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Portatori di caos
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Portatori di caos
E-book269 pagine3 ore

Portatori di caos

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Fantasy - romanzo (207 pagine) - Iniziarono la Guerra per un qualche motivo, ma poi lo dimenticarono e continuarono lo stesso a combattersi.


Qualsiasi cosa univa gli uomini davanti ai fuochi primordiali, o sulle grandi navi nel vuoto, é morta qui, su N’il.

Avevamo una prima città, ma i Portatori di Caos l’hanno rasa al suolo. Eravamo un popolo, ma a causa dei Portatori di Caos ci siamo spezzati in tante fazioni.

Temevamo i Portatori di Caos, ma iniziammo a combatterli, a morire, a impare e poi a vincere, a cannibalizzare e poi riprendere a combattere.

Ci siamo smarriti in un ciclo di violenza e abiezione.

E quando la speranza è tornata a brillare, oltre le mura di Dreados, a quella luce ci siamo scoperti indegni e degenerati.

A voi che sapete capire i segni vergati, e scoprire la nostra storia, non chiedo assoluzioni per i crimini della mia gente, ma un poco di indulgenza, e misericordia."


Jari Lanzoni è nato a Castel San Pietro Terme nel 1975. Ha pubblicato diversi racconti e un romanzo fantasy, Domatori di Draghi. Su licenza di Valerio Evangelisti, ha sviluppato il gioco di ruolo Il Mondo di Eymerich, basato sul ciclo di romanzi dell’Inquisitore Nicolas Eymerich. Istruttore presso la Sala d’Arme Achille Marozzo – Istituto per lo Studio della Scherma Antica, ha collaborato alla Trilogia di Magdeburg di Alan D. Altieri, in qualità di consulente per le sequenze di combattimento.

LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2024
ISBN9788825427608
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    Anteprima del libro

    Portatori di caos - Jari Lanzoni

    È più importante conquistare una verità che un trono.

    Democrito

    Prologo

    I Campioni

    Dodici anni prima

    Ghentar levò le braccia sopra il capo, diede fondo alle ultime forze e si scagliò in avanti, spingendo la punta del Gran Corno di Barr nel muro di carne che pulsava davanti a lui. Il Corno era un Artefatto grande, pesante, arcaico, formato da un lungo cono osseo dalla strana forma irregolare, che si maneggiava tramite due impugnature squadrate. Le mani grandi e dure del guerriero le stringevano con forza, cercando di non perdere la presa per il sangue di Runnh il Bruno, il precedente portatore del Corno, che lordava la parte inferiore dell’arma.

    Il puntale lavorato dagli alchimisti Jabbar affondò nel fianco della gigantesca creatura che gemeva, ventre a terra, fiaccata dalle orribili ferite che le avevano scavato le membra. Ghentar perse la presa sul corno quando questi scomparve quasi del tutto nel grande corpo martoriato. Subito un denso fiotto di sangue violaceo, dal forte odore vegetale, scaturì dalla pelle divelta ricoprendo il guerriero dalla testa ai piedi.

    Il collo allungato del mostro, un essere simile a un rettile obeso con gli arti sottili, frustò il terreno svettando poi in cielo con un grido stridulo.

    Quasi del tutto accecato dagli umori, Ghentar barcollò indietro di qualche passo mentre una sensazione oscena prese a risalirgli dal ventre. E nessun dolore. Lo squarcio bruciante sotto lo sterno, inferto pochi istanti, prima dal Portatore di Caos, sembrò scoppiare di colpo assieme a ciò che restava della corazza toracica. Il rumore umido che udì doveva essere quello delle viscere che toccavano terra. L’odore pungente degli escrementi lo stordì un poco. E non sentiva alcun dolore.

    La creatura lanciò un nuovo grido di dolore.

    Barcollando all’indietro, il Campione dell’insediamento di Vanai si passò una mano sugli occhi, ma la morbida benda della morte lo stava già stringendo, confondendogli la vista. Il suo ventre era un buco freddo. Cosa lo tenesse ancora in piedi era un mistero. Ringraziò mentalmente le piccole mani delle schiave di Drutha e le paste di chico che gli avevano preparato in vista dello scontro. Erano palline piccole e nere, amarissime ma capaci di far scomparire ogni dolore e risparmiargli una sofferenza atroce.

    In quel mondo di immagini confuse solo i rumori avevano una qualche valenza. Immerso in un caleidoscopio sfumato, Ghentar sentì che la coda appuntita dell’essere riprese vita frustando di nuovo contro il terreno, sollevando nugoli di pietre o sbriciolandole di colpo.

