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Il destino di Nemhea
Il destino di Nemhea
Il destino di Nemhea
E-book486 pagine6 ore

Il destino di Nemhea

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Fantasy - romanzo (392 pagine) - Come salvare un mondo sempre sull’orlo del collasso, prossimo alla fine?


La Grande Caligine.

Così la chiamano i sapienti.

Un’epoca oscura in cui, più di tremila anni fa, il mondo come noi lo conosciamo, ebbe termine.

Qualcuno narra di ciclopici cataclismi, altri di guerre devastanti, in realtà nessuno sa bene cosa accadde.

La barbarie e il caos ebbero il sopravvento.

E l’Impero di Nemhea sorse dalla violenza e dalla confusione, sopravvivendo giorno dopo giorno per garantire un futuro all’umanità.

Sette città unite a difendersi contro le minacce che provengono dal Deserto Proibito, dove un popolo misterioso prepara la propria vendetta, utilizzando i resti di una tecnologia ormai dimenticata.

Sette città che sopravvivono in un equilibrio precario che si regge su una ragnatela di inganni, compromessi e intrighi politici.

In un mondo dove il disordine minaccia ogni giorno di travolgere l’equilibrio costruito sul sangue e sulla sofferenza, l’unica speranza di un destino prosperoso è riposta nella gilda dei reliquianti, volenterosi esploratori che tentano di ricostruire il passato dell’Impero per dare un volto nuovo al mondo intero.


Laureato in lettere, Andrea Valeri si occupa di musica, scrittura di racconti, romanzi, poesie, sceneggiature per cortometraggi. Ha collaborato con diverse webzine scrivendo recensioni e interviste nell’ambito della musica dark, rock, metal e cinema (Zeromagazine.it, Negatron.it, N-core). Ha condotto un programma radiofonico, Chaos Party, che trasmetteva musica dark, rock e metal interessandosi di realtà locali e gruppi esordienti. È entrato a far parte dell’antologia I Mondi del Fantasy per la Limana Umanita Edizioni. Ha partecipato al progetto “Serial Writers” sponsorizzato da Mediaset per la creazione di una fiction da proporre su La5. È stato segnalato al premio Algernon Blackwood 2014, finalista al premio Giallolatino 2015 e al premio Segretissimo Mondadori 2017. I suoi thriller erotici sono usciti per i tipi della Delos Digital, nella collana Dream Force. Si è cimentato anche con il western, pubblicando una saga in cinque episodi, Gold Creek, e con il mondo dei pirati ne I Pirati della Black Keel. Recentemente è uscito il suo romanzo Il Sole di Ferro sempre per Delos Digital.

LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2019
ISBN9788825409277
Il destino di Nemhea

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    Anteprima del libro

    Il destino di Nemhea - Andrea Valeri

    9788825409185

    In principio fu il Caos

    Gli uomini vivevano nella Tenebra

    Divinità mostruose si pascevano delle loro anime

    E decidevano del loro destino secondo il loro capriccio

    Poi venne la Legge

    Il Sangue, il Ferro e il Fuoco

    La Sacra Trinità permise ai Sapienti e ai Costruttori di forgiare un Nuovo Mondo sulle ceneri del Vecchio

    La Legge divenne Ordine

    E gli uomini divennero Fratelli

    Ma il Male non dorme mai

    E la Guerra, ben presto, ricominciò.

    Estratto dal Primo Tomo delle Origini di Nemhea

    Mappa

    Prologo

    La Grande Caligine.

    Così la chiamano i sapienti.

    Un’epoca oscura in cui, più di tremila anni fa, il mondo come noi lo conosciamo, ebbe termine.

    Qualcuno narra di ciclopici cataclismi, altri di guerre devastanti, in realtà nessuno sa bene cosa accadde.

    La barbarie e il caos ebbero il sopravvento.

    E l’Impero di Nemhea sorse dalla violenza e dalla confusione, sopravvivendo giorno dopo giorno per garantire un futuro all’umanità.

    Sette città unite a difendersi contro le minacce che provengono dal Deserto Proibito, dove un popolo misterioso prepara la propria vendetta, utilizzando i resti di una tecnologia ormai dimenticata.

    Sette città che sopravvivono in un equilibrio precario che si regge su una ragnatela di inganni, compromessi e intrighi politici.

    In un mondo dove il disordine minaccia ogni giorno di travolgere l’equilibrio costruito sul sangue e sulla sofferenza, l’unica speranza di un destino prosperoso è riposta nella gilda dei reliquianti, volenterosi esploratori che tentano di ricostruire il passato dell’Impero per dare un volto nuovo al mondo intero.

    1. Vento di tempesta

    In primis fu il fuoco.

    Lingue arancioni danzavano nei bracieri di bronzo. Le fiamme si arricciavano, riflettendosi sulle armature solenni della guardia imperiale.

    Bagliori roventi sugli elmi cilindrici e gli scudi ad ogiva.

    Poi venne il metallo.

    Sotto la grande volta della cripta segreta nelle profondità della cittadella fortificata di Nemhea, Samuel scendeva i gradini rozzamente intagliati nella roccia delle fondamenta, diretto verso il suo destino.

    Nudo, la pelle crogiolata dal sudore, avanzava tra le due fila di soldati silenti, come statue di metallo cesellato.

    I piedi calpestavano le pietre calde, mentre il grande fuoco brillava nell’enorme cratere di ferro.

