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Io sono Cronoman
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E-book367 pagine4 ore

Io sono Cronoman

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Fantascienza - romanzo (256 pagine) - Occorrerà correre più veloce delle stelle...


Dante crede di non avere più nulla da perdere.

Sua moglie lo ha lasciato, sua figlia lo considera un idiota.

Ha perso il lavoro e anche la dignità.

Ha sacrificato ogni cosa per poter inseguire il suo sogno: manipolare il tempo, sfruttarlo a proprio vantaggio.

E c’è un solo modo per riuscirci: il Cronoguanto.

Un’invenzione rivoluzionaria, geniale, in grado di offrirgli possibilità infinite, fortuna e gloria!

Ma sinistri presagi incombono sulla sua scoperta. Saltare nel tempo è un viaggio senza ritorno in cui ogni piccolo dettaglio può complottare per la distruzione.

Uno scienziato invidioso, un criminale spietato, i Servizi Segreti… sono in molti a cui fa gola l’idea di poter padroneggiare il tempo. Dante scoprirà ben presto che ciò che ha di più caro sta per essere messo in discussione e che il Cronoguanto diventerà una vera e propria maledizione in grado di spazzare via passato, presente e futuro.

Dalle giungle tropicali della preistoria ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, fino a raggiungere un futuro remoto devastato da eterne battaglie e dal buio atomico, Dante viaggerà senza tregua per tentare di salvare la donna che ama.

Avrà bisogno di tutta la sua forza e di tutto il suo coraggio. Dovrà correre più veloce di chiunque altro e andare più lontano delle stelle per cambiare il proprio destino e regalare un nuovo giorno al suo mondo.

Solo lui può farcela, perché solo lui è Cronoman!


Laureato in lettere, Andrea Valeri si occupa di musica, scrittura di racconti, romanzi, poesie, sceneggiature per cortometraggi. Ha collaborato con diverse webzine scrivendo recensioni e interviste nell’ambito della musica dark, rock, metal e cinema (Zeromagazine.it, Negatron.it, N-core). Ha condotto un programma radiofonico, Chaos Party, che trasmetteva musica dark, rock e metal interessandosi di realtà locali e gruppi esordienti. È entrato a far parte dell’antologia I Mondi del Fantasy per la Limana Umanita Edizioni. Ha partecipato al progetto “Serial Writers” sponsorizzato da Mediaset per la creazione di una fiction da proporre su La5. È stato segnalato al premio Algernon Blackwood 2014, finalista al premio Giallolatino 2015 e al premio Segretissimo Mondadori 2017. I suoi thriller erotici sono usciti per i tipi della Delos Digital, nella collana Dream Force. Si è cimentato anche con il western, pubblicando una saga in cinque episodi, Gold Creek, e con il mondo dei pirati ne I Pirati della Black Keel. Recentemente è uscito il suo romanzo Il Sole di Ferro sempre per Delos Digital.

LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2020
ISBN9788825412826
Io sono Cronoman

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    Anteprima del libro

    Io sono Cronoman - Andrea Valeri

    9788825410129

    We all have our time machines, don’t we?

    Those that take us back are Memories,

    those that carry us forward are Dreams.

    H. G. Wells

    Prologo

    Se una cosa deve andare storta stai sicuro che ci andrà

    23 giugno 2016, ore 12.03

    Le lancette ticchettavano, scandendo i secondi dell’orologio sulla parete. Ogni istante risuonava come la nota grave di un pianoforte.

    – Resta immobile, puttana!

    La frase venne sputata con accento slavo da uno dei tre rapinatori penetrati quella mattina nella filiale del Banco di Credito Reatino. Doveva essere il capo della batteria d’assalto visto che era lui a sbraitare ordini e soprattutto ad agitare un minaccioso AK-47.

    A Rieti, in Piazza della Lira, proprio di fronte alla banca, si era radunata una folla di curiosi dietro al cordone protettivo posizionato dalla polizia.

    Gli agenti stazionavano dietro le auto coi lampeggianti accesi e le mani sulle pistole. Sembravano, però, tutti indecisi sul da farsi: la situazione appariva piuttosto grave.