    E poi un suono sfrigolante. La mascella quasi spezzata del Campione piegò la bocca in una sorta di sorriso. Il Gran Corno di Barr continuava a penetrare il mostro, inesorabilmente, sciogliendone la carne come acido. Non avrebbe smesso di affondare nelle membra fino a quando il suo puntale non avesse trovato aria, o pietra.

    Cercò di ripulirsi gli occhi dall’icore, ma non era tanto la sostanza organica a nascondergli le immagini del mondo, quanto la vita che se ne stava andando portandosi via bordi e forme nitide, lasciando solo un impasto confuso di colori.

    Si voltò verso il bagliore morente del Muro di Luce, il quale dominava l’orizzonte.

    N’il non aveva un sole.

    Usando come riferimento l’orizzonte irradiato da un intenso color arancio, Ghentar cercò la sagoma lattea delle alte mura di Vanai, simile a una strana sequenza di angoli spezzati accostati l’uno di fianco all’altro. Ormai non restava nessuno che potesse spiegare il perché di quella strana antica forma di fortificazione. Oltre la pietra bianca, Frena, sua figlia, attendeva. Attendeva gli Araldi che ora erano ridotti a polpa. Attendeva i Campioni i cui corpi iniziavano già a perdere la rigidità seguente al decesso. E attendeva lui.

    Qualcuno pronunciò il suo nome, o almeno lo balbettò.

    Ghentar si voltò verso sinistra, cercando di trovare la fonte di quel bisbiglio umido. La prima cosa che vide fu il corpo di Thulk, o quanto ne era rimasto: al di sopra dello sterno vi era solo carne macinata. Tutt’intorno erano disseminati i resti degli altri Campioni dell’insediamento Vanai. Se-Ser il Rosso, Limer-sette-denti, Bastoll, Prie L’lhamach, Horilin di Drakkai e la lista continuava. I brandelli di una grande, terribile battaglia.

    – Signore? – mugolò la voce incerta.

    – Sillach – gorgogliò il corpulento guerriero, fissando una sagoma confusa e collegandola nella propria testa alla fisionomia esile del giovane. – Sillach!

    Un velo buio prese a calare, Ghentar udì uno strappo e il fetore delle interiora aumentò di colpo. Capì di essere caduto in ginocchio. Strinse i denti, spezzandone alcuni, e nel suo orgoglio di Campione Vanai trovò la forza di rizzare la schiena.

    – A… Allora – La sua voce era impastata. – Allora hai visto, ragazzo? – Deglutì una boccata di sangue denso. – Lo dirai, vero? Dirai a tutti che cosa hanno compiuto i Campio – Non finì la frase. Per Ghentar tutto scomparve in quell’istante. Il suo corpo venne ridotto a una pozza di polpa viva dall’ultimo guizzo della coda del mostro.

    Sillach, un efebo pallido, cadde a sedere. Lui era un osservatore, un supplice, un gregario. Riferiva e obbediva agli ordini, nulla di più. Quel giorno, però, il destino l’aveva scaraventato in un brandello di mondo che non obbediva ai ritmi lenti della sua vita. Sfuggito alla distruzione del carro degli Araldi, aveva atteso tremante dietro rocce che si spezzavano, o tremavano quasi fossero vive, l’esito della battaglia. L’odore del sangue lo aveva raggiunto aumentando a mano a mano d’intensità, fino a fargli vuotare le budella.

    Quando aveva lasciato il rifugio di fortuna si era trovato in uno scenario che pensava appartenere solo all’Ephé, l’inferno di N’il. E pochi istanti dopo, davanti ai suoi occhi, l’ultimo difensore della città era stato schiacciato come un grasso pezzo di carne di Boma.

    Il ragazzo avvertì l’eco di quello schianto fin dentro alle proprie ossa. La vescica gli cedette all’istante, lordando la lunga tunica color panna del proprio ordine.

    A una quindicina di braccia da lui giaceva l’immenso corpo di un Portatore di Caos, il Vagatore, accasciato sul fianco destro. Il grosso ventre era un puntaspilli di lance e lame spezzate di spadoni, i sei lunghi arti mobili ridotti a poco più che moncherini gorgoglianti di icore giallastro. La coda lunga e terribile, spaccata in due dopo aver inferto l’ultimo colpo, fremeva in preda a spasmi irregolari, spargendo sulle pietre bianche i resti organici di Ghentar che ancora la lordavano.

