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Negli occhi di Hanya
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E-book267 pagine3 ore

Negli occhi di Hanya

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Fantascienza - romanzo (198 pagine) - Erano anni che gli davano la caccia senza successo. Ma questa volta Stark aveva deciso di fermarsi e affrontare i suoi ex colleghi.


Stefano "Stark" Uggeri, Philippe "Fill" Fillon, Josh "Vento" Davies, Enrique "Escualo" Celades sono i membri di una squadra di assassini professionisti. Non si fermano davanti a nulla per eseguire gli ordini dei loro superiori. Finché non accade l'impensabile: Stark diserta. La Regola impone che si suoi ex compagni lo uccidano: loro sono abili, ma lui di più, e ormai sono anni che lo braccano senza successo, in un mondo in cui grazie al teletrasporto ci si può muovere in ogni parte del pianeta istantaneamente. Ma ci sono ancora aree che non sono coperte dalla rete: sono chiamare "zone morte" e le persone che le abitano vengono considerate dei reietti. È in una di queste zone che succede qualcosa a Stark, qualcosa che lo convince a fermarsi e affrontare i suoi ex amici.


Andrea Franco, classe 1977, ha pubblicato numerosi romanzi e racconti con Mondadori. Nel 2013 ha vinto il Premio Tedeschi Mondadori con il romanzo L’odore del peccato. Il seguito, L’odore dell'inganno è uscito nel 2016. Per Segretissimo Mondadori ha pubblicato la serie "El Asesino" composta da cinque romanzi (Confine di sangue, Protocollo Pekić, La collina dei trafficanti, Il codice del Führer, Un’ora per non morire) e diversi racconti. Nel 2017 i suoi gialli storici sono stati pubblicati nuovamente nella prestigiosa collana Oscar Gialli Mondadori (Il peccato e l’inganno) e in versione audiolibro, per Audible. Il terzo romanzo della serie uscirà per Il Giallo Mondadori ad agosto 2022. Nel 2019, sempre per Il Giallo Mondadori, è uscito il romanzo Il sorriso del diavolo. Dal 2018 si è dedicato anche al teatro: Avrei voluto essere, Lui torna sempre (ispirato alla storia del serial killer Stevanin, che ha romanzato nel volume Lungo la via del pensiero), Il destino della sedia, Nessuno dimentica i folli, Sulla Luna anche il dolore è più leggero, Il cielo ha sbagliato colore, Sei quel che sei, Non ti sporgere sennò mi precipiti. Esegue lavori di editing sia per le case editrici che privatamente. Nel 2021 ha fondato l’Associazione di beneficienza Sorriso in viaggio. È del 2022 il nuovo progetto di un podcast: Scrittura Assassina.

LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2022
ISBN9788825419337
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    Anteprima del libro

    Negli occhi di Hanya - Andrea Franco

    Al grande Isaac Asimov,

    che mi ha fatto amare la fantascienza.

    Alla mia famiglia: Ana, Luca, Beatrice.

    E come sempre a loro: mamma e papà.

    Anche se sono andati via quasi

    Senza preavviso

    Parte prima

    Prologo

    In quel momento tutto il mondo si restringeva a un piccolo foro. Stefano lo sapeva per esperienza. Nulla più di quel piccolo foro. Nero come la morte.

    Quique, a terra, osservava la pistola puntata contro di lui. Poi distolse di poco lo sguardo e lo inchiodò negli occhi di Stefano, fermo a pochi metri di distanza. Dal basso verso l’alto. Da quell’angolazione l’arma doveva sembrare ancora più minacciosa. Era chiaro che aveva rinunciato all’idea di recuperare la propria, sul pavimento, vicina ma non abbastanza. Stefano annuì, approvando quella scelta saggia.

    Non era ferito, l’altro. Non ancora. Poi, per l’ennesima volta, il dubbio. Stefano glielo lesse negli occhi, prima che parlasse.

    – Non lo farai ancora – disse Quique, accennando un sorriso sornione. Aveva gli occhi piccoli, stretti come due fessure, da predatore. Come quelli di uno squalo.

