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Al lavoro con il cuore: Impara ad amare il tuo lavoro e vivi più felice
Al lavoro con il cuore: Impara ad amare il tuo lavoro e vivi più felice
Al lavoro con il cuore: Impara ad amare il tuo lavoro e vivi più felice
E-book338 pagine4 ore

Al lavoro con il cuore: Impara ad amare il tuo lavoro e vivi più felice

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Info su questo ebook

Una guida pratica per vivere bene al lavoro, basata sul popolarissimo corso tenuto dall’autrice presso la Stanford Graduate School of Business.

Al giorno d’oggi, nei luoghi di lavoro, i tradizionali confini tra "lavoro" e "vita privata" non sono realistici né rilevanti: rimaniamo in ufficio fino a tardi, lavoriamo nel weekend, rispondiamo da casa a e-mail e telefonate, e quando torniamo in ufficio il lunedì mattina lo stress della gestione familiare – figli piccoli, genitori anziani, difficoltà economiche – non svanisce.
La verità è che non ci presentiamo al lavoro con una sola parte di noi stessi: inevitabilmente ci portiamo dietro tutto quanto. In Al lavoro con il cuore Leah Weiss, esperta di mindfulness e ideatrice del seguitissimo corso della Stanford Graduate School of Business dal titolo Leading with Mindfulness and Compassion, spiega perché questa falsa separazione tra vita e lavoro può essere distruttiva sia per la salute mentale che per il successo professionale.
La cattiva notizia è che nulla offre alle emozioni negative – ansia, rabbia, invidia, paura e paranoia, tanto per citarne alcune – maggiori opportunità delle dinamiche del mondo del lavoro. Ma la buona notizia è che questi sentimenti non sono necessariamente ostacoli e, anzi, possono rivelarsi delle risorse.
La strada verso la produttività e il successo, dice Weiss, non è tanto cambiare lavoro, compartimentalizzare le emozioni, o crearsi una facciata professionale di comodo, quanto piuttosto ascoltare ciò che i sentimenti ci suggeriscono. Utilizzando le tecniche della mindfulness, possiamo imparare ad affrontare e gestire le difficoltà senza che ci schiaccino, e individuare valori e obiettivi che ci permettano di dare un senso anche alle mansioni più umili.
Al lavoro con il cuore offre una serie di strategie concrete e basate sull'evidenza per applicare la mindfulness al mondo reale, e insegna ai lettori non solo a sopravvivere alla routine quotidiana, ma anche ad abbracciarla.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2018
ISBN9788858983027
Al lavoro con il cuore: Impara ad amare il tuo lavoro e vivi più felice

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    Anteprima del libro

    Al lavoro con il cuore - Leah Weiss

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    How We Work

    Harper Wave

    An Imprint of HarperCollins Publishers

    © 2018 Leah Weiss

    Traduzione di Carla Storti

    Realizzazione editoriale: studio pym / Milano

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A.

    © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-302-7

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Questo libro è dedicato a chiunque abbia mai sofferto di tristezza domenicale. È finalmente arrivato un lunedì diverso.

    L’amore e la compassione sono una necessità, non un lusso. Senza di essi, l’umanità non può sopravvivere.

    Dalai Lama

    INDICE

    Introduzione

    PARTE PRIMA

    LAVORARE CON UN PROPOSITO È POSSIBILE

    1. Sanare gli ambienti di lavoro tossici

    2. Lavorare momento per momento

    3. Il Proposito (con la P maiuscola)

    PARTE SECONDA

    ANDARE IN UFFICIO CON TUTTO IL NOSTRO IO

    4. Coltivare la compassione

    5. Affrontare noi stessi

    6. La saggezza delle emozioni

    PARTE TERZA

    FALLIRE E RIFLETTERE

    7. Fallire meglio

    8. Il coraggio ci rende più resilienti

    9. Imprese guidate da un proposito

    Ringraziamenti

    Note

    Indice analitico

    INTRODUZIONE

    Un calzolaio passava giornate lunghe e noiose riparando scarpe. Lavorava per ore che gli sembravano infinite in cambio di un compenso modesto e, nel corso degli anni, l’implacabile monotonia e la difficoltà di sbarcare il lunario lo riempirono di frustrazione. Il lavoro gli pareva un vicolo cieco, ma non aveva le risorse né i contatti giusti per approdare a una carriera più soddisfacente o remunerativa. Un giorno incontrò un maestro che gli fornì suggerimenti tanto semplici quanto profondi per dedicare un’attenzione nuova alla sua professione. Dato che non aveva nulla da perdere, il calzolaio mise in pratica quei consigli quotidianamente, si concentrò in modo diverso sui compiti che svolgeva e, con il passare del tempo, la sua esperienza del lavoro cambiò in modo radicale. A essere cambiato non era il suo impiego, bensì lui stesso.

