Perché non ascolti?
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Anteprima del libro
Perché non ascolti? - Gian Filippo Campagna
Gibran
I
La notte è buio.
Il buio confonde. Nasconde i confini, amalgama le forme.
Illumina le paure.
Milano, 11 gennaio
- Pronto…?! Sì sono qui, sono uscita adesso. Sì, un po’ in ritardo, ma ora sono fuori. -
I tacchi intanto spillavano il marciapiede scuro e il respiro, accorciandosi, seguiva:
- Ah... non ce la fai? Uffa, merda! Allora devo venire verso il Caffè?! -
Con un nervoso e impulsivo gesto di stizza la donna attaccò la comunicazione, chiudendo tra le dita il piccolo portatile.
Per essere nel mese di gennaio, in una città come Milano, quella notte non faceva freddo. Otto gradi e un cielo di stelle avrebbero messo chiunque di buon umore.
L’aria pareva accarezzata da lievi soffi salmastri, tanto da lasciar immaginare di poter trovare il lungomare a pochi passi da lì, dal centro storico della città.
Ma il lungomare non c’era, era soltanto una sottile percezione durata un frammento di tempo. Un soffio a intermittenza, come le falene che brillano per un istante nel buio, poi spariscono. Poi riappaiono e di nuovo scompaiono.
22:43. L'1 aveva appena lasciato dietro di sé due passeggeri chiassosi, alla fermata che precede corso di Porta Romana, dirigendosi entrambi in direzione di Palazzo Reale. Intanto la donna, avvolta nel suo lungo cappotto verde, sciancrato e stretto in vita da una cintura di panno, s’incamminava a lunghe falcate nella direzione opposta: verso la stazione.
Ad ogni passo risuonava forte l’elettrica cadenza della percussione dei tacchi. Alti, sottili, montati su una bella scarpa decolté lucida e nera. La donna è di mezza età, dai capelli dritti e color carota, tagliati a carré. È molto alta, lo sarebbe anche senza i tacchi.
I suoi occhi verdi e leggermente sporgenti puntavano come fanali distratti davanti a sé. Fanali distratti da nuvole di pensieri scuri, quelli che sovente illuminano una donna quando prepara la sfuriata. La ritorsione nei confronti di un uomo.
Non è una bella donna, ma lei non lo sa, si sente attraente e desiderabile, fasciata dal suo tailleur grigio, più esibizionista che sensuale.
- Che stronzo! Ma adesso mi sente! - bisbigliò Loretta, anticipando e caricando il morale con la violenza che di lì a poco avrebbe voluto scaricare sul suo accompagnatore impreciso.
Via Monte di Pietà si affacciò deserta e desolante. Continuò a camminare con passi nervosi, trasportando i suoi pensieri scuri.
Pochi minuti ancora, due, forse tre e sarebbe arrivata al Caffè del Conservatorio.
Il passo, poco a poco si fece più lento, quasi ad avvertire una presenza. Una premonizione.
Si voltò di scatto.
Un pallore spettrale conquistò immediatamente la sua espressione. Da quel momento i propri sensi furono rapiti dalla paura.
L'ago del terrore le era appena entrato nelle vene. Poco a poco stava percorrendo tutto il corpo, violentandolo, bruciandolo e gelandolo di angoscia.
Il cervello stava iniziando il proprio inconfessabile lavoro. Come un destriero fuggito dalla mandria scalpitava ossessivo. I polmoni raggomitolati su se stessi, come uniti in doppia sfera, si stavano gonfiando e soffocavano quella povera anima.
Pur avvolta dalla nebbia della paura, comprese che stava arrivando il conto da saldare. L'ultimo conto. Quello per cui durante tutta la vita si fugge, giocando sovente a esorcizzarlo, fingendo a volte, auto convincendosi, che non arrivi mai. Che non esista.
Loretta Penni vorrebbe urlare, ma la lingua è come fosse arrotolata e legata al palato con lo spago. Vorrebbe fuggire, ma il corpo è murato. Cementato a terra.
Una mano decisa e protetta da lunghi guanti neri, le ha già afferrato il polso, tirandola verso sé. Poi, quella stessa mano allentò di qualche centimetro lo spazio che li divideva, come una danza dai movimenti eleganti e sinuosi, come se il suo assassino le volesse concedere l’ultimo ballo. La presa sempre decisa, salda, troppo sicura, proiettava la padronanza che sgomenta e spaventa a morte. L’elasticità dei movimenti di quella nera figura sconcertò sempre di più la vittima, che nel frattempo con un mezzo respiro strozzato in gola aveva già affogato l’ultima speranza di salvezza.
Con la mano libera, l’assassino allentò la cerniera del giubbotto in pelle, mentre estraeva, con la torsione del polso, la lunga lama lucente di un rasoio. Poi la sua voce calma, armoniosa, quasi fosse un canto, sussurrò:
- Perché non ascolti? - E con il gesto preciso di un samurai, levando il braccio teso, percorse violentemente il fianco sinistro sopra la nuca della donna, recidendole l’orecchio.