    Stefano alzò le spalle. Dopotutto, non era sicuro di aver preso una decisione.

    – Non lo farai ancora – ripeté Escualo.

    In cuor suo, immaginò Stefano, doveva sperare invece che andasse ancora nel solito modo. – Potrei fare diversamente, secondo te?

    L’altro fece spallucce. – Dovresti fare una sola cosa, amigo. Una sola.

    – E dovrei farlo a te?

    – Dovresti farlo a chiunque. È la Regola.

    – Non sto più facendo quel gioco assurdo.

    – Non chiamarlo gioco, amigo. Non chiamarlo gioco, te ne prego.

    Stefano alzò le spalle. – Non è più il mio lavoro. Così è meglio?

    Escualo rispose con un cenno del capo. Fissò di nuovo la canna della pistola. – Tutti noi dobbiamo rispettarla. Lo sai, no?

    – Non vi ho mai chiesto di fare diversamente.

    – No, non lo hai mai fatto, amigo.

    – Non abusare di quella parola, quante volte te l’avrò detto? – Stefano sorrise, ma senza riuscire a scacciare la tristezza.

    – Dici amico?

    – Esatto.

    – Con te non è abusata. Lo sai, no?

    – Lo so.

    – Adesso non perdere tempo. Non farlo ancora una volta.

    – Dovresti esserne lieto.

    Escualo rise. Non appena tornò serio, aggiunse: – Devo essere matto, vero?

    – Un po’… Sì, sei matto.

    – Avanti. Adesso spara.

    Stefano mirò con precisione e fece fuoco. L’arma non produsse alcun suono, ma il piccolo raggio saettò verso l’uomo disteso a terra.

    Escualo lanciò un grido acuto e rotolò sul pavimento. Il dolore strappò via qualsiasi indugio e con un guizzo si allungò per afferrare la pistola. Il raggio successivo lo colpì quando la mano aveva appena sfiorato l’arma. Gridò ancora, poi per qualche secondo nella stanza rimase solo il respiro graffiante.

    Stefano indietreggiò con cautela, con movimenti decisi. Si fermò a ridosso di un piccolo monitor installato nella parete grigia della stanza. Sempre impugnando la pistola, con la mano libera estrasse la scheda PTS e la passò davanti al lettore. La porta comparve in pochi secondi, accompagnata da un leggero ronzio. Inserì un codice nel display olografico e appena il sistema ebbe elaborato i dati attraversò l’immagine. In un attimo fu altrove.

    I racconti di Hanya

    – Ho una nuova storia per voi.

    Rimangono tutti a bocca aperta e sentono quel fremito, il solito fremito che sale lungo la schiena ogni qualvolta Hanya annuncia di avere una nuova storia. Hanno davvero le bocche spalancate, adesso, anche se lei non li può vedere. Non ricorda da quanto tempo, ormai, non può vedere quasi nulla. Con gli occhi.

    – Perché dici sempre che non puoi vedere quasi nulla? – le aveva chiesto una volta Dizzie, la più piccola del gruppo. Una bambina tanto dolce quanto arguta era la sua intelligenza. Allora Hanya, semplicemente, aveva sorriso, e se avesse potuto avrebbe volentieri incrociato lo sguardo della piccola Dizzie. Con semplicità aveva risposto: – Perché io vedo le storie.

    Proprio così aveva detto: vedo le storie.

    Nessuno aveva replicato. Loro credevano al fatto che lei vedesse le storie. Altrimenti non avrebbe potuto raccontarne così tante e così belle e così…

    Hanya le vedeva, lì, nell’oceano, quando se ne stava ore e ore rivolta verso il mare a non far niente, perché una ragazza cieca cosa poteva mai fare? Qualcuno avrebbe affermato invece che stava vedendo le sue storie. E nessuno poteva contraddirlo.