    Il calzolaio di questa parabola è vissuto più di mille anni fa, ma la sua storia è giunta fino a noi e in molti ci rivediamo nelle sue difficoltà. Un po’ perché dedichiamo gran parte del nostro tempo al lavoro e un po’ perché l’ambiente lavorativo, per sua stessa natura, è quello in cui rischiamo più spesso di sentirci scoraggiati, delusi, annoiati, sopraffatti, invidiosi, imbarazzati, ansiosi, irritati, indignati e timorosi di dire ciò che proviamo davvero. Che ci piaccia o meno, che ne siamo consapevoli o meno, il lavoro suscita in noi delle emozioni, e il modo in cui ci fa sentire e lo affrontiamo è importante: per noi, per i nostri amici e famigliari, per la qualità del nostro rendimento e in ultima analisi per il successo dell’azienda per cui lavoriamo.

    La brutta notizia, che in una certa misura non ci sorprende, è che il lavoro può generare sofferenza.

    Da un recente rapporto di Gallup (il più grande database di ricerche in ambito lavorativo del mondo) è emerso che le vecchie modalità di lavoro (valutazioni annuali, classifiche dei dipendenti, competenze antiquate) non sono più in grado di raggiungere i risultati auspicati. La forza lavoro americana è composta da più di cento milioni di impiegati a tempo pieno, e Gallup definisce un terzo di essi coinvolto nel lavoro: amano il proprio impiego e, giorno dopo giorno, rendono le loro aziende – e l’America stessa – migliori. Il 16 percento dei dipendenti, tuttavia, risulta attivamente non coinvolto, ovvero è insoddisfatto del proprio impiego e ostacola ciò che i più coinvolti costruiscono. Il restante 51 percento dei dipendenti è non coinvolto: si limita cioè a svolgere il proprio lavoro. Sono convinta che questi dati dimostrino come la filosofia lavorativa americana attualmente in vigore non funzioni più, e sorge spontaneo chiedersi se il calo produttivo della nazione non esiga una profonda trasformazione dell’ambiente di lavoro per essere sanato. In effetti il rapporto di Gallup consiglia alle aziende, tra le altre cose, di passare da una cultura dello stipendio a una cultura del proposito.

    In un’altra ricerca, lo State of Enterprise Work Report del 2016, il 76 percento dei lavoratori interpellati ha dichiarato di lavorare principalmente per poter pagare conti e bollette. Allo stesso tempo, però, il 92 percento di essi ritiene importante svolgere un lavoro gratificante.

    Tante persone non si rendono conto del fatto che questi due obiettivi (guadagnare uno stipendio e avere un proposito) non si escludono a vicenda, eppure molti di noi sono non coinvolti o, peggio, vivono una sofferenza profonda. Paradossalmente, applicare la mindfulness alla nostra esperienza lavorativa, cioè esserne consapevoli – avvertire persino l’insoddisfazione, il distacco e l’ambivalenza che proviamo – è il primo passo per capovolgere la situazione. Perché la mindfulness, in fondo, non è altro che l’attenzione che prestiamo alle nostre emozioni.

    Le tradizioni contemplative come il buddhismo hanno sempre riconosciuto il valore della mindfulness e, in tempi più recenti, gli scienziati hanno individuato dei metodi per studiarne e quantificarne i benefici. Da oltre un decennio insegno la mindfulness come strumento per la crescita personale e professionale; negli ultimi anni tengo un corso, chiamato Leading with Mindfulness and Compassion (Essere leader con mindfulness e compassione), alla Graduate School of Business di Stanford. Uno dei miei studenti, sentendo il titolo, ha commentato: «Non si tratta di assurdità hippie, vero?». In realtà, la mindfulness è una capacità fondamentale per tutti i giovani che aspirano a diventare leader, ed è tra le qualità personali che rientrano nelle cosiddette soft skills (competenze trasversali), espressione creata nel 1972 per definire le competenze sociali e interpersonali alla base della nostra capacità di lavorare con successo con gli altri. Secondo i responsabili delle risorse umane, le più importanti riguardano comunicazione, adattabilità, creatività e contegno.

