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Ovunque con te
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E-book502 pagine7 ore

Ovunque con te

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Info su questo ebook

A volte la strada che più temi è quella che ti porterà a casa.


Emily ha diciassette anni ed è felice della propria vita così com'è: genitori amorevoli, buoni amici e un'ottima scuola in un quartiere tranquillo.
Certo, non può negare di essere curiosa riguardo al suo padre biologico, quello che ha preferito unirsi a un club di motociclisti – il Reign of Terror – piuttosto che essere genitore, anche se questo non significa che lei vorrebbe far parte di quel mondo.
Quando però una timida visita si trasforma in una lunga vacanza estiva tra parenti che non sapeva di avere, una cosa le è chiara: niente è come sembra. Né il club, né suo padre, e nemmeno Oz, un ragazzo dai magnetici occhi blu che forse può aiutarla a capire quella vita.

Oz desidera una cosa sola: unirsi al Reign of Terror. Loro sono quelli buoni. Proteggono la gente. Loro sono... una famiglia. E mentre Emily è in città, Oz glielo dimostrerà. Così, quando il padre di lei gli chiede di tenerla al sicuro da una banda rivale con un conto da regolare, per Oz è un sogno che diventa realtà. Ciò che non sa è che Emily potrebbe infrangerlo, quel sogno.

LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2016
ISBN9788858947715
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    Anteprima del libro

    Ovunque con te - Katie McGarry

    1

    Emily

    I tre momenti peggiori della mia vita: conoscere il mio papà biologico a dieci anni; rompermi il braccio in tre punti quando ne avevo nove; cadere in un fosso e restarci intrappolata per tutta la notte assieme a un cadavere a otto.

    A parte questo, amo la mia vita. Mentre certi miei amici non fanno che dire Povero me, nessuno capisce quanto soffro, io sono piuttosto felice. La felicità mi piace. E mi piace la semplicità. Mi piace tutto ciò che è prevedibile e odio le sorprese.

    Appunto per questo, non sono particolarmente entusiasta quando mio padre cerca di porgermi un pezzo di carta che fa andare il boccone di traverso a mia madre e la spinge a uscire in fretta e furia dalla cucina.

    Papà e io continuiamo a guardarci ascoltando la mamma fare le scale di corsa per poi chiudere la porta della loro camera da letto. C'è qualcosa che non va, non è difficile da capire. I piatti sporchi sono accatastati nel lavello. Sull'isola della cucina c'è un fascio di lettere non aperte. Sul tavolo di legno ovale, una montagnetta di fazzolettini accartocciati. La cucina giallo sole che stamattina sembrava tanto allegra è oscurata da cupe nubi di tempesta.

    Il silenzio imbarazzato fra me e papà si è protratto sino a diventare straziante. «Dovresti andare da lei» dico per interrompere la stasi e per ignorare il fatto di non aver accettato il pezzo di carta che papà tenta di porgermi. In più, lui sa sempre come consolare la mamma quando le prendono le sue crisi melodrammatiche. È una delle mille cose che amo di lui.

    «D'accordo.» Arriccia leggermente le labbra, indizio lampante che ha in mente di farmi arrabbiare. «Come preferisci affrontare la cosa? Di petto, per gradi o mettendo la testa nella sabbia?»

    Io m'illumino d'immenso. «Mettere la testa nella sabbia mi va benissimo.»

    «Ci hai provato, ma adesso scegli un'altra soluzione.»

    Fantastico. «Per gradi.»

    «Come ci si sente a essere arrivata all'ultimo anno delle superiori?»

    Malgrado l'incombente consapevolezza che la mia vita sta per andare a rotoli, sorrido. Sono entrata in cucina dopo il mio ultimo giorno di scuola aspettandomi di spettegolare con la mamma sul fatto che stasera Trisha e io siamo state invitate alla festa di Blake Harris.