    I tre uomini si erano introdotti all’interno dell’istituto coi passamontagna abbassati e le armi in pugno. Non era chiaro come avessero fatto, ma ora avevano sette ostaggi e stavano perdendo il controllo.

    Lo slavo sembrava irrequieto come una pantera in trappola. Doveva aver assunto droghe in quantità.

    – Tu! – E indicò una donna con l’aria spaurita, nascosta dietro una scrivania, che non smetteva di fissarlo con occhi sgranati. – Che cazzo guardi?

    La canna del fucile mitragliatore si spostò verso di lei in modo poco rassicurante. Uno degli altri due criminali prese lo slavo per un braccio.

    – Lasciala stare! Seguiamo il piano! – disse cercando di farlo ragionare. Ma lui reagì spintonandolo.

    – Non dirmi quello che devo fare!

    La donna, sopraffatta dalla tensione, lanciò un grido rauco e fu la molla che spinse lo slavo a dare il peggio di sé.

    La raffica di mitra spazzò la scrivania come una grandinata d’acciaio, massacrando la donna e altri due impiegati e scatenando una selva di urla, strepiti, terrore e panico assortito.

    Uno dei poliziotti all’esterno fece fuoco, costringendo i rapinatori a cercare riparo in un’orgia di vetri infranti.

    Un cecchino, appostato sul tetto dell’edificio più alto, esplose un colpo che attraversò la spalla dello slavo schizzando un ventaglio di sangue sui clienti stesi a terra.

    Il terzo rapinatore, l’unico a essere rimasto passivo, scivolò sul pavimento, strisciando verso l’interno della banca. Si infilò in uno dei bagni e si sedette sulla tazza. Si sfilò il passamontagna. Il tessuto gli si appiccicava sul volto per via del sudore copioso e ansimava terrorizzato.

    Dante era un fisico teorico, non un criminale.

    Quello che stava accadendo sfuggiva al suo controllo.

    Si toccò il volto. Ritrasse le dita sporche di rosso. Qualche scheggia di vetro doveva averlo ferito.

    Alzò la manica sinistra del giubbetto, rivelando la complessa struttura meccanica del guanto che indossava. La sua àncora di salvezza.

    Sentì altri spari, altre urla.

    Cercò di normalizzare il respiro, senza riuscirci.

    Doveva partire, partire adesso.

    Sollevò in verticale l’avambraccio davanti a sé, la mano stretta a pugno.

    Power on! – esclamò con scarsa convinzione.

    Aspettò qualche istante ma non accadde nulla. Il guanto mandava sfrigolii sospetti. Doveva averlo urtato, rompendo alcuni circuiti.

    Era bloccato in quel luogo ma soprattutto in quel tempo.

    – Cazzo, cazzo, cazzo! – sbottò.

    1

    Il Caos vince sempre

    20 maggio 2016, ore 15.31

    Trecentomila chilometri al secondo.

    Una velocità troppo bassa.

    A questo pensava Dante De Santis facendo roteare la sua poltroncina girevole. Accartocciò un foglio di carta e lo gettò nel cestino mancando il bersaglio. C’erano mucchi di cartacce ovunque, ma lui non si preoccupava di pulire; la sua mente era proiettata oltre e lo dimostrava l’intero ambiente che lo circondava.

    Viveva da qualche anno in un ex officina meccanica trasformata in un loft nella periferia industriale di Rieti. Apparteneva a suo padre, Sergio, e Dante l’aveva riadattata ad abitazione dopo il divorzio da sua moglie Greta.

    Il caos che dimorava lì dentro era la testimonianza tangibile di un’entropia crescente: televisori e apparecchiature elettroniche ovunque, alcuni erano accatastati su mensole, altro ciarpame creava un disordinato assembramento in un angolo dell’unica, immensa, sala da cui era composto l’edificio.

    Accanto alla sua workstation con una scrivania enorme coperta da fogli di appunti e centinaia di post-it appesi dappertutto, si ergeva un lavagna di grafite, decorata con una fitta trama di formule matematiche vergate col gesso. Orologi dalle fogge più svariate erano appesi alle pareti, sia nell’angolo adibito a cucina, sia nella zona con il letto e la vecchia poltrona sfondata posta di fronte al grande televisore a tubo catodico quasi sempre spento.