    – È una storia triste? – chiede Carlie, forse solo un pochino più grande di Dizzie. A Carlie le storie tristi piacciono da impazzire. Gli altri non hanno preferenze, tranne Teddy che ama le storie d’amore. E Genny che ama le storie avventurose. E… no, tutti gli altri, davvero, amano semplicemente l’idea di trovarsi lì, attorno ad Hanya e le sue storie.

    – È una storia triste – risponde la ragazza. E può solo immaginare l’espressione soddisfatta del bambino. – E anche una storia d’amore. E molto avventurosa. E… è una bella storia, credo.

    I bambini rimangono in silenzio. Hanya ha una nuova storia. Una storia che piace a tutti loro. Ma sentono che nella sua voce c’è una nota malinconica, stonata, quasi. Diversa dalle altre volte, come… come se raccontare, questa volta, fosse più doloroso del solito.

    – Perché sei strana, Hanya? – domanda la piccola, dolce Dizzie. Sempre lei, un attimo avanti agli altri.

    – Perché è una storia difficile da… raccontare.

    – Perché è triste? – domanda Carlie, eccitato.

    – Anche per questo.

    – Perché è una storia d’amore? – domanda Teddy.

    – E di amicizia.

    – Perché c’è molta avventura? – chiede infine Genny.

    Hanya non risponde subito. Sospira, ripensando alla storia che ha visto. – Perché c’è troppo di tutto. Di tutto. Credo proprio che, per capire, dovrete ascoltarla.

    I

    Stefano Uggeri emerse in una notte luminosa e piena di gente. Impiegò meno di un istante ad abituarsi al cambiamento. Nel luogo di partenza il giorno era ancora vivo e per un momento l’oscurità sembrò impenetrabile. Ma subito le mille ammiccanti luci artificiali lo aiutarono a coordinarsi. Era abituato a quegli sbalzi. Molto spesso passava da una parte all’altra del mondo, il più delle volte senza conoscere la meta. La sorpresa non era più una parte sensibile degli spostamenti. Rimaneva la profonda sensazione di solitudine, ma quella era una cosa che non poteva combattere. Se la portava dentro.

    Questa volta, però, non aveva lasciato che il Passive Teleportation System scegliesse un portale a caso, tra i milioni sparpagliati in tutto il globo. Aveva programmato già da qualche ora la scheda PTS. Il codice del portale gli era stato inviato quella mattina poco dopo le nove, secondo l’ora standard internazionale. Non era mai stato a Chamonix, e nemmeno ne aveva mai sentito parlare. Però prima di trasferirsi si era documentato. Era un piccolo paese alpino che un tempo era sotto il controllo della repubblica Francese e poi della Federazione Europea.

    Ed era un posto freddo, soprattutto in quel periodo dell’anno. Quando emerse, però, si rese conto che il termo-stabilizzatore funzionava alla perfezione e benché in quel momento si trovasse in strada, una piccola strada affollata e luccicante, la temperatura era piuttosto piacevole.

    Passati alcuni secondi, la porta olografica alle sue spalle svanì con un effetto grafico un po’ datato. Stefano si trovava in una piazzola di transito. Un segnale acustico lo avvisò che qualcun altro stava per arrivare proprio in quel punto, quindi si scostò di lato per lasciare spazio, mentre con sguardo attento continuava a osservare il movimento lungo la via.

    Nonostante le piccole dimensioni, Chamonix era piuttosto animata. Era una città semplice, che probabilmente non mutava aspetto da chissà quanti anni. Stefano sorrise. Amava quel genere di posti, in cui il progresso aveva piantato i propri artigli, ma senza intaccare la naturale bellezza.

    Alzò lo sguardo. Sopra le luci della via, la notte era davvero buia. Aveva visto alcune immagini e sperava di poter osservare il picco innevato del Monte Bianco, ma un’oscurità densa celava ogni cosa al di sopra dei tetti delle piccole abitazioni.