La mano dell’assassino non mollò la preda e, ancora una volta, lo stesso movimento: allungò la distanza, poi con un colpo secco la tirò a sé roteandola con una mezza torsione e facendosi offrire le spalle su sé, proprio davanti al suo petto. A questo punto erano stretti, a contatto.
La povera donna stava sentendo l'odore del proprio carnefice. Un odore che probabilmente le sarebbe anche piaciuto. Forse perché era l'ultimo odore che i suoi sensi le stavano trasmettendo in vita. Era in qualche modo l’odore della vita che stava sfumando.
Ora l’assassino, il padrone del suo destino, decise di aver danzato abbastanza, di aver offerto già molto alla propria vittima e per chiudere la danza pronunciò per la seconda e ultima volta, con tono quasi pietoso e infantile, la stessa inquietante frase:
- Perché non ascolti? - e senza ricevere o conceder risposta, accompagnò il rasoio lungo la coscia, lo alzò e lo accompagnò con determinata perfezione. La sua mano esperta lo affondò quanto bastava nella gola della donna.
Il lungo corpo agonizzante si accasciò sul selciato.
E l’ombra nera dai passi silenti svanì, facendosi accogliere dal mantello della notte.
II
23:16 Via Monte di Pietà era illuminata a giorno.
I lampeggianti azzurri e i fanali arancioni della polizia rimbalzavano contro i muri e le facce intorno.
Un lenzuolo bianco copriva il corpo senza vita di Loretta Penni, cinquantadue anni, impiegata delle poste.
Intorno alla vittima, decine di uniformi si sbracciavano e tenevano lontano i curiosi, qualcuno tentava di far rientrare dai balconi gli abitanti dei caseggiati barocchi della via.
Da una Citroen C 3 nera, scesero due uomini dai volti tirati e decisi. Dallo sportello di guida l’ispettore capo della squadra mobile, Gabriele Conti, dall’altro il commissario Jean Claude Verri, detto Geko. Un uomo brizzolato, poco più che quarantenne, di altezza media e dallo sguardo sanguigno, che rifletteva le sue origini della Francia del sud.
Cos’è questo bordello? - espresse immediatamente l’ispettore. Un uomo alto e asciutto sui trent’anni, dai lineamenti eleganti e mediterranei. I capelli castani, lunghi e scomposti alla maniera delle rock star ne accrescevano il fascino ribelle.
La prima cosa che credette di pensare di fronte a quello scempio fu quella di non voler mai essere stato lì. A due passi da un cadavere conciato in quella maniera. Con un’anima che forse le danzava ancora intorno. Mentre l’altro intorno, quello di chi è al di fuori, a dieci, venti metri da lui, stava inscenando tutta la propria superficiale mediocrità. Tutto quello che agli uomini non tocca direttamente diventa di per sé un fatto di cronaca senza scala d’importanza. Quindi un omicidio, una partita di calcio o un cane con una zampa intrappolata in un reticolo diventano soggetti equiparabili al solo fine di raccontare, accavallare pareri e opinioni. Annaffiate da curiosità e ineluttabili certezze.
- Non ci posso credere! Non ho mai visto una scena simile! -
Mimetizzando il proprio sconvolgimento, alzò il suo sguardo perentorio, al cospetto degli astanti appollaiati come colombi curiosi sui propri balconi.
- Lei! Mi apra il portone grazie, così facciamo conoscenza! - intimò a un uomo sulla sessantina piuttosto grasso e con una sola vestaglia di vecchia fattura poggiata sul pesante corpo.
L’uomo, in quel momento reso singolo tra la folla, avvertì un senso di debolezza. Non era più protetto dalla massa. Gli tremarono le gambe, come chi è chiamato sul palco a fronteggiare un oceano di teste e di occhi. Deglutendo saliva e imbarazzo bofonchiò:
- No, ma io ero solo qui a… -
Conti non poteva certo sentirlo ma, come se stesse immaginando lo stato di quell’essere, interruppe il pensiero ad alta voce dell’inquilino. Fu imperativo:
- Rientri e apra! -
Poi si rivolse ai suoi:
- Marcucci, Fraci, Tommasi, fatevi i pari, io salgo con De Carri da questa sponda. -
Così dicendo, si sbottonò il vissuto Schott di pelle castana con un rapido gesto, come gli atleti della panchina richiamati dal mister a entrare in campo.
Intanto il commissario Verri, poliziotto esperto, uomo d’azione impegnato sempre in prima linea nelle indagini più pericolose e delicate, alzando il colletto della propria giacca a vento blu, si passò un paio di volte i polpastrelli lungo la curata barba cenerina, come a cercare risposte a un mare di domande.