    Rimuginando tra sé, Dante afferrò i vecchi appunti appartenuti a suo nonno, Annibale De Santis, rinvenuti fra le sue cose dopo la morte, e si alzò in piedi. Sergio aveva rischiato di buttarli insieme a libri tarlati e quaderni polverosi mentre ripuliva la cantina del palazzo in cui aveva vissuto l’arzillo vecchietto, ingegnere e donnaiolo, appassionato di bocce, deceduto a quasi cent’anni dopo una vita piena e soddisfacente.

    Dante aveva dato una mano durante il trasloco e aveva trovato quegli appunti, corredati da disegni nitidi e precisi, tenuti insieme all’interno di una cartellina con su scritto in grafia elegante Progetto Artefatto Cronografico. Incuriosito, aveva trattenuto i documenti senza avere la benché minima idea di quello che contenessero.

    Mollò i fogli accanto alla tastiera del pc e si avvicinò al bancone da lavoro dall’altro lato del loft.

    Da quando era stato cacciato dall’università, per campare si arrangiava a effettuare piccoli lavoretti per Lao Fong, un cinese che gestiva un negozio di cianfrusaglie in Viale Matteucci. Tv, piccoli elettrodomestici, computer, decespugliatori, motoseghe: Dante aggiustava un po’ di tutto. Aveva sempre posseduto una certa manualità. Da un lavoro di fisico teorico era passato a un lavoro fisico vero e proprio che, tuttavia, gli permetteva di liberare la mente quando era alle prese con un teorema complesso da decifrare o allorché elaborava una teoria che lo impensieriva.

    Sebbene Fong fosse uno strozzino che si approfittava di lui pagandolo una miseria, era anche colui che era in grado di fornirgli sotto banco qualsiasi tipo di attrezzatura potesse tornargli utile per le sue ricerche.

    Gli occhi scivolarono sulla mensola su cui facevano sfoggio le misteriose creazioni di cui andava più fiero. Guanti meccanici infilati negli avambracci di plastica di un manichino e posizionati a testimoniare i vari stadi di sviluppo dell’invenzione che avrebbe rivoluzionato il mondo intero. S’incantò a fissare quei congegni e perse la nozione del tempo, come gli accadeva spesso, fin da quando era bambino e sua madre doveva scuoterlo per riuscire a farsi ascoltare.

    Marty gli passò tra le gambe, rischiando di farlo cadere. Dante si riscosse grazie al piccolo Jack Russell dall’aria vispa che viveva insieme a lui.

    Marty mugolò, ruotando il capo come per suggerirgli che forse aveva un impegno di cui si era dimenticato.

    Gli orologi sulle pareti segnavano tutti lo stesso orario: le 15.45.

    Dante imprecò. L’appuntamento con Martina, sua figlia, era per le 16. Aveva poco tempo ma poteva ancora farcela. Il cane lo osservava con aria sconsolata. Era un caso disperato. Correndo di qua e di là, spense il computer, controllò il gas, inciampò nella carcassa di un monitor IBM, infilò la felpa, allacciò le scarpe. Tentò di rimettere a posto una pila di libri che aveva appena urtato ma poi si guardò intorno. Non vide nulla di ordinato e si ricordò del secondo principio della termodinamica: qualunque sistema evolve spontaneamente verso lo stato di massimo disordine.

    Perciò lasciò i libri sul pavimento, si avventò sulla bicicletta appoggiata alla parete e uscì dal loft.

    Non aveva molto tempo.

    2

    L’amore non è una linea retta

    Ore 16.02

    La mountain bike era un vecchio modello ma Dante ci era affezionato e la usava spesso.

    Aveva messo le cuffie e acceso l’ipod.

    Thine, Running.

    Era uscito in strada, una traversa di via Benito Graziani, circondato da un panorama desolante di capannoni industriali abbandonati e attività che arrancavano per superare il periodo di crisi. Superò una carrozzeria e pedalò con una certa foga. Raggiunse il bivio con la Salaria per L’Aquila e la imboccò in direzione di Rieti.

    Le auto gli sfrecciavano tutt’intorno ma a lui non importava. Sentire l’aria sul volto e fra i capelli gli dava una sensazione di libertà che non aveva prezzo.