    Cosa non mi aspettavo? Papà a casa anziché al lavoro, la mamma in lacrime e un biglietto che, con ogni probabilità, è foriero di notizie infernali.

    «Ci si sente magnificamente. E sarà ancor più magnifico se getterai quel pezzo di carta nel secchio della spazzatura.»

    «Ti prego invece di leggerlo» insiste papà. «Non è stato facile per tua madre prendere la decisione di fartelo vedere e dobbiamo rispettare i suoi desideri.»

    Mi fa male lo stomaco come se mi avessero dato una gomitata. Questa debilitante reazione di mia madre significa una cosa sola: qualcuno l'ha contattata dalla sua casa natale nel Kentucky. Il Kentucky è un argomento doloroso per lei e farei di tutto per lenire la sua sofferenza perché, fino a che papà non è entrato in scena e mi ha adottata quando avevo cinque anni, la mamma mi ha cresciuta da sola. Il che merita un certo rispetto.

    Con la coda dell'occhio intravedo il collage di fotografie incorniciate alla parete. Quella al centro è la mia preferita. È la foto del giorno delle nozze di mamma e papà. La mamma è in abito da sposa bianco. Snella. Graziosa. I bei capelli biondi le ricadono sulle spalle mentre mi guarda. Papà è accovacciato accanto a me. I suoi capelli baciati dal sole sono d'un dorato abbagliante al confronto del suo smoking nero. M'infila una rosa nei capelli castano scuro. Ho cinque anni e lo fisso neanche fosse Superman. Questo perché lo è. Il mio supereroe personale. Mi ha adottata pochissimi giorni prima di sposare la mamma.

    Papà si schiarisce la gola e io gli strappo il pezzo di carta dalle mani con la giusta dose d'incazzatura. Per qualche minuto mi lascio attirare in questo vortice di follia... lo faccio per lui e per mia madre.

    È una mail, è breve e va dritta al punto ed è del mio padre biologico.

    Jeff,

    per favore dillo a Emily.

    Eli

    Sotto il messaggio ci sono un necrologio e la foto di una donna che non ho mai conosciuto. Si chiama Olivia McKinley ed è la madre di Eli. Mi sfugge un sospiro stanco dalle labbra e mi accascio su una sedia accanto al tavolo. Per favore dillo a Emily. Eli s'impegna parecchio per fare effetto. Magari come effetto non è un granché, ma è comunque qualcosa.

    Leggo attentamente il necrologio di Olivia, storcendo le labbra. È la prima volta che vedo una sua foto. Eli ne ha parlato nelle nostre rare visite sporadiche, ma non ne ha mai dipinto un quadro così chiaro da farmene visualizzare l'aspetto fisico. Eli è questo motociclista con cui mia madre usciva in passato e che ci ha abbandonate nel preciso momento in cui la mamma gli ha detto: «Ho saltato il ciclo». Oltre a dare il benservito a mia madre, mi ha anche dato i capelli castano scuro, le sopracciglia castano scuro intonate e la spruzzata di lentiggini sul naso. Ma a parte questo non mi ha dato molto.

    «Dunque...» Esitazione totale mentre cerco le parole giuste. «È morta la madre di Eli.»

    «Esatto, e tua madre vuole andare al funerale.»

    Ehm... Io non vado ai funerali o alle sepolture. Mamma e papà lo sanno benissimo. Tamburello con le dita sul tavolo. Esiste senz'altro un espediente diplomatico per uscire da questa situazione. Devo trovarlo, e alla svelta. «Perché vuole andarci? Non per essere maleducata, ma questa signora noi non la conosciamo. Conosciamo appena appena Eli e poi... insomma... pensavo che la mamma odiasse il Kentucky.»

    Papà si gratta la nuca. «Il motivo per cui tua madre vuole andarci non lo so. Le ho inoltrato la mail stamattina e qualche minuto dopo mi ha telefonato al lavoro in lacrime. Sono venuto a casa e lei aveva già comprato i biglietti aerei. Ne so quanto te al riguardo, ma una cosa è certa – non mi piace vedere piangere tua madre.»