    Fiamme che non si spegnevano mai.

    Il cuore stesso di Nemhea.

    Il Gran Sacerdote del culto della Trinità lo stava aspettando.

    Il volto corrucciato era scavato da una tela di rughe. Sopracciglia cespugliose sormontavano occhi penetranti. Uno spadone dalla lama intarsiata di simboli stava in verticale, tenuto fermo dalle mani callose del religioso. Le figure incise sul metallo brunito si confondevano con quelle che risaltavano sul tessuto dell’abito talare.

    Samuel lo raggiunse e il battere di un tamburo si perse nella penombra prodotta dal fuoco sfrigolante.

    E infine venne il sangue.

    Il Fuoco aveva forgiato il Metallo. Ma era il Sangue ad aver dato all’uomo il coraggio e la forza.

    Samuel era fermo. Il calore bruciava la pelle ma lui non osava muoversi. Il Gran Sacerdote era dietro di lui.

    Un altro colpo di tamburo risuonò nella cripta.

    Fu allora che il rito ebbe termine, appena lo spadone gli incise la carne e il sangue gli risalì in bocca.

    E il dolore gli si conficcò nel cervello come un fuso d’acciaio.

    Da qualche parte nel Deserto Proibito

    La bocca era impastata.

    Dolciastro aroma di sangue.

    Vomito acre di bile.

    Gli occhi faticavano ad aprirsi.

    Il ricordo del Rito dell’Acciaio accompagnò il suo risveglio tumultuoso.

    Era appeso a testa in giù per una gamba ad una corda polverosa nella stamberga di un gruppo di predoni.

    Oscillò col sangue che gli annebbiava la vista. Due nemici, avvolti da brandelli di lercia pelle di dromedario,i volti ricamati da tatuaggi tribali, gli sorrisero con le bocche sdentate. Avevano smesso di torturarlo quando era svenuto e si erano ubriacati con una grappa di ginepro razziata ad un convoglio di Mither che andava a Shanta.

    Il loro capo, un sanguinario predone di nome Wanat, voleva un’importante reliquia che Samuel aveva recuperato da una tomba nel Deserto Proibito. Ma lui non aveva ancora parlato.

    Sputò un grumo di sangue. Aveva il petto pieno di ferite che gocciolavano.

    I predoni lasciarono il fiasco impolverato e impugnarono le sciabole sbeccate. C’era un lavoro da portare a termine.

    Una scarica di palle di piombo spappolò la testa di uno, spargendo marmellata di cervello ovunque.

    Un guerriero dalla folta capigliatura nera era appena entrato spalancando la porta con un calcio.

    Imbracciava un fucile a canna svasata ancora fumante. Lo rimise subito in spalla ed estrasse una delle due pistole a tamburo che teneva nella bandoliera che gli attraversava il petto.

    Un colpo solo e anche l’ultimo nemico stramazzò al suolo con i sensi resi troppo lenti dall’alcool.

    Utilizzando una mannaia con cui i torturatori mozzavano le dita, Ash liberò il prigioniero con un gesto secco.

    La corda si strappò e Samuel piombò al suolo dolorosamente.

    – Ce ne hai messo ad arrivare! – bofonchiò il reliquiante, cercando di rialzarsi.

    – Stavo finendo il mio sigaro! – Ash lo aiutò sogghignando, quindi ne estrasse uno da una delle mille tasche piene di attrezzi fantasiosi della sua fusciacca, prima di addentarlo.

    Era un trappoliere, uno che disinnescava i meccanismi diabolici disseminati in antiche tombe, mausolei e sotterranei. Uno che sapeva come entrare all’inferno e uscirne vivo.

    Era anche il miglior amico che Samuel potesse avere in quel momento.

    Insieme uscirono dalla baracca di legno.

    Ash serrò vorace il sigaro di tabacco di Roqq, il suo preferito.

    Samuel imprecò, strizzando gli occhi sotto il sole torrido del deserto.

    Le nubi all’orizzonte annunciavano visite sgradite.

    Forse un centinaio di predoni.

    – Restiamo a preparare una festa? – scherzò Ash.

    – Non ci penso proprio – rispose Sam, asciugandosi il sangue dal volto. Poi, colto da un pensiero improvviso, fulminò il compagno. – Ce l’hai ancora?

    – Cascasse il mondo – lo tranquillizzò Ash, stendendogli una pistola.

    – Non diamo soddisfazioni a quei bastardi – concluse il reliquiante, afferrando l’arma.

    Castello Imperiale, Nemhea

    L’Imperatore era stanco.

    Rogal Krannigan era stato un guerriero e un padre, un condottiero e un amante.

    Aveva combattuto a sud, oltre le colline di Shanta, cinquant’anni prima, per ricacciare nelle profondità del deserto maledetto, i Signori delle Sabbie e la loro progenie di predoni.

    Aveva respinto nelle tenebre i morphic di Naggah ed estirpato i culti cannibali che provenivano dalle isole al largo di Zheng.

    Aveva sconfitto i pirati del Mar Feroce.

    Aveva avuto una moglie da amare e tre figli stupendi.

    Il mondo era stato ai suoi piedi, come un cane obbediente.

    Ma adesso molte cose erano cambiate. Troppe.

    Affacciato dalla finestra di una delle slanciate torri della cittadella, la roccaforte al centro della città di Nemhea, la capitale dell’Impero delle Sette, osservava un gabbiano volteggiare fra i tetti sottostanti. Veniva dal golfo poco lontano, dal Mar Feroce.