    Accelerò l’andatura, superando alcune delle fabbriche che anni prima avevano dato lustro alla città e che ora rappresentavano il fallimento di una politica miope, pronta a svendere i suoi gioielli.

    Oltrepassò lo svincolo per la superstrada e proseguì fino a raggiungere il semaforo di Porta d’Arci. La torre massiccia rappresentava una delle principali opere di fortificazione risalenti all’epoca romana. Dante costeggiò le imponenti mura medievali, percorrendo viale Morroni. Sfilò accanto alle auto parcheggiate e svicolò nel traffico al semaforo pedonale di Porta Conca, un altro dei vantaggi di muoversi in bicicletta.

    Arrivò alla rotatoria di Piazza Marconi e rischiò di farsi investire da un’auto che non aveva rispettato la precedenza. Continuò la sua corsa in via dei Flavi, passò sul marciapiede, zigzagando fra le asperità dell’asfalto. Le radici dei tigli rigogliosi che crescevano sui bordi avevano deformato il manto stradale rendendolo pieno di gobbe, come il dorso cosparso di bolle di una focaccia appena sfornata.

    Frenò bruscamente accanto a un’elegante recinzione in ferro battuto e una signora che passava lì accanto sobbalzò, temendo di essere investita. Dante la ignorò e tirò fuori un vecchio cronometro da gara. Stoppò il timer e si complimentò con se stesso. Aveva quarantacinque anni ma riusciva ancora a mantenere un buon ritmo. Trattenendo il fiatone, smontò dalla mountain bike.

    Era arrivato di fronte a una villa elegante che sorgeva all’interno di un ampio giardino recintato. Era una delle zone prestigiose della città, dominata da edifici antichi e palazzine liberty.

    Stava per suonare il campanello, quando si accorse che qualcuno si stava muovendo sotto il grande abete che troneggiava sulla casa.

    C’era una ragazzina affaccendata che sbuffava, borbottando parole poco adatte a un’adolescente.

    La bicicletta era indubbiamente più pesante di lei.

    Dante sorrise poggiandosi alla cancellata. Martina, sua figlia, era una tredicenne molto determinata e quando voleva qualcosa era sempre l’ultima a cedere. Anche adesso, mentre tentava di trascinare fuori dalla cantina la sua bici che rischiava di travolgerla e farla cadere giù per le scale.

    – Così ti fai male – l’avvertì Dante.

    – Se non faccio male prima io a lei.

    Al sentire la voce del padre, Martina aveva mollato la bici, lasciandola precipitare nello scantinato con un forte trambusto. Poi era corsa fra le siepi curate del giardino e si era avvicinata al cancello per aprirlo.

    – Libera un povero prigioniero! – scherzò Dante aggrappato alle sbarre.

    – Papà, semmai sono io che devo essere liberata! – esclamò spalancando il cancello.

    Lui si fece avanti e provò a fare il gesto di abbracciarla per darle un bacio, ma Martina si era già voltata, determinata a riprendere la questione della bicicletta piombata in cantina.

    Martina era minuta per la sua età ma anche piuttosto aggraziata. Il suo valore aggiunto era un delizioso visino da furetto illuminato da due occhi intelligenti che spiccavano sotto un caschetto di capelli castani.

    Dante la osservava camminare tra le aiuole e sembrò accorgersi solo in quel momento di quanto fosse cresciuta. Era talmente sovrappensiero, distratto dal suo lavoro, che si stava perdendo le esperienze più belle e importanti della sua bambina.

    Mentre pensava, quasi inciampò in una delle siepi di bosso del giardino all’italiana.

    – Papà, attento a non cadere!

    Dante si bloccò e cominciò a guardarsi intorno con aria perplessa.

    – Che fai, prendi il sole? – domandò ironica Martina che, evidentemente, si aspettava un aiuto.

    – Tua madre non c’è?

    – Sì, è dentro – replicò annoiata. Non sembrava molto felice di parlare della madre. – Lui invece non c’è.

    – Meglio.

    – Pensavo volessi incontrarlo…

    – Chi? Gualtiero? Figuriamoci! – E alzò la mano come a scacciare qualcosa. Fece per scendere in cantina e recuperare la bicicletta, poi alzò di nuovo lo sguardo. – Con lui come va, ti tratta bene?