    Neanche a me.

    «Tu cosa ne pensi, Em?»

    Io mi stringo nelle spalle. Non ci sono parole al riguardo. Nessuna. Nisba. Zero. Nada. «Non capisco.»

    «Lo so.»

    Tutto qui? Lo sa? «Speravo in qualcosa in più, tipo: Parlerò con tua madre e la convincerò ad abbandonare questo progetto dissennato. Insomma, stiamo sottovalutando quanto potrebbe essere provvidenziale inviare un biglietto ben scritto assieme a un bel mazzo di fiori.»

    Papà tace, meditando sulla risposta da darmi. È la milleunesima ragione per cui lo amo. Difficilmente papà perde le staffe o grida. Ragiona sempre su tutto.

    «Non pretendo di capire del tutto questa storia» dice. «Ma è importante per tua madre, e tu e lei siete le cose più importanti per me. Se lei si sente in dovere di andare a quel funerale allora ci andremo.»

    «E se io non voglio andarci?»

    Papà mi scruta con i suoi pazienti occhi azzurri e io accarezzo l'idea di nascondermi sotto il tavolo prima che si accorga di quanto la prospettiva di andare al funerale mi irriti. Gente morta. Mi sta deliberatamente chiedendo di andare in un posto dove c'è della gente morta. Dentro di me, sto strillando. Molto forte. Come un'ossessa.

    «Tua madre e io saremo lì con te e niente e nessuno ti farà alcun male. E poi tu e io ne abbiamo già parlato. Il miglior modo per superare le paure è affrontarle.»

    Certo, le sue sono belle parole, ma c'è quest'atmosfera grave che mi soffoca come un sudario. Mi viene una specie di orticaria sul polso e mi gratto l'irritazione sotto il tavolo mentre faccio un sorriso forzato. «Mi stai dicendo che un cadavere non tornerà in vita cercando di divorarmi?»

    «Mi sbilancerò a dire che non finirai in un episodio di The Walking Dead

    Mi esce fuori un grugnito non proprio da signora e papà ride. Ma poi la risata svanisce e detesto il silenzio che segue.

    «Non alludo soltanto alla tua paura delle cose morte» continua papà. «Sto parlando anche dei documenti che ho trovato nella spazzatura. Mi pare accennassero a una visita a una serie di università fuori città con la tua scuola, quest'estate.»

    Uffa, avrei dovuto usare il tritadocumenti. «Nella vita non c'è solo la Florida» insiste.

    «Io amo la Florida.» L'amo così tanto da progettare di restarmene qui in città dopo il diploma. Per la precisione, lo progettiamo Trisha e io. Negli ultimi due anni non abbiamo fatto altro che sognare di andare al college locale una volta diplomate e di stare in camera assieme. Abbiamo perfino scelto i piumoni dello stesso colore, perché è così che fa Trisha.

    Papà accenna con un gesto della mano alla stanza. «In serbo per te c'è qualcosa in più di queste quattro mura.»

    «Io amo queste quattro mura.» Ed è così. La cucina è il punto focale della nostra vita a tre. La mamma l'ha abbellita e resa accogliente sistemando diversi vasi di fiori freschi su tavolo, isola e bancone. Ha tinteggiato le pareti di giallo perché ha letto in un articolo che è un colore allegro e accogliente.

    «Emily...»

    «Amo la mia vita.» Sbatto le ciglia con fare civettuolo. «Sono felice, quindi piantala di cercare di rovinarmi tutto.»

    Papà si appoggia allo schienale della sedia e posa sul tavolo una penna con cui stava trafficando. «Non sei neanche un po' curiosa di cosa c'è in giro?»