    Le vie pulsavano di vita.

    Il Viadotto delle Ossa e il Promontorio dei Rubini, i quartieri popolari e il Corno di Bronzo, covo per tagliagole, farabutti, prostitute e avventurieri. Vide la colorata zona dei Settemondi, dove genti di tutto l’Impero si incontravano per il mercato e la Piazza dei Supplizi circondata dai quartieri popolari.

    Respirò un buon odore di carne cotta e scrutò oltre le nubi.

    Apparentemente il cielo era tranquillo, anche se lui sapeva cogliere le nubi di tempesta anche nel blu più limpido.

    Rogal era attanagliato da un’angoscia profonda.

    Innanzitutto era vecchio.

    Poi si sentiva solo.

    Solo in un mondo sempre sull’orlo del collasso, prossimo alla fine.

    Ne era certo.

    Nemhea sarebbe caduta.

    E lui non voleva assistere al crollo delle Sette Città, tutto quello che aveva contribuito a consolidare e unire.

    Il ciambellano, Nikolaus, lo richiamò ai suoi doveri.

    Poteva sembrare un affronto. Nessuno dava ordini all’Imperatore, ma Rogal era un uomo mite, abituato ormai all’autorità rassicurante esercitata dal suo fedele consigliere.

    Rientrò nel salone delle udienze, scostandosi dal davanzale di marmo. C’erano molte persone che attendevano un colloquio privato. Dignitari, ambasciatori delle città principali, mercanti, ingegneri.

    Nikolaus regolava le visite in ordine di importanza.

    Il primo personaggio ad essere accolto nello studio dell’Imperatore fu Kurt Gregson, uno dei più eminenti cerusici dell’omonimo collegio.

    Corona di capelli grigi, pizzetto ben curato anch’esso di colorito cinereo. Sembrava molto impaziente nelle sue vesti eleganti di tessuto di Zheng color antracite.

    Rogal lanciò un’occhiata distratta alle statue imponenti che lo fiancheggiavano.

    Suoi antenati, mitici guerrieri. Sentiva il peso dei loro sguardi di pietra su di sé. E non c’era la sua amata Myrna con lui.

    Un corteo di servitori in livrea amaranto, lo seguiva silenzioso, provvedendo ad aiutarlo a sedersi sul trono, pronti a massaggiarlo, a rabboccare la coppa di vino dolce o a stendere un vassoio con fette di melone maturo.

    Rogal rifiutò il loro aiuto e li congedò.

    Seguendo Nikolaus, entrò nel suo studio.

    Il cerusico aveva fretta di esporre il suo problema. Aveva la fronte spaziosa, imperlata di sudore, che si asciugava di continuo con un fazzoletto.

    Li circondavano musi di cinghiale, teste d’orso, trofei animali appesi alle pareti, ricordi di passate battute di caccia, quando la vita era solo un affastellarsi di avventure incoscienti e baldorie dopo la battaglia.

    Il ciambellano era in piedi, alla destra del trono di legno lavorato di quercia, foderato di raso porpora, su cui sedeva l’Imperatore.

    Rogal pensava alle centinaia di sovrani che si erano succeduti prima di lui, alle decisioni difficili prese tra quelle mura.

    Ogni singola pietra aveva visto assedi, massacri, tradimenti, guerre, avvelenamenti. Le mura trasudavano stille di sangue.

    – Signori – il cerusico lo distolse dalle sue visioni – la situazione è drammatica. –

    – Si spieghi meglio – ordinò Nikolaus, sollevando appena il mento in un’espressione altezzosa, gli occhi da falco ad indagarlo, sotto la calotta di tessuto scuro posata sul cranio oblungo.

    – Credevamo che l’epidemia fosse sotto controllo ma ci sbagliavamo. – L’uomo tossì nervoso. – C’è un altro focolaio di Febbre Vermiglia. -

    L’Imperatore cercò una posizione migliore sul trono. Non la trovò.

    – Isolate le zone. In fretta. – rispose per lui il ciambellano.

    – Lo abbiamo fatto e la guardia imperiale ci ha aiutato ma non è servito. Una parte del quartiere del Corno di Bronzo è stata sigillata e messa in quarantena. Tuttavia non è possibile escludere che qualche infetto ci sia sfuggito, e che …

    – Cosa? – incalzò stizzito Nikolaus.

    – Forse abbiamo a che fare con un untore.

    – Maledizione. E una cura?

    – Ci stiamo lavorando ma con scarsi risultati.

    – Voglio essere informato su ogni sviluppo della vicenda. Ogni ora un bollettino.

    – Sarà fatto.

    Il cerusico si allontanò celere. Sembrava non vedere l’ora di eludere le domande del ciambellano.

    Appena fu uscito, Rogal parlò.

    – Nemhea è finita ormai.

    – Mio Signore, non dovete parlare così. Nemhea è forte. Troveremo una cura per la Febbre Vermiglia. L’epidemia è stata contenuta.

    – Nikolaus, ma non vedi che siamo circondati da nemici implacabili?

    – L’Impero ha superato crisi ben peggiori.

    L’Imperatore scosse il capo.

    – Quali notizie da Naggah?

    Naggah era una delle sette città dell’Impero.