    – È gentile. Mi ha comprato un i-phone, guarda! – Tirò fuori dalla borsetta lo smartphone e glielo mostrò raggiante.

    – Altro che paghetta. – borbottò Dante trascinando in superficie la bicicletta.

    – E questo fine settimana si va a fare shopping!

    – Adesso comincio a capire perché a tua madre piaccia tanto quell’idiota.

    Martina continuò a parlare senza considerare i commenti del padre: – Così quando andrò con Jessica a vedere il concerto di fine anno scolastico…

    – Il concerto di fine anno scolastico?! – Dante pronunciò quelle parole con aria a dir poco contrariata. – E chi ti ha dato il permesso?

    – Sono stata io.

    A parlare era stata una donna elegante apparsa nel balcone che dava sul giardino. Capelli biondi sparsi sulle spalle, occhi penetranti che mettevano soggezione, bocca sottile e volitiva, Greta non era una persona che lasciava indifferenti. O la si amava o la si odiava. E Dante aveva commesso lo sbaglio di propendere per la seconda opzione.

    La loro storia d’amore era finita quando lui non era più riuscito a garantirle il tenore di vita che lei riteneva più consono a se stessa.

    Quando Dante aveva perso la sua cattedra ed era stato costretto a reinventare la sua vita, aveva preferito mollarlo alle sue ossessioni e cedere alle avances di Gualtiero Tesconi, collega di Dante e preside della facoltà di fisica dell’università La Sapienza di Roma.

    – Quindi non conto più nulla. – sbottò lui rivolto alla ex moglie.

    – Tu non hai mai contato molto per noi – replicò Greta con durezza. Poi continuò ironica. – A te interessano solo la fisica quantistica, i viaggi nel tempo, no?

    – Se potessi, tornerei indietro ed eviterei di sposarti.

    – Piuttosto: quando ti comprerai un’auto? – E indicò la bici.

    – A me piace pedalare – rispose lui, orgoglioso.

    – Sei in ritardo sulla quota mensile per tua figlia.

    Dante ruminò una maledizione dentro di sé. Era l’ennesima umiliazione che doveva ingoiare di fronte a Martina. Tipico di Greta utilizzare i suoi problemi economici per screditarlo davanti a sua figlia.

    – Sta’ tranquilla. Ti ho messo metà dei soldi nella buca delle lettere. Mancano solo gli arretrati.

    Aveva lavorato notte e giorno nelle ultime settimane per racimolare il denaro, non poteva dargliela vinta.

    – La prossima volta cerca di essere puntuale – lo rimbrottò lei con aria annoiata. – Il tempo è denaro.

    – Parole sante.

    – Potete piantarla? – sospirò Martina esasperata. – Vorrei precisare che sono stanca di sentirvi litigare. – Si voltò verso la madre. – Basta parlare sempre e solo di soldi. – Poi fu la volta del padre. – E, per la cronaca, andrò al concerto.

    – Non è colpa mia se tuo padre è un fallito. – esclamò Greta, acida.

    – Meglio essere falliti che campare alle spalle degli altri.

    – Lo state facendo di nuovo! – strepitò Martina infastidita, alzando la bici.

    – Cosa? – chiesero entrambi i genitori all’unisono.

    La ragazzina non li ascoltò e si allontanò verso il cancello. Dante si affrettò a seguirla.

    – Dovete tornare entro le sette! – gli gridò dietro Greta.

    Una vecchietta con un bizzarro cappellino di paglia se ne stava seduta su una sedia di vimini a godersi il primo sole primaverile. Al vedere Dante lo salutò con un cenno della mano. Lui ricambiò il saluto e la donna ridacchiò con aria svanita.

    Silvana era l’ultranovantenne bisnonna di Martina e da tempo era malata di Alzheimer.

    – La posta è arrivata?

    – La posta? – rispose, confuso, Dante. – Credo di no.

    – Peccato. Aspettavo notizie di mio marito. Lo sa, caro Nicola, che è disperso in Africa da più di sei mesi?

    – Signora non mi chiamo Nicola, io…

    Ma lei continuò imperterrita.

    – Il Duce è fiducioso. Pare che vinceremo la guerra. Lei, Nicola, cosa ne pensa?