    «No. Tuttavia sono curiosa di sapere cosa frulla in testa alla mamma riguardo a questo funerale.» Cambio argomento perché detesto discutere con mio padre. Non provo l'ardente desiderio di andarmene via di casa per esplorare ogni angolo dell'universo come ha fatto lui quando aveva la mia età. Lui non lo capisce e io non so come spiegarglielo. Per questo motivo litighiamo ed è l'unica cosa, a parte Eli, su cui siamo in disaccordo.

    «Ti ho già detto che non lo so» risponde, «ma è nostro dovere sostenerla. Sai bene quanto me che tua madre è tormentata dal suo passato.»

    Questo è vero.

    La mamma evita di parlare di com'era la sua vita prima che nascessi io. Forse, ipotizzo io, perché soffre per il fatto di avere una famiglia che l'ha sbattuta fuori di casa quando ha scelto di avere me. «Credi che per lei andare a questo funerale sia un modo per tornare a casa senza tornarci effettivamente?» Per quanto possa sembrare priva di senso, questa frase ha un suo perché.

    Papà mi fissa con gli occhi sgranati e io so di aver colto nel segno. Sento arrivare la nausea. Questo è uno di quei momenti in cui fare quel che è giusto mi dà i conati di vomito, ma qui si tratta di mia madre. Mia madre. È matta ed è melodrammatica, ma mi ha voluto bene fin da quando ha visto quelle due linee sul test di gravidanza. Mi rifiuto di dire di no a una donna che per i miei primi quattro anni di vita mi ha tirata su completamente da sola.

    «E va bene» dico. «Ci sto.»

    «Grazie. E, Emily...» Una lunga pausa dolorosa. «Devi vederla come un'occasione. Magari aiuterà te e tua madre a riprendere in considerazione l'offerta di Eli. Sul fatto che tu vada a trovarlo quest'estate.»

    Oh, per carità, no. Tre settimane fa Eli ha contattato papà con quest'idea brutta come la notte. Vedere Eli quando viene in città una volta l'anno è una cosa, ma andare a trovarlo ? per due settimane di fila ? a casa sua? «La mamma ha detto di no.»

    «Pensavo che sarebbe salutare per te vedere dove una volta viveva tua madre, per capire la storia di tuo padre. Senza volerlo, l'altro giorno, ti ho sentita fare delle domande alla mamma.»

    E va bene, citami in tribunale. L'offerta di Eli mi ha incuriosita. In effetti, non è vero. A incuriosirmi è stato il secco no di mia madre quando papà ha sollevato l'argomento della visita. E non sono preoccupata per Eli e la sua famiglia, ma più per mia madre.

    I genitori della mamma erano delle persone ultrabacchettone come lei li ha descritti? E come ha conosciuto Eli? A scuola, o si sono incontrati la notte in cui mi hanno concepita? La mamma era un'adolescente scapestrata o una brava ragazza, finché non ha deciso di uscire una sera con un motociclista?

    Ho chiesto alla mamma, ma lei cambia sempre argomento. E non ho trovato ancora il coraggio d'insistere per avere delle risposte quando mi liquida.

    «Ti leggo la curiosità negli occhi ogni volta che si parla di Eli» mi dice papà.

    Io mi scosto dal tavolo e mentre faccio per passargli accanto, lui mi prende delicatamente la mano. «Va benissimo fare domande. Loro sono la tua famiglia biologica. In effetti è una cosa del tutto normale. Mi è già capitato con i miei pazienti.»

    Mi viene uno scatto di rabbia. Io non sono una delle sue centinaia di marmocchi viziati che ha per pazienti in qualità di rinomato pediatra. «Non sono curiosa di Eli.»

    Deglutisco, tentando di fare mente locale. Quando guardo mio padre, vedo l'uomo che non soltanto si è inginocchiato per chiedere a mia madre di sposarlo, ma che si è inginocchiato davanti a me per chiedermi il permesso di sposare mia madre. Vedo il suo sorriso stampato in faccia e ricordo la gioia che avevo dentro il giorno in cui la mia adozione è stata ufficialmente ratificata. Vedo l'uomo che non mi ha mai abbandonata una sola volta da quando è entrato nella mia vita.