    Arroccata sulle montagne a sud-ovest di Nemhea, era da sempre un avamposto imperiale contro le orde barbariche che si annidavano nei canyons delle Desolazioni Cineree, oltre le catene dei Monti Crudeli.

    Messaggi frammentari avevano avvisato che la città era stata conquistata da un ignoto usurpatore che minacciava di entrare in rotta di collisione con l’Impero.

    – Il nostro informatore è riuscito ad inviare un ultimo messaggio prima di sparire e smettere le abituali spedizioni.

    – Lo hanno catturato.

    – Probabile.

    – Cosa diceva l’ultimo messaggio?

    – Èstato scritto in fretta. L’inchiostro era sbafato. Quell’uomo era braccato. Il suo è stato un tentativo disperato di avvertirci. Èriuscito appena a mandare un corvo …

    – Cosa c’è scritto?

    La voce di Rogal riacquistò per un istante l’antica fermezza, la stessa di quando aveva abbattuto il campione dei Signori delle Sabbie col suo martello pesante.

    Nikolaus non abbassò lo sguardo.

    – Siamo riusciti a capire una sola riga.

    – Una sola?

    – Ma sufficiente.

    – Cosa diceva? – Rogal prese la coppa di vino e ripensò alla sua amata Myrna.

    – Sappiamo il nome dell’usurpatore, maestà. È Torg Krannigan, vostro fratello.

    Provincia di Zheng

    Colline verdeggianti a perdita d’occhio, sotto un cielo di zaffiro scintillante.

    Elcor respirava l’aria fresca, godendosi il panorama seduto sul pianale del carro. Insieme a suo padre Jhalo, al loro fido segretario Snoten, e alla loro guardia del corpo, Karlos, si stavano dirigendo verso una delle città stato più importanti dell’Impero, Zheng.

    Elcor era un ragazzo di diciassette anni. Non era mai uscito dalle mura di Nemhea e quel viaggio verso sud lo aveva riempito di emozioni.

    Si sentiva al sicuro quando era con suo padre, uno dei mercanti di spezie più facoltosi dell’Impero e si crogiolava al sole, osservando le risaie punteggiate da donne con i piedi a mollo nell’acqua placida.

    Incrociarono carri carichi d’erba tagliata e convogli di mercanti di stoffe.

    Un vecchio senza denti salutava tutti i passanti, sorridendo e inchinando il capo, aggrappato al suo corto bastone.

    Su un colle circondato da pioppi, sorgevano diverse lapidi storte, circondate da variopinti fiori di campo. Un gregge di capre brucava l’erba inerpicandosi fra le tombe. Elcor vide il pastore sbracciarsi per richiamarle. Quello era un cimitero sacro.

    – Guarda Elcor!

    La voce di suo padre destò la sua attenzione.

    La strada principale era molto trafficata. Erano vicini alla città.

    Mentre succhiava una prugna secca, Jhalo gli indicò una serie di grandi colonne scolpite che fiancheggiavano la via. Erano coperte di edera rampicante, retaggio di un antico popolo autoctono dagli occhi a mandorla che aveva abitato quelle terre secoli prima.

    Elcor le osservava ammirato.

    Numerose scimmiette si rincorrevano fra le liane frondose, compiendo acrobazie e litigandosi un piccolo mango giallo. Poi il frutto cadde, schiantandosi su una bancarella di verdure sottostante.

    Molti ambulanti stazionavano fra le colonne, stendendo le loro merci su stuoie, tappeti o sul retro dei loro carretti.

    Elcor aveva compiuto quel viaggio perché suo padre voleva che imparasse il suo mestiere, trattando le merci nel più grande mercato dell’Impero.

    Un giorno lui sarebbe stato il suo erede e doveva conoscere tutti i trucchi di quel mondo. Elcor aveva altre due sorelle, quindi la società mercantile sarebbe finita a lui.

    Ma era ancora solo un ragazzo, ingenuo e credulone, poco avvezzo a ordire intrighi, ad evitare i raggiri e a nuotare in quel mare di squali, dove, o si sbrana o si viene sbranati.

    Dopo il profumo selvatico delle campagne, l’olezzo nauseante della città li raggiunse.

    Zheng la Putrida, Zheng la Fascinosa, si apriva di fronte a lui.

    Zaffate contrastanti si mescolavano nella sua mente.

    Tanfo di pesce marcio dai canali navigabili ingombri di imbarcazioni, profumo di fiori freschi e carne cotta, aroma di cenere dalle pire rituali dei funerali.

    Un mangiafuoco si esibiva a un incrocio, sputando barbe di fiamme sui passanti.

    Una vecchia rugosa invitava la gente ad accostarsi alle sue ciotole di carnose olive nere.

    Due fanciulle di schiatta nobile, vestite di seta colorata e coi volti velati, camminavano controllate da guardie del corpo di Urron, massicce e brutali, coperte da protezioni di cuoio e armate con tirapugni di ferro.

    Zheng sorgeva su un arcipelago di isole alla foce del fiume Og. Erano collegate da una complessa rete di ponti che attraversava i canali navigabili.

    Il principe Han Guh era un sovrano capriccioso, capace di grandi gesti di generosità e atti di crudeltà inauditi.

    Si diceva che nella stessa giornata, avesse regalato un palazzo ad un orfanella incontrata per strada e avesse fatto tagliare la testa a cinque servitori per aver fatto cadere un acino d’uva destinato a lui.