    – Io credo che la perderemo.

    – Suvvia, non sia disfattista, caro Nicola, il Fuhrer è un così bell’uomo! – La vecchietta sorrise leziosa.

    – Oddio, ho una nonna nazista! – esclamò Martina alzando gli occhi al cielo.

    – Signorinella, le servette non dovrebbero esprimersi in questi termini! – disse Silvana con una smorfia di disgusto.

    – Nonna, io non sono una servetta, la guerra è finita, il nonno è morto e il Duce pure! – sbottò Martina con sufficienza.

    Dante si sentiva a disagio in quella situazione imbarazzante e, come al solito, non sapeva come trarsi d’impaccio.

    Silvana lo chiamava sempre Nicola e nessuno aveva mai capito con chi lo scambiasse. Per lei la guerra non era mai finita, anche se a vederla lì, col cappellino in testa, vestita come una ricca possidente dei primi del Novecento, non lo si sarebbe mai detto.

    – Portami una spremuta d’arance, Clizia, che presto verranno a bombardare e non voglio perdermi lo spettacolo.

    – Andiamo, papà. – tagliò corto Martina tornando verso il cancello.

    Gli occhi azzurri di Silvana, infossati in una complessa trama di rughe, ora sembravano incredibilmente lucidi.

    – Sta per iniziare e non finirà.

    – Che cosa sta per iniziare? – Dante non poté fare a meno di chiederglielo.

    – Partirai per un viaggio che ti porterà lontano, più di quanto immagini. E non tornerai più indietro.

    Era come se sapesse cose che non avrebbe potuto sapere.

    Detto questo, Silvana sembrò tornare alla sua consueta follia, sgranò gli occhi e fissò il cielo in cerca dei bombardieri.

    Dante si allontanò con una sensazione di disagio a strisciare sulla pelle, quasi che un oscuro presagio fosse esalato dalle labbra avvizzite di quella anziana bislacca. Saltò in bici e seguì sua figlia verso la pista ciclabile che tracciava il perimetro della pianura reatina. Costeggiarono la ferrovia, attraversarono il ponte di ferro che sovrastava il fiume Velino e imboccarono la stretta corsia di asfalto rossiccio che si addentrava fra i campi coltivati e i prati verdeggianti.

    Le parole di Silvana gli rimbalzavano ancora in testa.

    Qual era il viaggio più grande che si potesse compiere?

    Il tempo era il viaggio più importante. Su questo non c’era dubbio.

    E il tempo era come l’amore.

    Non una linea retta tra due punti, A e B, bensì una striscia fatta di curve, dossi e passaggi tortuosi come la pista ciclabile, un percorso d’un rosso sbiadito che serpeggiava per la pianura.

    – Papà, perché non ti trovi un’altra compagna?

    La domanda improvvisa di Martina lo spiazzò, facendo svanire tutte le sue elucubrazioni filosofiche.

    – Beh, non è così semplice.

    Dante non se la sentiva ancora di rivelare a sua figlia che c’era già un’altra donna. Si chiamava Lea ed era un’insegnante di lettere al liceo. Ma era tutto troppo prematuro. Ci sarebbe stato tempo per discuterne.

    Tempo. Ogni cosa girava intorno a quel concetto puro e semplice.

    – Cominci a essere anziano, papà. – Martina aveva parlato con tono di rimprovero. – Se continui così, non troverai più una donna giusta per te.

    – Ehi, non lo sai che gli uomini diventano più affascinanti quando invecchiano?

    – Il padre di Jessica è vecchio e brutto. – replicò Martina, spietata, anche se non avrebbe voluto esserlo.

    Dante sorrise, gli piaceva parlare con lei, sentire che si preoccupava per lui. Cambiò marcia e accelerò l’andatura.

    – Vediamo se riesci a superarmi!

    La ragazzina sbuffò, le guance arrossate per la fatica, e arrancò dietro al padre.

    Il sole scivolava lento dietro la cresta dei monti e Dante si ritrovò a pensare che quello era il tempo migliore.

    Il tempo speso a crescere insieme ai propri figli.

    3

    Blue Note

    Ore 20.38

    La carne sfrigolava sulla griglia mandando un piacevole afrore. Braciole di maiale, salsicce e costolette, rosolavano all’aria aperta.