    Solo il collo allungato dava ancora segni di vita, se quell’intrico di lame, organi e placche di metallo poteva essere definito vivo. Il volto, al termine dell’appendice allungata, era umano. La bocca assurdamente piccola e circolare, gli occhi enormi, il naso appena accennato. Era solo un frammento di similarità con i membri della specie che aveva decimato. Un frammento appena in un corpo alieno, ma inequivocabilmente umano. Umano. E specchio di una vitalità ancora non spezzata.

    Sillach raccolse tutto il coraggio che aveva e riuscì a rimettersi in piedi. La sua nuca, nuda e pallida, era madida di sudore. Non si accorse delle chiazze di orina che continuavano ad allargarsi sotto le vesti, all’altezza del pube. Seppur confusamente, sapeva quello che doveva essere fatto.

    Se un Portatore di Caos non veniva stroncato del tutto il suo corpo prendeva a ricostruirsi.

    Lo sapevano tutti.

    Il Vagatore era sul ciglio della morte, ma ancora non cedeva. Sillach doveva spingerlo oltre la bocca dell’Ephé, o per lui e i Vanai non ci sarebbe stato alcun futuro.

    I Portatori di Caos odiavano gli umani e lottavano fino allo stremo per distruggerne gli insediamenti.

    Lo sapevano tutti.

    Vincendo la ripugnanza, il giovane barcollò fino a una lunga lancia, sottilissima e quasi trasparente, che giaceva in mezzo a rocce infrante. Due mani inguantate stringevano ancora l’impugnatura. Uno degli arti del mostro aveva mutilato Ghighyas all’altezza dei gomiti. La volontà del Campione sembrava impregnare ancora quelle dita, perché Sillach rischiò più volte di svenire nel cercare di rimuoverle.

    Le bestia ferita emise un lungo gemito, qualcosa di acuto e straziante.

    La Luce di Ivor non aveva peso. Stringendola tra le mani, Sillach scoprì che la leggenda su quell’Artefatto a forma di lancia era vera. Respirò a fondo, cercando di vincere il panico, poi attinse alla disperazione convincendo le proprie gambe a muoversi. Finì con il compiere una strana corsetta traballante, ridicola in un altro contesto, lancinante in quel panorama di morte.

    Il Vagatore sollevò lentamente la testa, avvertendo la presenza di quel paladino dal fare incerto. La bocca circolare emise una sorta di fischio stridulo, poi scattò verso il giovane con un guizzo fulmineo. Sillach ebbe appena il tempo di capire cosa stesse succedendo. Il capo della creatura sembrò mancarlo sul fianco destro, ma in realtà l’intero collo gli si avviluppò attorno alle gambe. Tutto in un secondo. Una stretta disperata, uno strappo e il ragazzo cadde a terra, orribilmente mutilato. L’agonia sembrò ridurgli le mani a morse d’acciaio, strette sulla Luce di Ivor.

    Vide confusamente la testa del Vagatore allontanarsi di colpo, pronta a prendere forza per lo scatto successivo. Sillach gridò, le braccia pesanti come piombo. La testa della lunga arma cadde in basso, a destra. Il mostro fece schioccare il colpo, ebbro di rabbia, ma la facile preda riuscì a sollevare la lancia trasparente in un ultimo guizzo. Il puntale si piantò a metà del collo e il moto della creatura allargò il foro in uno squarcio terribile. Organi irriconoscibili e scaglie di metallo volarono in cielo.

    Sillach apriva e chiudeva la bocca, un movimento automatico. Il peso del metallo sul petto lo soffocava, mentre ciò che restava della propria razionalità veniva strappato via dal dolore. Sentì qualcosa muoversi vicino alla sua spalla sinistra e vide il volto del Portatore di Caos accanto a sé. Strisciava su quanto restava del collo come un serpente.

    Il giovane cercò di articolare un urlo, ma la voce scomparve quando sentì le parole della creatura. Fissò incredulo il viso del mostro, sempre più vicino a lui, poi avvertì la pressione di quelle piccole labbra circolari sulle sue.

    Prima di morire sentì un forte sapore di agrumi.

    Prima Parte

    La Reliquia

    Capitolo 1

    Scintille

    Kella sussultò per l’ennesima scarica. Strinse i denti e gli parve di sentire qualcosa carezzarle i capelli color fuoco. Non poté che emettere un sospiro di rassegnazione.