    Ma il mercato era sacro e nemmeno il principe poteva mettere becco nelle trattative e nei commerci di Zheng.

    Il carro schiacciò la carcassa putrefatta di un gatto, sprizzando una purulenta poltiglia. Un odore acido di decomposizione aggredì le narici di Elcor che, nonostante fosse abituato al caos di Nemhea, non era pronto ad affrontare la follia di quella città affollata e convulsa.

    Il carro seguiva una mandria di bovini diretta al mercato. Ogni tanto sobbalzava sui cumuli di sterco.

    Snoten sembrava timoroso ad immergersi in quella marea umana.

    Karlos era sospettoso. Si guardava intorno continuamente. Bisognava avere mille occhi fra quei vicoli.

    Neanche lui però, sarebbe riuscito ad accorgersi dell’uomo che li seguiva.

    Era il membro di un antico popolo di cui si erano perse le tracce, ultimo depositario di letali tecniche di combattimento e mimetizzazione.

    Lo chiamavano il Mangiatore di Uomini, ma non perché fosse un cannibale.

    Perché poteva fagocitare chiunque e assumerne l’aspetto per compiere ciò che faceva meglio.

    Sabotare, stuprare, rapire, uccidere.

    Il Corno di Bronzo, Nemhea

    Il Corno di Bronzo era il quartiere più malfamato di Nemhea.

    Una zona che si estendeva dal fiume della Serpe Rossa lungo il perimetro delle mura a est e inglobava anche gran parte dei caseggiati popolari più sordidi e degradati.

    All’imbrunire non era il posto più adatto per una giovane donna.

    Vivian si stringeva addosso il mantello, scrutando i vicoli cupi da sotto il suo cappuccio.

    I lampionai lì non arrivavano e le uniche luci erano quelle delle lanterne appese fuori dalle taverne.

    Una prostituta la scrutava dietro l’androne di una porta, gli occhi gonfi, bistrati malamente, l’aria malinconica di una donna costretta ad una vita di soprusi.

    Incrociò un ubriaco che si appoggiava ai muri, vomitando ogni dieci passi.

    Urina di topo e piscio nell’aria fredda, canti di balordi risuonavano da qualche parte.

    Un tossico con i denti ingialliti dall’oppio nero delle Isole di Smeraldo, emerse da una stradina buia, biascicando qualcosa. Vivian lo evitò lanciando un gemito. L’uomo tentò di ghermirla ma lei si affrettò verso la zona tenuta in quarantena.

    Vide le guardie imperiali con le loro picche, all’ingresso di un caseggiato fatiscente.

    Subito la squadrarono con aria sospetta, finchè lei non si qualificò.

    – Sono un cerusico del collegio. Lasciatemi entrare. – e mostrò loro il lasciapassare rilasciatole da Kurt Gregson, il suo decano.

    I due soldati si lanciarono un’occhiata perplessa, poi le fecero cenno di passare.

    Vivian pensò a suo fratello Ash. Se fosse stato lì con lei, le avrebbe detto che era un’esperta nel cacciarsi nei guai. E invece chissà dov’era, anche lui intento a ficcarsi in qualche avventura senza respiro.

    Salì le scale ripide, piombando in quello che, in effetti, sembrava l’anticamera dell’inferno.

    Lo stanzone era stato trasformato in una sorta di infermeria per moribondi.

    Tanfo di feci, sudore e morte. L’odore dolciastro del sangue che essudava dai bubboni di quei poveretti, si mescolava in maniera nauseabonda all’incenso sparso da uno degli inservienti che assistevano i malati.

    Vivian aveva indossato la sua mascherina di garza, avvicinandosi ai corpi per studiare l’effetto della Febbre Vermiglia. Alla luce calda delle torce, che stillavano gocce dense di catrame, controllò le macchie sulla pelle.

    Era la seconda fase del morbo.

    Dolori articolari, cefalea, spossatezza, poi comparivano le macchie, sulle braccia e sul petto, emorragie orali e nasali, quindi fuoriuscivano i bubboni. Arrivava la febbre alta, diarrea, vomito scuro, occhi rossi dilatati con aree emorragiche sulle sclere, il sintomo di una necrosi progressiva degli organi interni.

    La malattia veniva trasmessa dai liquidi corporei e questo aveva limitato la sua diffusione. Se la febbre si fosse estesa per via aerea, Vivian non osava immaginare cosa sarebbe potuto accadere.

    Aveva passato la giornata a studiare nella biblioteca del collegio tutti i volumi sulle malattie infettive. Quindi sapeva anche che una cura non esisteva e che la morte sopraggiungeva nella maggioranza dei casi.

    – Lei è il cerusico di turno?

    Vivian sobbalzò, voltandosi.

    L’uomo apparso dietro di lei era molto alto, con corti capelli neri e un’aria arcigna. Indossava gli abiti talari di un sacerdote della Trinità ma in lui c’era qualcosa di pericoloso e inquietante.

    E anche affascinante.

    Vivian fronteggiò l’imponente chierico.

    – Con tutto il rispetto, cosa ci fa un assertore in questo luogo di morte? C’è il rischio di essere infettati, lo sa?

    – Un assertore non teme la morte. Teme solo l’ira del Sangue.

    – Pregare, purtroppo, non aiuterà questi poveretti.

    Vivian non si era accorta della gaffe, di aver sminuito il supporto spirituale della preghiera. Ma l’assertore apprezzò la sua franchezza.