- Ma che roba è questa... a Milano non è mai accaduta una cosa del genere! Questa roba non è l’opera di un malvivente, non è il tossico o lo scippatore allupato del quartiere, questa è un’altra cosa! Gabriele, hai visto? A terra c’è l’orecchio della vittima, quel porco l’ha impacchettato come fosse un regalo. Cazzo! -
S’interruppe qualche secondo, come se si fosse sconnesso da quel macabro incontro.
Poi riprese:
- Dannazione, che scempio è questo. -
Si chiusero di nuovo in un momento indecifrabile di silenzio. Poteva essere un secondo, un minuto o dieci.
Il tempo, come un assassino, sovente è capace di far perdere le proprie tracce.
La voce del commissario, masticando amarezza e sconforto, riprese:
- Suppongo si debba andare a svegliare il nostro amico psichiatra.-
- Ok. Che cosa dici aspettiamo la scientifica e la squadra di Bruni?- seguitò incalzante il giovane collega.
- Sì, voglio che nessuno metta il naso intorno a quella poveretta.-
- Ok, io nel frattempo vado con Piero a fare una prima ricezione di nominativi per le testimonianze. Quando arrivano gli scienziati avvisami.-
E così dicendo, l’intrepido ispettore si diresse con falcate rapide verso il portone in legno lucido e chiaro del numero 31 di via Monte di Pietà.
Intorno pareva di confondere la realtà con la finzione. Molti credevano si stesse sul set di qualche cineasta internazionale, mai come questi ultimi anni così sovente ospiti in città con le loro troupe.
Il commissario Verri, consumando i minuti per l’attesa degli esperti della squadra scientifica, passeggiava inquieto come uno studente nell’atrio che precede l’aula delle interrogazioni. Masticando un chewingum si arrovellava su questo straordinario e misterioso avvenimento. Da sempre Jean Claude nelle sue indagini dava molta importanza alla cura dei primi sopralluoghi, quelli che avevano appena preceduto il consumarsi del crimine. Sostenitore convinto che quando il luogo è ancora caldo
possa comunicare molto più di quanto si possa immaginare. Quindi come una tigre in cerca delle sue prede, il commissario, dondolandosi a testa china, cercava di assimilare e immagazzinare il maggior numero di dati e intuizioni che potevano presentarsi ai suoi occhi.
Alzò le sue pupille cerulee, distratto dal sopraggiungere di un furgone bianco, poco dopo di fronte a sé si stagliò l’imponente figura del dottor Bruni, capo della sezione scientifica.
- Ciao Jean Claude, siamo a disposizione -
- Bene, ho circoscritto la vostra zona di competenza, dando disposizione assoluta di non intromissione. Ora tocca a voi - aggiunse inarcando il suo sguardo verso il suo esperto interlocutore che lo sovrastava di almeno quindici centimetri.
Nel frattempo Gabriele e De Carri gli si fecero incontro, avendo ultimato la ricca e minuziosa compilazione di tutti i nominativi presenti negli appartamenti del caseggiato appena ispezionato.
- Bene Geko, tanti curiosi, nessun testimone, vecchia regola del buon vicinato-
- Che strano dai…stai scherzando, vero? Non l’avrei mai detto…- ribatté ironico Verri.
- Abbiamo già provveduto a far sistemare diversi posti di blocco intorno alla stazione e alle uscite della città. - aggiunse serio Piero risistemandosi il berretto dei Chicago Bears calato sulla chioma scura e riccioluta.
- Ottimo Piero. Telecamere? Quante e dove? -
- Ne ho contate sei di privati. Cinque negozi e una banca, che potrebbero…- fu interrotto.
- Ok, occupati di confrontarle con le nostre e con la mappatura che abbiamo in ufficio. -
- Domattina mi occupo io di inoltrare le richieste di visione ed estrazione dei filmati. - sottolineò l’ispettore Conti.
- Bene. -
Gli occhi del commissario si voltarono, come a cercare qualcosa di indefinito. In un luogo lontano, nel luogo più buio, dove i confini si confondono.
Fece tre passi ed altri tre, allontanandosi dai suoi interlocutori, poi si voltò:
- Piero. -
- Dimmi capo. -
- Prova a repertare il maggior numero di indizi e di nominativi, non ti far scappare nulla mi raccomando. Noi andiamo a far visita al nostro amato squartatore di cervelli. -
Le gomme stridendo lasciarono sul grigio asfalto i segni della partenza in contromano in direzione di via Torino, poi giù in corso Italia, fino al monumento e ancora dopo fino a incrociare viale Beatrice d'Este.
Nella lucente notte milanese era scesa d’improvviso la neve. Il silenzio calava nelle menti e nei cuori dei due poliziotti. Si avvertiva palpabile quel gusto acre del primo colpo subito, ma che ancor più drammaticamente anticipava l’irrazionale certezza che altri ne sarebbero arrivati.
- Geko, ma te la immagini la faccia di quel pazzo di Jack, quando ci vedrà violare l’ingresso di casa sua? Per lui a quest’ora è notte fonda. - disse l’ispettore tagliando con un sorriso il lungo silenzio che