    Allungò ancora il braccio destro tenendo la propria arma con il taglio verso il basso. La giovane donna impiegava la caratteristica spada Dharca, nulla più di una piastra squadrata larga un palmo, affilata su tre lati, con due scanalature interne e una impugnatura priva di guardia. Iniziò a caricare un colpo portato di spalla, da destra verso sinistra richiamando alla mente gli insegnamenti del Maestro Garissa: – Bisogna ogni giorno assuefarsi a colpir di taglio o cosi dritto come riverso in qualche legno piantato o altra cosa per tale esercitio accomodato, et sempre si userà di prima far il giro della spalla che è il più forte taglio che si possa menare ma il più tardo, et subito dietro a quello si farà il giro del gombito, poi quello del nodo della mano, il quale è più d’ogn’altro presto…

    Il taglio sbrecciò un poco un vecchio ramo dal legno duro come la pietra, poi un secondo colpo provenne dalla parte opposta, sempre di taglio. In lontananza sentì il crepitare di una nuova scarica, ma non ci fece caso. Una nuova coppia di colpi, questa volta portati solo di gomito. Pezzetti color legno scuro schizzarono in aria. Ultima sequenza: braccio esteso al massimo, caricamenti solo di polso, due tagli rapidi come un batter di ciglia.

    Appena in tempo.

    La nuova scarica la colse con il braccio proteso e quasi perse la presa sulla spada. Strinse i denti, di nuovo, sbuffando saliva schiumosa e trattenendo una violenta imprecazione. Il dolore non era nulla per un mercenario Dharca, ma tutte quelle sollecitazioni le stavano facendo impazzire la vescica e, per quanto in lei la femminilità non fosse che un inutile orpello, pisciarsi addosso davanti al nuovo mecenate non era un bel modo per presentarsi.

    Questi, un individuo magro avvolto in lunghe vesti da Magicante, le dava le spalle sedendo su una grande pietra al principiare di una brulla spianata rosseggiante che confinava con l’ampia macchia di erbe crepitanti. Kella lo fissò per un istante, invidiando quella roccia che lo salvava dallo strazio delle scariche. Ma gli ordini erano di restare al sicuro in quel prato verdastro e per una Dharca la disciplina veniva prima di ogni altra cosa.

    Kella vide altre scariche zigzagare e disperdersi nell’ampio manto erboso. Una sgradevole particolarità delle erbe crepitanti era, appunto, l’infinita sequenza di tensioni azzurrine che i lunghi steli emettevano a intervalli irregolari. Secondo la loro guida, una Nure di nome Noria, era un modo tramite cui le erbe parlavano tra di loro. Kella non lo metteva in dubbio ma, salvo la lubrica frenesia impollinatrice di qualche insetto ronzante o una chiazza di caldi escrementi animali, dubitava che gli argomenti di qualche ciuffo di steli titillanti fossero così importanti da giustificare quelle maledette scosse.

    La Dharca riprese a mulinare la spada, ma quasi di malavoglia. La mancanza di azione era veleno per lei. Un vento secco le carezzò il volto, provocando un po’ di scompiglio tra le erbe.

    Noria, la Nure, stava al margine tra il manto di steli e la spianata pietrosa, china e con le gambe in tensione. Ormai era in quella posa da ore, toccando spesso il terreno con i polpastrelli nudi. I muscoli delle cosce dovevano farle un male atroce. La sua tensione era palpabile. Il sudore le colava sul viso, attorno alla caratteristica cicatrice Nure sotto l’occhio sinistro. Lungo la linea regolare del taglio era visibile una sorta di cratere di carne abrasa, dove un tempo era stata fissata una perla di metallo per l’apprendimento alla Magia, il nuovo nome della vecchia Scienza. E poi rimossa con ignominia.

    Kella spiò con la coda dell’occhio cosa stesse combinando l’altro mercenario che completava il gruppo.

    Il guerriero Kalada, lo Schildjer, sedeva a gambe incrociate nei pressi della loro chahss, la tipica tenda da nomadi di N’il, lasciando che il peso della sua corporatura possente gravasse sul grande Scudo da Taglio, attorno a cui le scariche scivolavano via. Fino a poco prima aveva pulito l’enorme arma-scudo e ora sembrava dedicarsi solo al paesaggio, rimirando in silenzio quel grande mare di pietra e sabbia rosso sangue. Ogni tanto portava alla bocca l’otre di vino giallastro, traendo brevi sorsate.