    Tra i sacerdoti che veneravano la Trinità ovvero i tre dei del Sangue, del Fuoco e dell’Acciaio, gli assertori erano tra i più duri e fanatici.

    Mastini dell’investigazione il cui unico scopo era sradicare ogni culto eretico.

    Horian era uno dei più capaci ma allo stesso tempo uno dei più invisi nel suo ordine.

    Aveva idee rivoluzionarie e dimostrava una certa tolleranza verso alcuni peccati che invece avrebbero necessitato di maggior rigore.

    Fra gli assertori esistevano due correnti di pensiero.

    Gli Intransigenti, che intendevano distruggere alla radice qualsiasi culto estraneo alla Trinità e combattevano, spesso in maniera occulta, ogni religione antica presente in modo più o meno velato, nelle altre città dell’Impero.

    Poi c’erano i Manipolatori, a cui apparteneva Horian, che studiavano gli altri culti, li analizzavano per comprenderli ed eliminarli solo nel caso fossero pericolosi. Perciò erano considerati troppo deboli. Usavano troppo il cervello e poco i muscoli.

    Horian li odiava. Gli Intransigenti erano degli ottusi, stupidi, caproni.

    Il loro, invece, era un compito delicato che andava svolto da menti eccelse. E in quel momento si stava chiedendo se Vivian fosse una di queste.

    – Secondo lei l’infezione potrebbe essere di natura dolosa?

    – Intende se c’è stato l’intervento di un untore? Questo nessuno può dirlo.

    Horian restò pensieroso. Gli occhi scuri che correvano sui corpi agonizzanti.

    – Cosa sta succedendo? – chiese Vivian, curiosa.

    L’assertore la prese da parte, tirandola per un braccio.

    Vivian arrossì per quel tocco inatteso.

    – Voglio fidarmi di lei. – I bagliori delle torce tratteggiavano il suo volto severo di chiaroscuri tenebrosi.

    – Il mio assistente, Crampo – e fece un cenno a uno storpio in fondo allo stanzone, di cui Vivian neanche si era accorta – ha compiuto delle indagini molto approfondite. Dietro a tutto questo, c’è una donna. Lei è a capo di una cellula terroristica.

    – Cellula terroristica? – Vivian sgranò i suoi splendidi occhi verdi.

    – La Corona Purpurea, un culto pagano che adora Unash, un’oscura divinità delle malattie, più vecchia di Nemhea stessa. Questa donna è convinta di riportare il suo credo agli antichi fasti e per far ciò è disposta a massacrare centinaia di persone spargendo la Febbre Vermiglia.

    – Dobbiamo avvertire le guardie imperiali.

    – Assolutamente no! – Crampo si era avvicinato senza far rumore. Vivian vide che era gobbo e zoppo, ma possedeva insospettabili capacità e una di queste era di muoversi di soppiatto.

    – La Corona Purpurea potrebbe avere proseliti ovunque. Meno persone sanno, meglio è.

    – E allora cosa avete intenzione di fare? Siamo soli! – Vivian era preoccupata.

    C’era una luce strana negli occhi di Horian. Vi brillava la sfida, il gusto per l’indagine, ma anche una sorta di brivido intellettuale, l’idea di riuscire a battere in astuzia un nemico forte e subdolo. Lui e lo storpio affascinavano con la loro determinazione ma trasmettevano anche un’inquietudine sottile.

    Vivian sapeva che trattare con un assertore poteva essere pericoloso, ma se Horian diceva il vero, forse loro erano l’unica speranza di fermare tutta quella follia.

    Un malato rantolò proprio in quel momento, mentre rifletteva su ciò che aveva scoperto. Spirò in un lago di sangue.

    Il catrame che scolava dalle torce sfrigolava nei liquami necrotici.

    Una domanda rimbalzava nella mente della donna.

    Non era il compito di un cerusico, quello di fare tutto ciò che era in suo potere per salvare gli innocenti?

    Oasi di Kholumna

    – Gazad natar-gu guddah! – ordinò il Signore di Ootam ai suoi predoni.

    Il trono mobile si fermò e gli schiavi ripresero fiato sotto il sole torrido del deserto.

    Egli affondò la mano grassoccia in una ciotola di ferro e portò alla bocca vorace un pugno di lumache in salamoia.

    Gocce collose di salsa piccante con maggiorana, cannella e peperoncino nero, colarono sul petto flaccido, fra i capezzoli gonfi, borchiati con ganci di bronzo a cui erano appesi piccoli cilindri d’oro con incise preghiere alle oscene divinità delle sabbie.

    Raag Zuroot aveva visitato il mercato di schiavi di Zunat ma non era rimasto soddisfatto della carne che aveva visionato.

    Ora un suo luogotenente, Wanat, lo aveva avvertito che era sul punto di catturare due avventurieri del nord, che avevano avuto l’ardire di profanare una sacra tomba.

    Raag aveva deciso perciò, di attendere sue notizie, insieme alla truppa che lo accompagnava, dai colli sassosi che sovrastavano il paesotto di Kholumna, dove un migliaio di abitanti viveva in un crogiuolo di casupole assemblate accanto a cinque grandi pietre calcaree, bianche come ossa calcinate dal sole.

    Samuel serrava i denti.

    Le ferite bruciavano.

    Ash era impegnato a pulirgliele con una pezza imbevuta di aceto e polvere di cardamomo.