    Mosse qualche passo e s’infilò tra la calca che procedeva lungo quel viale stranamente affollato. Si sentiva un po’ a disagio: non gradiva muoversi in mezzo a tanta gente. Una questione di sicurezza, soprattutto. Ogni uomo o donna che lo sfiorava aumentava in lui la sensazione di trovarsi in pericolo. Avanzò con una mano sotto la giacca, le dita che sfioravano il calcio della Beretta X450, un po’ per tenersi pronto, un po’ perché lo aiutava a sentirsi più tranquillo.

    Non aveva ancora un piano preciso. A dire il vero, fino a quel momento, non conosceva nulla più che il nome dell’uomo che doveva cercare.

    Augusto Lopez. Provò a dargli un volto, come faceva sempre, ma l’immagine fuggiva dalla mente, come se quell’uomo fosse davvero irraggiungibile. Quando attivava la connessione alla rete generale disattivava la visualizzazione di immagini, e si concentrava sui dati nudi e crudi. Aveva un metodo tutto suo di concentrarsi, lo sapeva bene, e forse la capacità di rimanere vivo dipendeva anche da quello. O perlomeno ci sperava. Il più piccolo errore poteva essere pagato a caro prezzo e Stefano preferiva non farsi ingannare dalla seduzione di immagini che troppo spesso erano fuorvianti. Non c’era margine d’errore in quello che faceva.

    Fino a quel momento, Stefano non si era mai sbagliato.

    Se ancora non era morto, la ragione era da ricercare nelle mille attenzioni che prestava a quello che faceva. Continuava a non fidarsi degli altri, così come non si fidava delle impressioni che poteva avere a un primo sguardo, e si documentava più che poteva. Quando ne aveva l’occasione.

    Augusto Lopez si era stabilito presso Chamonix da pochi anni. Molte informazioni sulla sua vita erano riservate e di non facile accesso. Questo significava che aveva molte cose da nascondere e molti crediti da spendere. Nessuno riusciva facilmente a rimanere nell’ombra, quando anche l’acquisto di una bibita veniva registrato attraverso una Scheda di Attività. Eppure, benché le sue attività di trafficante fossero note ai più, la scheda personale raccontava la storia di un semplice commerciante. Così: generico. Naturalmente, anche i suoi traffici illeciti erano basati solo su supposizioni piuttosto che su dati concreti, altrimenti le autorità sarebbero intervenute, ma difficilmente si trovava una scheda in cui commentatori anonimi non ne avessero approfittato per lasciare idee e supposizioni. Augusto Lopez forse era così potente da intimorire questo tipo di azioni? Impossibile anche solo pensarlo. C’è sempre qualche idiota, chissà dove nel mondo, che non può resistere dal lasciare qualche commento. Stefano immaginava invece che qualche esperto al soldo di Lopez provvedesse a fare tabula rasa, lasciando pulita la scheda.

    Una cosa da ricchi. E da delinquenti.

    Rimaneva un nome, quindi.

    E le informazioni che un altro esperto gli aveva fornito. Una persona di cui Stefano si fidava e che sapeva bene dove e come cercare.

    Augusto Lopez era una persona squallida e perversa.

    Oltre che un trafficante di droga.

    Stefano Uggeri era a Chamonix per ucciderlo.

    La stanza era silenziosa, fatta eccezione per il ronzio dei terminali e delle decine di ventole. Philippe Fillon era fermo, un metro dietro la postazione principale, e osservava il sottufficiale, in silenzio, anche se avrebbe voluto gridare e mettergli fretta. Ma sapeva che l’uomo stava facendo il possibile. Benché svolgesse un’attività totalmente diversa dalla sua, Philippe era capace di apprezzare il lavoro degli altri, anche e soprattutto quando non ne comprendeva tutti i meccanismi. Il sergente Hugo Jules stava cercando di tracciare, all’interno della Rete T/P, gli spostamenti di una persona. Non una persona normale, purtroppo. Un uomo abile e pericoloso che lui doveva a tutti i costi rintracciare. E uccidere. Un uomo fin troppo simile a lui.

    Mentre osservava le informazioni che scorrevano rapide sui tre monitor davanti a Jules, sentì nella mente, come una detonazione, la voce dell’uomo che li aveva addestrati a tutto quello.