    Tutt’intorno non c’erano altro che grandi e disordinate chiazze di manto erboso che quasi infestavano il circostante panorama pietroso. In lontananza si vedevano sagome di montagne, confuse con il bagliore del Muro di Luce.

    Non si udiva che il rumore del vento.

    La giovane mercenaria allargò le braccia, stiracchiandosi e lanciando un sonoro sbadiglio. Lasciò cadere la spada e scrollò il capo come una bestia randagia. – Ti sei addormentato, bestione? – chiese al Kalada. – Qui c’è una cappa di seriosità irritante, sai?

    Lui socchiuse appena gli occhi neri, lanciandole appena un mezzo sguardo.

    Kella sferrò un paio di calci a un folto ciuffo d’erba. – Se il resto della giornata prosegue così – si diede una pacca sul sospensorio di cuoio imbottito che le proteggeva il pube – me la faccio chiudere con degli anelli di bronzo e corro a vivere con le schiave dei pozzi di spore dei sogni! Almeno ogni tanto posso uscire e lanciare qualche urlo liberatorio.

    – Sei talmente goffa che finiresti per volare già da qualche crinale sotterraneo – la derise il guerriero. – Almeno risparmiati il tormento di inanellare quel tuo povero fiore rinsecchito.

    Lei sorrise snudando i canini e tenendosi una mano sul sesso.

    – Intanto è bastato a farti distrarre una volta di troppo, perdente – lo canzonò lei. – Ricordi? – Serrò le mascelle e allungò il mento, poi si passò l’indice da sotto il collo fino alla punta del mento, con un sorriso malizioso e quasi bambinesco.

    Ren’Thir, lo Schildjer, aggrottò la fronte. La stessa linea, sul proprio viso, indicava una cicatrice ancora fresca che da sotto il labbro inferiore correva verticalmente fino a metà del collo. Un pessimo ricordo. Lui allungò la mano destra, indice e medio protesi sopra il pollice, poi fece un piccolo gesto secco, come se avesse spezzato qualcosa tra le dita. Qualcosa che era successo in passato, tra loro due. Sorrise.

    La Dharca si morse il labbro inferiore, poi piegò la bocca in un’espressione amara. – Avevo impiegato parecchio a costruire quell’arma, idiota! Sarebbe bastahhh! – Kella si voltò di scatto, con le mani chiuse a coppa sulla bocca. Il sapore ferroso del sangue le invase subito il cavo orale mentre due denti presero a dolerle tremendamente.

    Dopo essere rimbalzato sui denti, il sassolino lanciato da Noria doveva essere finito chissà dove. Il gesto della viaggiatrice era stato fulmineo e ora tornava a vegliare l’orizzonte dando la schiena ai compagni. – Una lingua troppo slegata è peggio delle scoregge di cane – Commentò, senza derisione o ironia.

    – Ma perché l’hai colpita?

    Il mecenate, che in un primo tempo pareva quasi indifferente alle schermaglie dei suoi servitori, si era alzato in piedi e prese a scendere lentamente dalla pietra. Lanciò a Noria un sorriso quasi bambinesco. – Su tutto questo silenzio Kella ha pienamente ragione, sai? – disse, allargando le braccia.

    Lei rispose con uno sguardo atterrito. – Sillach, ora… – deglutì a fatica. – Ora… proprio adesso… abbiamo ben altro a cui pensare! – Respirava nervosamente, con il volto imperlato di sudore. I suoi occhi si fissarono su un punto indistinto dello sfondo deserto.

    Pulendosi la bocca sporca di sangue, Kella ne sputò un fiotto scuro. – Puttana Nure – gorgogliò. – Sai che diciamo noi Dharca della tua gente?

    L’altra non rispose, troppo rapita da quanto stava accadendo.

    – Stanno… loro stanno…! – strillò la Nure al proprio signore; poi tornò ad abbassarsi, quasi schiacciandosi sul terreno. Pareva in tutto e per tutto un insetto spaventato.

    Ren’Thir trattenne il fiato. Partecipe di quella tensione, era rimasto immobile ma con le mani strette attorno al grande scudo. Il nervosismo gli aveva fatto dimenticare le precedenti raccomandazioni di Noria. Quando si rese conto del pericolo che correva lasciò subito la lunga impugnatura, restando con le braccia lungo i fianchi e i palmi rivolti verso terra.

    Sillach si voltò verso il deserto, fissando il vuoto. Aggrottò la fronte e arricciò il labbro inferiore. – Adesso, dici?

    Kella si guardò attorno. Nulla. – Mi hai sentito, vagabonda? – insistette.

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