    – Smetti di frignare!

    – Parli bene tu, brucia come il fuoco! – mormorò Sam con le lacrime agli occhi.

    – Prenditela con Vivian, lei dice che è l’ideale per non far infettare i tagli.

    – Dovrei ringraziarla allora.

    – Se sopravvivi. – borbottò Ash finendo di fasciarlo.

    – Dobbiamo andarcene prima possibile – cambiò discorso Samuel, controllando le medicazioni sui muscoli tesi.

    – Stai scherzando? Io voglio una tinozza d’acqua calda e una ragazza che mi lavi la schiena – ci pensò un attimo. – E una bella ragazza. – Ci pensò ancora. – Con due tette enormi!

    – I predoni ci sono alle calcagna. Vuoi diventare uno schiavo o peggio? – mormorò Sam alzandosi in piedi.

    – Sono due mesi che bevo latte di cammello. – Ash alzò la brocca sul tavolo. – E che mangio robaccia – sollevò una focaccia fritta nel burro di capra e la gettò contro il muro.

    Sam non diede peso a quello sfogo. Conosceva bene l’amico. Avrebbe capito le priorità. Afferrò la custodia metallica che teneva con sé gelosamente.

    – Stiamo rischiando troppo e non possiamo permettercelo – mise a tracolla l’astuccio e sospirò.

    – È così importante? – domandò rassegnato Ash, facendo riferimento al contenuto della custodia.

    – Più importante della mia vita e della tua messe assieme.

    – Il vecchio Martjn andrà in brodo di giuggiole quando dovrà tradurlo.

    – Vedo già quegli occhietti brillare per l’emozione.

    – Se sarà ancora vivo quando torneremo. Quanti anni ha, cento, duecento?

    Sam sorrise alla battuta dell’amico.

    – Anche se fosse morto, tornerebbe in vita, pur di dargli un’occhiata.

    – Speriamo che ne valga veramente la pena. – ribatté Ash afferrando la sua giubba e la saccoccia con i suoi attrezzi.

    I trappolieri erano individui un po’ bislacchi. Disinnescare antichi marchingegni di morte non era un’attività adatta ai sani di mente. Venivano considerati un po’ toccati, e molti lo erano. Vivevano all’avventura, non avevano famiglia e morivano giovani.

    Non avevano scuole, collegi o gilde.

    Chi si aggregava a uno di loro doveva essere veramente appassionato o molto disperato.

    I trappolieri potevano anche lavorare durante gli assedi o nella costruzione di fortificazioni. Più spesso però, affiancavano qualche reliquiante come Sam in imprese degne di loro.

    Lui e Ash si conoscevano da quando erano ragazzini e giocavano lungo le sponde del fiume della Serpe Rossa a Nemhea.

    Sam era entrato nella Guardia Imperiale, aveva superato il Rito dell’Acciaio, ma quello non era mai stato il suo mondo e i suoi comportamenti ribelli lo avevano fatto cacciare con disonore.

    Una delle sue passioni era sempre stata la storia antica.

    Martjn, uno dei più famosi e rispettati bibliomani dell’Impero, lo aveva preso come allievo nella sua torre-biblioteca sul Promontorio dei Rubini. In cambio lui recuperava per lui i reperti più svariati e, in particolar modo, libri.

    Il vecchio gli aveva insegnato ad amare tutto ciò che proveniva dal passato.

    Il passato è la chiave del presente. Governare il presente è dominare il futuro. Questo gli ripeteva Martjn. E i libri erano la chiave per poter interpretare il tempo. Per ottenere il potere.

    Sam conosceva abbastanza bene la parte settentrionale del Deserto Proibito e, seguendo le indicazioni del bibliomane, era penetrato in una tomba sepolta fra le sabbie. Insieme ad Ash erano giunti in un antico santuario che conservava i frammenti di un testo rivoluzionario, in grado di cambiare il destino di Nemhea e dell’intero Impero.

    Lo aveva celato nella sua custodia protettiva che avrebbe mantenuto la carta a una temperatura e umidità costanti, perché Martjn potesse tradurre attentamente le scritte consunte dal tempo.

    Ora dovevano solo tornare a casa.

    Wanat non amava aspettare.

    Wanat era sempre andato a prendere ciò che voleva.

    Wanat castigava chiunque pensasse di poterlo fregare.

    Soprattutto, Wanat odiava i sotterfugi.

    Camminava lungo la polverosa via principale che tagliava in due Kholumna, una spada di metallo nero a punta quadra sulla spalla poderosa. La stessa che utilizzava per amputare gli arti degli schiavi insolenti o per mozzare il capo ai suoi uomini più ribelli.

    C’era sangue incrostato e residui di gangli cerebrali sul filo seghettato della lama.

    Wanat era un colosso bronzeo di muscoli sfregiati da un’ infinita serie di combattimenti nelle fosse di Zandhia da cui era sempre uscito vittorioso.

    Aveva la vita e gli avambracci protetti da spessi giri di catene che scricchiolavano ad ogni suo passo.

    Gli occhi infossati nel cranio glabro e bulboso, raccontavano un passato di dolori inflitti e subiti. Una vita strappata al deserto con violenza e crudeltà.

    Le iene stesse lo temevano, come qualsiasi viandante saggio.

    Wanat era il simbolo della legge che vigeva in quei luoghi. Lui e i suoi sciacalli delle sabbie erano un incubo viaggiante.