    Nel 2015 il Wall Street Journal¹ ha condotto un sondaggio che ha coinvolto circa novecento dirigenti. Per il 92 percento di essi le competenze sociali sono importanti quanto quelle tecniche, se non di più, ma la vera sorpresa è che l’89 percento ha anche detto di avere difficoltà a trovare dipendenti dotati di soft skills. In maniera analoga, in un sondaggio promosso da LinkedIn, il 59 percento dei 291 responsabili delle risorse umane intervistati ha dichiarato di faticare a individuare candidati con straordinarie competenze sociali, e il 58 percento ha affermato che ciò limita la produttività delle aziende per cui lavorano.²

    Le strategie testate per millenni e fondate su prove che illustro ai miei studenti (e che illustrerò a voi) ci consentono di considerare il lavoro che svolgiamo come una possibilità per praticare la mindfulness e la compassione, guidate da un proposito superiore. Tali strategie non sono meccanismi di coping o metodi per ridurre lo stress e arrivare alla fine dell’ennesima giornata in ufficio; le propongo perché sono davvero in grado di migliorare le nostre esperienze sul posto di lavoro e nella vita in generale.

    Oggi i confini che un tempo dividevano l’ambito professionale da quello personale (carriera e famiglia, affari e piacere, persino – come vedremo – sacro e profano), un po’ come il fischio dello pterodattilo che annunciava la fine della giornata lavorativa di Fred Flintstone, non sono più realistici né significativi rispetto al modo in cui lavoriamo o vorremmo lavorare. A tutti noi piacerebbe svolgere un lavoro importante ed essere importanti per il nostro lavoro: che siate il dipendente di una grande azienda, un freelance, un insegnante, un fornitore di assistenza sanitaria o un responsabile di fondi speculativi, è molto probabile che il vostro lavoro vi interessi anche fuori dell’orario d’ufficio. Benché gli orari flessibili siano ambitissimi e possano contribuire ad aumentare il livello di coinvolgimento, rendono anche più deboli i confini tra il lavoro e gli altri ambiti delle nostre esistenze.

    Cosa possiamo fare in una situazione del genere?

    Nella lingua tibetana, i concetti di cuore e mente vengono espressi con la stessa parola. La pratica della mindfulness, o lojong, è spesso tradotta come allenamento della mente, anche se io preferisco parlare di allenamento di mente e cuore. Il sistema del lojong fu divulgato da Chekawa Yeshe Dorje, maestro di meditazione del XII secolo, secondo cui la pratica integrata (che permette cioè agli studenti di praticare ovunque, a prescindere dall’attività che stanno svolgendo) sarebbe stata adatta anche ai lavoratori. In questo approccio l’insegnante incontra gli studenti ovunque si trovino: bordelli, campi di battaglia, scuole, posti di lavoro, monasteri, bar. (Ciò non significa che l’insegnante consigli agli studenti di restare al bar: è soltanto un punto di partenza.) Voi, per esempio, potete iniziare nel luogo in cui vi trovate in questo momento: l’allenamento alla mindfulness – lo dicono anche le più recenti ricerche svolte nell’ambito della neuroscienza e delle scienze comportamentali – va bene per chi viaggia in treno o in metropolitana verso l’ufficio, a chi siede alla scrivania o dietro una cassa.

    Questo libro parla del modo in cui lavoriamo. Se prestiamo attenzione ai pensieri che formuliamo e ai sentimenti che proviamo rispetto a ciò che facciamo, essi possono diventare la nostra risorsa più valida per sviluppare coraggio, creatività e resilienza, e dare un senso alle nostre azioni. Quando sente la parola mindfulness la maggior parte delle persone pensa subito alla meditazione, quella pratica che prevede di stare seduti senza fare nulla, che naturalmente non è appropriata per un posto di lavoro (se non durante le pause). Questa prospettiva è però troppo ristretta. La parola tibetana gom, solitamente tradotta come meditazione, può essere intesa in senso più letterale come familiarizzazione. Dimenticate l’incenso e la posizione del loto, dimenticate suggerimenti come liberatevi dai pensieri e siate introspettivi. In senso più ampio, e per molte persone, meditazione significa conoscere la propria mente e il proprio cuore. Quando è svolta correttamente, ci permette di scoprire i luoghi che la mente visita e, con il tempo, di imparare a far sì che si concentri su ciò che vogliamo. Grazie alla meditazione capiamo cosa desidera davvero il cuore e affiniamo la nostra capacità di ascoltarlo. Seguendo questa definizione è possibile praticare la meditazione ovunque e in qualsiasi momento. Il lavoro diventa quindi un’occasione per allenarci a coltivare intenzioni più consapevoli e compassionevoli, e per ritenerci responsabili di tali intenzioni nel modo più gentile possibile. Compiendo queste scelte con regolarità, i nuovi atteggiamenti ci risulteranno sempre più familiari, trasformandosi così in abitudini. Da questa prospettiva la meditazione non è solo compatibile con il lavoro: possiamo addirittura considerare il lavoro stesso una forma di meditazione, dato che ogni istante della giornata lavorativa è un’opportunità per allenare mente e cuore a seguire abitudini positive.

