ri­co, al­zò il pic­co­lo di­sco di ostia da­van­ti ai suoi oc­chi:

    «Il cor­po…»

    Re­gi­na non lo fe­ce par­la­re e gli rin­ghiò:

    «Io so chi sei.»

    L’ostia tre­mò nel­la ma­no del vec­chio: «Ti sta­va­mo aspet­tan­do da mol­to tem­po, an­che noi sap­pia­mo chi sei tu.»

    Re­gi­na, pie­na di rab­bia, gli vol­tò le spal­le e si al­lon­ta­nò. Men­tre cam­mi­na­va ve­lo­ce per rag­giun­ge­re il fon­do del­la ba­si­li­ca, in­con­trò di nuo­vo il gio­va­ne pre­te. Sta­va in pie­di a brac­cia con­ser­te e la guar­dò ap­pe­na, tor­nan­do a va­ga­re con lo sguar­do vi­gi­le sull’in­te­ra as­sem­blea di de­vo­ti.

    Al­la fi­ne del­la mes­sa, Re­gi­na s’in­fi­lò nel­la sa­cre­stia do­ve il car­di­na­le, aiu­ta­to da al­cu­ni gio­va­ni pre­ti, si sta­va spo­glian­do dei pa­ra­men­ti li­tur­gi­ci.

    «Emi­nen­za?»

    Il car­di­na­le Pa­trick Four­nier si vol­tò. Era un uo­mo cor­pu­len­to, sul­la set­tan­ti­na, con ca­pel­li e bar­ba briz­zo­la­ti. Il suo vol­to ave­va per­so l’au­ste­ri­tà di po­co pri­ma e ri­ve­la­va un’espres­sio­ne pa­ter­na e ac­co­glien­te.

    «Bel­li i ca­pel­li blu. Li ho no­ta­ti men­tre ce­le­bra­vo.» le sor­ri­se, am­mic­can­do al­le­gro. Re­gi­na fu cól­ta al­la sprov­vi­sta da un at­teg­gia­men­to co­sì con­fi­den­zia­le e umi­le. Gli por­se la ma­no: «Emi­nen­za, mi chia­mo Re­gi­na Pre­zio­so e so­no una gior­na­li­sta.»

    Lui l’af­fer­rò ca­lo­ro­sa­men­te: «Una re­gi­na sen­za un re?». Si sen­tì im­ba­raz­za­ta, ma ri­se in­sie­me a lui. «In che co­sa pos­so es­ser­le uti­le?»

    «Vor­rei po­ter­le par­la­re, se pos­si­bi­le.»

    «Cer­ta­men­te, chi so­no io per ne­gar­mi a una re­gi­na? Di che co­sa vor­reb­be par­la­re?»

    Oh, di un sac­co di co­se, sua Emi­nen­za. Per esem­pio, vor­rei sa­pe­re per­ché Astal­li era se­du­to die­tro di lei in­ve­ce che su una pi­ra ar­den­te. Ma­ga­ri an­che chia­ri­re i suoi rap­por­ti, pas­sa­ti e pre­sen­ti, con Her­man Sch­wai­tz. Che ruo­lo ha in tut­ta que­sta vi­cen­da?

    «So­no ve­re le co­se che fa­te qui?»

    Four­nier tras­se un lun­go so­spi­ro.

    «Qua­li co­se?»

    Re­gi­na lo guar­dò sen­za ri­spon­de­re, in at­te­sa.

    «Lei è cre­den­te?»

    Ci pen­sò un istan­te, pri­ma di ri­spon­der­gli, «Sì, cre­do di sì.»

    «O sì o no. Non esi­ste una via di mez­zo.»

    «Di­cia­mo che vo­glio met­te­re la ma­no

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