    Camminavano insieme a lui per la città, leccandosi le labbra arse dal sole.

    Lingue avide, mani callose strette alle armi, sguardi rapaci dietro gli elmi abbozzati, trafugati a guerrieri trucidati a bruciapelo.

    Venivano a Kholumna con un unico scopo.

    Catturare la feccia che aveva violato il loro territorio, recuperare ciò che aveva rubato e spedirla nell’inferno più brutale che potessero immaginare.

    Wanat avvistò alcuni uomini del paese scendere in strada per fronteggiarli.

    Forse non apprezzavano che un predone venisse a spadroneggiare sulla loro terra.

    – Tu e la tua masnada – iniziò a recitare uno di questi, un minatore fiero, con le mani spaccate dei giorni passati con la mazza a frantumare rocce. – È il caso che ve ne andiate.

    Erano uomini rudi, le barbe incrostate di sale, la pelle brunita dagli atroci raggi solari.

    Wanat ringhiò sommesso.

    Dalla spalla, la lama scivolò sulla mano. Un gesto minaccioso.

    – Scoperò le vostre donne, darò fuoco a queste stamberghe e venderò i vostri figli agli schiavisti di Zandhia – quindi puntò la spada contro di loro. – Tornate a casa. Adesso.

    Gli scagnozzi sghignazzavano.

    Quelle parole, quella voce dura che sapeva di pietre antiche e vento maligno, ebbero il potere di farli indietreggiare.

    Il loro coraggio vacillò, evitando uno spargimento di sangue.

    Wanat fece cenno ai suoi di salire nella camera affittata dai due avventurieri.

    Non fecero in tempo.

    Un rombo improvviso congelò i loro movimenti.

    Polvere sabbiosa offuscava l’orizzonte.

    I cancelli che trattenevano il bestiame erano stati spalancati. Decine e decine di bovini impauriti sbucarono in strada, minacciando di travolgerli. Gli uomini fuggirono. Wanat e i suoi furono costretti a rifugiarsi nella taverna.

    Un diversivo, un fottuto diversivo.

    Si credeva furbo quel reliquiante. Ma Wanat aveva fatto sputare sangue a buffoni del nord molto più furbi di lui.

    Ash spronava il cammello a galoppare ma l’animale si ostinava in un trotto tanto ridicolo quanto fastidioso.

    – Che bella idea! Cammelli!

    – Muoviti! – gli urlava Sam che era partito al galoppo fuori da Kholumna, lungo una ripida strada sassosa che scendeva verso un bassopiano.

    Erano stati costretti ad abbandonare i cavalli per poter creare il diversivo che aveva bloccato i predoni. Si erano arrangiati e avevano rubato due cammelli, puntando verso nord.

    Un piano che Ash aveva maledetto già più di una volta, nonostante gli avesse permesso di uscire dal paese incolume.

    – E tu vorresti arrivare all’Artiglio del Drago con questi cammelli? – borbottò Ash che, nel frattempo, aveva recuperato terreno.

    – Perché? Si sta comodi!

    Ash stava per rispondergli a tono, quando un colpo d’archibugio risuonò alle sue spalle.

    Piombo a grana grossa passò accanto al suo capo. Sfrangiò i capelli e gli graffiò la guancia.

    Un centimetro più in là e gli avrebbe anche spappolato il cervello.

    Ash imprecò.

    Non erano soli. Quel bastardo di Wanat aveva previsto la loro fuga.

    Sciacalli indiavolati, con abiti sbrindellati e lingue al vento, si erano lanciati all’inseguimento sui loro cavalli. Stringevano schioppi e archibugi provenienti dalle forge del deserto. Rozzi e imprecisi, ma brutali ed efficaci.

    Sam vide Ash sorpassarlo, frustando il cammello come un ossesso.

    I cavalli erano più veloci, li avrebbero raggiunti rapidamente.

    Se le armi da fuoco non li avessero falciati prima.

    Sam alzò gli occhi sul pendio che separava la strada dalla sommità del colle su cui sorgeva Kholumna.

    Alcune rocce rotolavano sulla strada.

    Scogli sempre più grandi si schiantavano davanti agli zoccoli, costringendolo a zigzagare.

    Gli abitanti di Kholumna li volevano morti.

    La frana di pietrisco travolse i predoni.

    Ash e Sam urlarono.

    Castello Imperiale, Nemhea

    La lama vorticò in aria.

    Janosh sfilò di lato, quasi carezzando il metallo che lo circondava.

    La sua era una danza con la morte che lo esaltava.

    Contrattaccò con rapidità e violenza, costringendo il suo avversario a indietreggiare, a sbilanciarsi, a perdere la presa sulla sua spada, che volteggiò lanciando sciabolate di riflessi, prima di piantarsi nella terra battuta del cortile degli addestramenti.

    Janosh Krannigan allungò la punta d’acciaio verso la gola dell’avversario, una semplice guardia che si era prestata a fargli da compagno per allenarsi.

    Il ferro gli punse la pelle.

    Sudore freddo sulla fronte. Non per la fatica.

    Era paura.

    Janosh rideva sotto i lunghi capelli biondi e il volto angelico si deformava in una smorfia demoniaca.

    Non era il sorriso di chi ha dimostrato la propria superiorità ma quello di chi pregusta la fine del nemico.

    Lui era il secondogenito dell’Imperatore. Aveva ripreso

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