    Mi piace dire che il lavoro è una forma di meditazione perché capovolge l’idea che meditare significhi stare seduti senza fare nulla. In generale, uso più l’espressione allenamento alla mindfulness che meditazione perché, insegnando a migliaia di persone dal background diverso e in tantissimi contesti differenti, ho imparato che la parola meditazione porta con sé troppi significati che la appesantiscono e la fanno apparire noiosa. (Una volta ho fatto un errore e, anziché mindfulness, ho scritto mindfunless. Forse era il mio subconscio che cercava di dirmi di alleggerire un po’ i toni,* ma quella svista mi è sembrata appropriata: spesso la meditazione e la mindfulness vengono ingiustamente accusate di essere gli ennesimi compiti noiosi e pesanti da aggiungere alla lista delle incombenze quotidiane che con grandi sensi di colpa finiamo per ignorare.)

    Se dunque la meditazione ha ormai un unico significato per la maggior parte della gente (cioè stare seduti senza fare nulla), il concetto di allenamento alla mindfulness è al contrario piuttosto flessibile e abbastanza generico da racchiudere moltissimi approcci che riguardano il lavoro con mente, istinto e cuore, dalle pratiche formali in cui si sta seduti ai ritiri, fino agli esperimenti che coinvolgono il pensiero. Tutti questi metodi ci permettono di individuare i momenti e i luoghi interstiziali che già esistono nella nostra vita e in cui possiamo riprendere fiato, ovvero praticare ciò che la tradizione tibetana definisce meditazione naturale. Questa pratica non consiste nel chiudere gli occhi e sforzarsi di raggiungere la concentrazione a tutti i costi, bensì prevede di accedere a uno stato mentale familiare e sempre disponibile (una condizione che spesso ci sfugge perché la nostra mente è sovraccarica), di mettere a fuoco le proprie intenzioni e di immergersi in micro momenti capaci di cambiare la nostra prospettiva: tutte cose che possiamo fare in qualsiasi istante della giornata.

    Voglio mettere in chiaro che non sono affatto contraria alla meditazione da seduti. La insegno e la pratico, anche se con minore frequenza rispetto ai vent’anni, quando trascorrevo tre mesi all’anno in ritiri di meditazione silenziosa; ho trovato delle soluzioni che funzionano per la persona che sono adesso. In ogni caso, questa pratica non ha bisogno di ulteriori paladini, mentre esistono altre strade verso la mindfulness, meno conosciute e spesso fraintese, che meritano di essere divulgate.

    Nell’allenamento alla mindfulness non c’è distinzione tra ciò che è importante e ciò che è ordinario: possiamo lavorare su qualsiasi cosa. Le richieste incessanti e gli impegni della nostra quotidianità non sono ostacoli al nostro proposito, e anzi rappresentano possibilità per realizzarlo appieno. Grazie alla mindfulness, consideriamo le sfide come opportunità e gli avversari come insegnanti. Ci alleniamo a vedere il meglio negli altri e in noi stessi, non in modo ingenuo ma intenzionale e strategico. Assumendo questa prospettiva ci liberiamo da quella che definisco mentalità della mancanza, ovvero quella sensazione costante e assillante di non avere abbastanza tempo o risorse, di non essere all’altezza di vivere la nostra vita. Seguendo questa strada, tutto cambia benché non cambi nulla.