    – Terminare, non uccidere!

    Quando gridava, il maggiore Anero piegava la testa in avanti, alzando le spalle, minaccioso. – Il vostro è un incarico che dovete portare a termine… e come si concludono i vostri incarichi? Come terminano?

    Uccidere.

    Philippe serrò la mascella, sentendo un brivido caldo scorrergli lungo il corpo, come ogni volta che ripensava all’addestramento. Resistette all’impulso di sfiorare con i polpastrelli la cicatrice sulla spalla, ricordo di uno dei tanti scontri con Stark.

    Parlava in modo strano, il maggiore, ma efficace. Impossibile che qualcosa potesse rimanere oscuro.

    Terminare, gridava lui.

    Uccidere, registravano loro.

    Ma il concetto era chiaro.

    – Trovato niente? – chiese scivolando fuori dai ricordi.

    Il sergente scrollò le spalle. Se avesse trovato qualcosa lo avrebbe già detto, ma parlare serviva ad attenuare la tensione. Navigare all’interno della Macchina, come veniva comunemente chiamata la Rete di trasferimento, non era cosa semplice. Milioni di dati si intersecavano, quasi comprimendosi all’interno di fessure spazio/temporali, lasciando ognuna una debole traccia che andava a sporcare i dati elaborati, confondendo un eventuale osservatore.

    Hugo Jules, prima di essere contattato dal governo centrale, lavorava come agente di pattuglia dei portali, rimanendosene collegato a una fitta rete di dispositivi T/P per sette ore al giorno. Dopo due anni percepiva un’anomalia semplicemente dal rumore delle scie dei trasferimenti. In qualche modo era un segugio. Così come lo era Philippe. Entrambi seguivano uomini, ma in maniera differente.

    – Forse non manca molto – disse Jules, lanciando un’occhiata di traverso, all’indietro.

    – Non può essere sparito nel nulla.

    – Lo troverò.

    Philippe tornò in silenzio. L’uomo che stava cercando poteva essere in qualunque angolo del mondo. Se aveva cancellato bene gli spostamenti c’erano poche possibilità di rintracciarlo. Ma i software di ultima generazione potevano registrare anche le più insignificanti modifiche nel sistema di transito. L’unico problema era l’enorme quantità di dati da elaborare. E non c’era una sola persona da tracciare o che cancellasse illegalmente i propri spostamenti. In questo, Philippe sperava nell’intuito e nell’esperienza di Jules. Leggere le scie, in alcuni casi, era ancora un lavoro che doveva svolgere un uomo.

    Si voltò verso la postazione alla propria destra. L’agente che stava elaborando i dati su quei dispositivi era una donna: Amanda Biel. Philippe la osservò con attenzione. Appena trentenne, era una delle donne più affascinanti che avesse mai incontrato. Non una bellezza mozzafiato, ma una semplicità talmente sensuale da disorientare persino un uomo risoluto come lui. Vita stretta e seno piccolo, capelli neri, occhi scuri e grandi.

    La donna sembrò notare il suo sguardo e piegò la testa verso di lui, sorridendo. Anche lei stava lavorando all’interno della Macchina. Svolgeva però lavori di routine, tracciando e analizzando anomalie che si generavano in maniera perlopiù spontanea. A volte all’interno delle fessure si creavano dei campi inconsueti che andavano normalizzati al più presto. Difficilmente determinavano problemi irreversibili, ma era preferibile tenere sotto controllo qualunque interferenza legata allo spazio/tempo.

    A meno che altri casi non fossero stati taciuti, si conosceva un solo incidente causato da una frattura all’interno di una fessura, e questo aveva causato la sparizione di un viaggiatore. Jacob Tiker, anonimo impiegato, era passato alla storia proprio in questo modo. Adesso un’eventuale nuovo caso del genere aveva un nome: anomalia Tiker.