    Dante affrontava con stoico ardore la sfida contro il fumo del barbecue, utilizzando un lungo forchettone per orchestrare il balletto delle cibarie sulle braci luminose.

    Si era sistemato all’esterno del suo loft improvvisato, sullo spiazzo di cemento che circondava il capannone, fra i rottami di due auto e una piccola baracca che fungeva da magazzino. Marty si era accoccolato a fissarlo, la bava alla bocca e la lingua penzolante che arrivava a toccare terra. Se si fosse comportato bene, ci sarebbe stato un bel boccone anche per lui.

    – No, così farai bruciare tutto!

    Sergio si fece avanti e strappò il forchettone di mano a suo figlio, costringendolo a farsi da parte.

    – Devi girarle più spesso o mangeremo carbone stasera.

    Dante alzò le mani in un gesto di resa. Cucinare non era mai stato il suo forte. E poi non era abbastanza in forma per gestire un duello verbale con quella forza della natura che rispondeva al nome di suo padre.

    Sergio era un uomo ben piantato, con corti capelli bianchi, mascella quadrata e occhi severi. Aveva mani grandi, abituate a smontare i macchinari della sua officina e non temeva affatto la griglia rovente che aveva davanti.

    Dante andò a sedersi su una delle tre poltrone sfondate che, insieme a un vecchio tavolino, formavano la bizzarra riproduzione di uno scalcinato salotto all’aperto. Di fronte a lui se ne stava stravaccato un ragazzo alto e magrissimo, dall’aria allampanata e un obliquo taglio d’occhi che lo rendeva estremamente malinconico. Carlo, suo fratello minore, era abituato a ignorare il padre quando voleva avere l’ultima parola su qualsiasi discorso. Si limitò perciò a non fare commenti sulla cucina e stese una bottiglia di birra al fratello.

    Dante la sorseggiò pensando che l’estate era arrivata precocemente, portando una serata afosa come quella, con il canto dei grilli che ristagnava nell’aria immobile.

    – La carne va trattata con decisione. Bisogna sbatterla da un lato, poi dall’altro. Bisogna sapere quando spostarla e quando lasciarla cuocere, ma soprattutto… – E qui fece una pausa ad effetto, senza rendersi conto che i figli non lo stavano calcolando. – Bisogna capire quando è il momento di tirarla fuori dalla griglia.

    Così dicendo, Sergio iniziò a rovesciare le braciole su un vassoio di metallo.

    Dante bevve una sorsata di birra e fece un cenno al fratello: – Come vanno i concerti?

    – Avrò un’estate bella piena. – rispose Carlo con gli occhi rivolti al cielo buio.

    – Allora una sera voglio venire a vederti. – esclamò Sergio, posando la carne sul tavolino centrale.

    – Non so se sarà possibile – si scusò Carlo con voce flebile. – Purtroppo i biglietti sono stati quasi tutti venduti.

    – Accidenti! Un successone! – commentò Dante servendosi una salsiccia.

    Carlo era stato un sassofonista abbastanza famoso nell’ambiente fumoso del jazz.

    Molti anni prima, fresco di studi al conservatorio, aveva girato l’America insieme a un ensemble di free jazz, riscuotendo un discreto successo. Poi c’era stato un periodo buio, la caduta nel baratro della depressione e, soprattutto, l’abuso di droghe.

    Robaccia sintetica, metamfetamine, cocaina.

    Aveva passato diversi mesi in una clinica per disintossicarsi, ma da quando ne era uscito, Dante si era accorto che il fratello non era più lo stesso, come se i suoi occhi si fossero svuotati.

    Era diventato cinico e ombroso, lui che un tempo era stato sempre allegro e ottimista.

    Gli restava la passione per la musica e le auto potenti.

    Ora girava con una vecchia Mercedes Benz 450SEL perché non poteva permettersi di meglio.

    – E tu, lavori ancora per lo strozzino dagli occhi a mandorla? – Carlo non vedeva l’ora di cambiare discorso.

    – Alla fine è meno peggio del previsto.

    – Quei musi gialli ci stanno conquistando un pezzo per volta – brontolò Sergio strappando un brano di carne da una costoletta.

    – Si chiama

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