    L’aspetto più importante dell’allenamento tradizionale alla mindfulness è che insegna a riconoscere i propri pensieri e sentimenti per ciò che sono, anziché vederli come un qualcosa carico di un significato che dovrebbe definire chi si è. Significa non lanciarsi in una battaglia superflua e si tratta di un concetto molto importante, che ha ripercussioni estremamente pratiche sulla nostra quotidianità. Ammettere di aver paura del cambiamento ma ricordare il proprio proposito e le proprie intenzioni può fornire il coraggio necessario per accettare un nuovo lavoro o trasferirsi in un luogo inaspettato. Notare l’impulso di inveire contro un collega per poi ricordarsi di rispettare quell’individuo e la sua situazione può portare ad avere più alleati e meno rimpianti. L’allenamento alla mindfulness consiste nell’imparare a fare le cose in modo diverso. Nella tradizione buddhista, ma pure nella moderna psicologia, l’azione mentale è considerata a tutti gli effetti un’azione, con le stesse conseguenze di quella fisica.

    A quindici anni, spinta da domande sul senso della vita, scoprii la meditazione buddhista. Volevo capire perché al mondo ci fossero tante ingiustizie e cosa si potesse fare per annullare le disparità etniche, economiche e di genere. Intorno a me nessuno sembrava interessarsi a queste tematiche, mentre io non riuscivo a pensare ad altro; era una situazione frustrante. Alle superiori seguii un corso intitolato Letteratura dell’illuminazione, tenuto da un insegnante che praticava da tempo la meditazione. Allora incontrai per la prima volta il buddhismo tibetano, e fu come ritrovare un amico che avevo perso di vista: i concetti su cui si fondava erano i più sensati che avessi mai udito e mi ci identificavo molto. All’epoca però non praticavo con regolarità: fu solo a vent’anni che mi sedetti sul cuscino con maggiore determinazione, quando la meditazione diventò un modo per affrontare il dolore che stavo provando. Nel giro di poco tempo, infatti, a mio padre fu diagnosticato il cancro che avrebbe messo fine alla sua vita e una cara amica d’infanzia morì. Nei dieci anni seguenti partecipai a ritiri di meditazione della durata di tre e sei mesi, mentre studiavo per diventare un’assistente sociale, per laurearmi in Pastoral Counseling e conseguire un dottorato in Scienze della formazione e Teologia. Mentre scrivevo la tesi contattai Thupten Jinpa, interprete e traduttore del Dalai Lama, per fargli alcune domande sull’argomento che avevo a cuore: adattare le pratiche di compassione tibetane per soddisfare i bisogni di chi aveva subito dei traumi. A metà dell’intervista mi chiese perché mi interessasse la tematica, e così gli raccontai del lavoro che stavo svolgendo con i fornitori di assistenza sanitaria nel tentativo di risolvere i problemi legati alla sindrome da burnout. Lui mi invitò a un ritiro della durata di un fine settimana a Stanford, a cui avrebbe partecipato un team selezionatissimo di ricercatori e insegnanti. In men che non si dica mi fu proposto di diventare il primo direttore didattico del Center for Compassion and Altruism Research and Education (CCARE) di Stanford.

    Fu allora che contattai Pat Christen, amministratore delegato di HopeLab, per chiederle consigli su come organizzare e gestire il programma di formazione degli insegnanti del Compassion Center. HopeLab, un’organizzazione non profit di ricerca e sviluppo che punta a suscitare cambiamenti comportamentali attraverso la progettazione di videogiochi, era nato grazie all’intuizione della filantropa Pam Omidyar, secondo cui i videogame potevano aiutare i bambini malati di cancro. In seguito l’organizzazione aveva allargato il proprio campo d’azione per studiare la resilienza in senso più ampio, e le sue ricerche mostravano che il tipo di lavoro che svolgevo su compassione e mindfulness contribuiva a sviluppare la resilienza. In breve mi sono innamorata della cultura, dei contenuti e del team di HopeLab e, dopo aver dato alla luce altri due bambini, ho cominciato a lavorarvi a tempo pieno, collaborando con il Compassion Center ma concentrandomi soprattutto sulla ricerca, sulla scrittura e sullo sviluppo di un programma per la Graduate School of Business (GSB) di Stanford, oltre che a lavorare con i reduci di guerra.

    Mentre scrivevo questo libro, riesaminare l’idea originaria mi ha spinta a uscire sempre più dalla mia comfort zone. Mi sono posta una domanda, adottando una prospettiva generica: In che modo i principi che in origine hanno avuto un forte impatto sulla mia vita possono aiutare le persone a risolvere i problemi che gravano maggiormente sulle loro esistenze?

    Per la maggior parte dei praticanti della mindfulness, l’obiettivo non è semplicemente diventare più attenti e consapevoli. Si tratta di un percorso verso qualcos’altro. Le ricerche svolte da HopeLab sottolineavano che un forte proposito, i legami sociali e le azioni svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione della resilienza. Quando l’ho scoperto ho avuto un’intuizione: lo scopo ultimo era proprio il proposito, e le pratiche che avevo appreso (mindfulness, compassione verso se stessi e compassione in generale) aiutavano a raggiungerlo.