    Philippe sospirò, osservando la donna con attenzione. Qualche volta tutti loro erano anche usciti insieme. Sorrise. Tutti loro. Incredibile tornare indietro a quei tempi, quando la vita sembrava fin troppo semplice e scontata. Quando a legarli a quell’incarico c’era solo una minaccia e una promessa. Prima ancora dell’amicizia.

    – Tutto bene? – le chiese a bassa voce, quasi che quella conversazione fosse intima e dovesse escludere il sergente Jules.

    Amanda non rispose subito, poi alzò le spalle. – Direi di sì.

    – Lo devo trovare – aggiunse lui dopo un po’.

    – Non mi devi spiegazioni. È il…

    – Lo so. È il nostro lavoro. Ma volevo che tu…

    – Non ti devi preoccupare, Philippe.

    – Ma…

    – Farà più male a voi che a me, credimi.

    Rimase in silenzio, lasciando che il dolore di quell’affermazione trovasse un posto dove rintanarsi. Farà più male a noi, rifletté. A me.

    Amanda aveva ragione.

    – Posso offrirti da bere?

    La ragazza, una pantera dalla pelle d’ebano, si voltò e lo guardò senza sorridere.

    – Cosa ti lascia pensare che io sia una di quelle?

    Stefano la osservò meglio e stabilì che forse aveva bevuto un po’, ma ancora si reggeva in piedi. E poteva fare due chiacchiere. Il suo sistema di identificazione automatica non gli aveva fornito nessuna informazione, leggendo la retina della donna. Era un’irregolare, quindi, altrimenti sarebbe stata registrata. – Una di quelle… cosa?

    Lei rise, sbattendo il bicchiere sul bancone. Il sensore emise un suono e un barman olografico si materializzò davanti a loro. Lo ignorarono. – Adesso fai pure lo spiritoso?

    – Forse hai bevuto un po’ troppo.

    – Forse pensi di sapere troppe cose, non credi?

    Stefano accennò un mezzo sorriso e alzò le braccia. – Va bene… come non detto! – Mosse un passo per allontanarsi, quando la voce squillante della prostituta lo martellò.

    – Ehi… che fai, mi offri da bere e poi te ne vai?

    – Se proprio insisti!

    – L’hai pensato per la pelle?

    – Cosa…

    – L’hai pensato per la pelle, che batto?

    – Ma io non ho…

    – Stronzate, amico. Mi hai puntato: giovane, bella e nera. Cosa ci fa una come me in un posto di latticini come questo?

    – Stai viaggiando troppo con la fantasia…

    – Elene. Mi chiamo Elene, se ti piace.

    – Mi pare un bel nome.

    – Sennò, tesoro, scegline pure un altro… quello che più ti piace.

    – Elene andrà benissimo.

    – Stefano sorrise. – Io prendo un Nightfall. – Allungò una mano e sul display digitò la bevanda scelta. Si voltò verso di lei, invitandola con un cenno.

    – Quello che prendi tu.

    Dopo pochi momenti i due bicchieri giunsero davanti alla loro postazione, scorrendo sul ripiano. Stefano pagò passando la scheda davanti al sensore, poi porse il drink a Elene, ora stranamente assorta.

    – Certo che andrebbe accompagnato con qualcosa di… particolare, non trovi?

    Elene sembrò scuotersi e drizzò la schiena, fissandolo con un cipiglio serio. – Di che cazzo parli… eh?

    – Ma dai… hai capito – disse Stefano, alzando il bicchiere davanti al suo viso, guardandola con fare complice.

    – Io non mi faccio di merda!

    – Neanche io, di solito. Però stasera…

    – Cosa stai cercando? Non provare a fregarmi, bello!

    – Voglio solo divertirmi un po’ e…

    – Stai cercando della merda?

    – E una bella ragazza.

    – Io non prendo quella roba…

    – Quasi mai, giusto?

    – Hai detto bene: quasi mai.

    – Però magari conosci qualcuno che…

    – Io conosco un mucchio di gente, ci puoi scommettere!

    – Ci credo. Mi hanno detto che la roba migliore ce l’ha

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