    Ho scritto questo libro nell’arco di cinque anni, e la mia vita si è evoluta insieme a esso. All’epoca ero la mamma di una bambina di dodici mesi e lavoravo a tempo pieno; ora sono la mamma di tre bambini – tutti sotto i sei anni – e lavoro a tempo pieno tra richieste professionali sempre più pressanti. La mia famiglia vive nella baia di San Francisco, una delle zone più costose del mondo, e né io né mio marito abbiamo scelto carriere particolarmente remunerative. La nostra casa non è molto spaziosa e quasi tutti i giorni (anche di notte, in realtà) il caos vi regna sovrano. Dato che sono una mamma che lavora, per la maggior parte del tempo sono una specie di giocoliere che cerca di far fronte come può agli impegni, sperando di riuscire a evitare disastri. E i genitori che ho conosciuto all’uscita da scuola e nei vari parchi della città mi hanno confermato quanto sia comune barcamenarsi con le scarse risorse in nostro possesso. Così, a ogni nuovo semestre scolastico, ho tentato di sviluppare approcci sempre più semplici alla pratica della mindfulness. Anziché rimproverarmi perché non medito per due ore ogni mattina, ho provato a adottare il punto di vista promosso da HopeLab: mettere a punto un intervento che nessuno può sfruttare nel mondo reale è inutile; è invece utile creare una versione di quell’intervento che, se applicata anche in minima parte, è in grado di generare un impatto.

    Questa rivelazione paradossale ha influenzato il modo in cui percepisco la mia pratica, il mio modo di insegnare e questo libro. E così a guidarmi è stata la domanda: Qual è il gesto più piccolo che una persona può fare per spostare l’ago della bilancia rispetto al dolore che sta provando? La maniera migliore per capirlo non era pensarci e parlarne, ma generare un’idea verosimile, creare un prototipo, metterlo alla prova nel mondo reale con individui reali e riflettere sulle lezioni che si potevano trarre dall’esperimento.

    All’improvviso ho visto le cose sotto un’altra luce: mi sono resa conto di avere un sacco di tempo da dedicare alla pratica, perché non avevo bisogno di ritagliarmene dal lavoro, dal ruolo di madre o dalla vita in generale. Al contrario il lavoro, la maternità e la vita stessa erano opportunità per attuare la pratica. Il buddhismo Mahāyāna ha un modo di dire: Porta tutta la vita sul sentiero. Se la liberiamo dai confini del cuscino, la meditazione può abbracciare la nostra intera esistenza.

    A noi occidentali ormai sfugge l’essenza della meditazione, che non ha mai previsto di stare seduti a occhi chiusi. Chi segue una pratica di meditazione rischia di dimenticare che l’obiettivo non è diventare più bravi a meditare, mentre chi non ha una pratica si chiede giustamente quale sia l’obiettivo. La stessa tradizione che ci ha donato la meditazione ha una metafora che spiega questa confusione: la meditazione da seduti è una barca che possiamo portare a destinazione. La barca è solo uno dei tanti mezzi di trasporto che ci permettono di raggiungere certi luoghi. Chi si lega troppo alla meditazione come mezzo fine a se stesso – cioè all’idea di diventare più bravo – e non fa che consigliare agli altri di meditare è come il povero stolto che, una volta raggiunta la riva, trasporta la sua barca sopra la testa anziché limitarsi a procedere a piedi. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando i leader buddhisti esiliati dal Tibet arrivarono in America e gli occidentali che avevano studiato in Oriente diffusero in patria ciò che avevano imparato, i libri di meditazione o i docenti che insegnavano la disciplina non sono mai mancati, al punto che tanta gente pensa di avere soltanto due scelte: trasportare la barca sulla testa oppure non giungere a destinazione. Questo libro parla di camminare, per così dire, ed è un promemoria della destinazione: l’obiettivo non è fuggire da questo mondo, bensì apportare maggiori benefici a noi stessi e agli altri.

    In sostanza non possiamo aspettare di avere più tempo per praticare la mindfulness. In qualità di madre di tre bambini, so che è pressoché impossibile aggiungere un ulteriore progetto alla mia vita. La lista di cose che non faccio per me stessa è lunghissima, e so bene di non essere l’unica in questa situazione. Malgrado la disciplina

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