    Essere curiosa di Eli, il mio padre biologico, non significa che io non apprezzi tutto ciò che il mio papà, lui, Jeff, ha fatto per me, e lo apprezzo eccome. Gli voglio più bene di quanto lui possa immaginare.

    «No» ripeto. «Non sono per niente curiosa.»

    2

    OZ

    Sono le tre del mattino e la mamma e io continuiamo ad aspettare. La pesantezza di ogni secondo che passa la viviamo in modo differente. Lei cammina su e giù per il piccolo soggiorno del nostro maxicaravan mentre io mi lucido gli anfibi in camera mia. Malgrado quel che succederà stanotte, domattina abbiamo una veglia funebre cui partecipare.

    Sfrego la vecchia spazzola sull'anfibio nero ed è l'unico rumore che riempie la casa buia. Tutti e due fingiamo che l'altro non sia sveglio. Nessuno dei due ha acceso una lampada; ci affidiamo invece alla luce della luna piena per vederci qualcosa. È più facile così. Nessuno dei due vuol discutere del significato dell'assenza di papà o del silenzio del suo cellulare.

    Mi siedo sul bordo del mio letto. Se allungassi la gamba urterei con il dito del piede la parete di finto legno. Sono alto come mio padre e la stanza è compatta e stretta. Quel tanto che basta per ospitare il mio letto e una vecchia catasta di scatoloni del latte che uso come scaffali.

    Il telefono della mamma vibra e la mia mano si raggela. Attraverso lo spiraglio della porta, individuo la sua sagoma nera prendere il cellulare. Il display si accende e una luce bluastra le illumina il viso. Smetto di respirare e mi sforzo di ascoltare la sua reazione o almeno di udire un rumore di motociclette.

    Niente. Ancora silenzio. Sento la scarica di adrenalina nelle vene. Ormai papà sarebbe dovuto essere a casa. Sarebbero dovuti essere a casa tutti quanti. Specie con la veglia di Olivia domattina.

    Non riuscendo più a tollerare quest'attesa spasmodica, poso l'anfibio a terra e apro la porta della mia stanza. Il cigolio dei cardini si diffonde per tutto il caravan. In due passi, sono in soggiorno.

    La mamma continua a controllare il cellulare. È un donnino piccolo piccolo, sul metro e sessanta, e ha i capelli lunghi e lisci. Sono neri. Esattamente come i miei e quelli di papà. Mamma e papà hanno solo trentasette anni, e io diciassette. Inutile dire che mia madre mi ha avuto molto giovane. Da come incurva le spalle sembra più vecchia di dieci.

    «Qualche notizia?» domando.

    «Era un messaggio di Nina.» La migliore amica di mia madre. «Si domandava se ho saputo qualcosa.» Il che significa che, oltre a Eli, neanche Cyrus è rientrato a casa.

    Metto una mano sulla spalla della mamma e lei intreccia le dita alle mie.

    «Presto ci sarò anch'io a dar loro una mano.» Adesso che ho preso il diploma superiore potrò finalmente entrare nell'attività di famiglia, un'impresa di vigilanza privata.

    Fin da quando avevo dodici anni non penso ad altro che a diventare un vigilante e a entrare nel club. È tutto quello che agogno fin da quando ne ho compiuti sedici e ho preso il patentino per la moto. «Stanno benissimo. Come starò io quando diventerò uno di loro.» La mamma mi dà dei colpetti sulla mano, poi entra nello spazio che funge da cucina e traffica con un fascio di lettere. Io appoggio la spalla alla parete accanto alla finestra. Con le gambe urto l'unico mobile della stanza a parte il televisore a schermo piatto ? un divano comprato l'anno scorso prima che Olivia si ammalasse. Il divano e il televisore sono stravaganze che non avremmo mai comprato se avessimo saputo di dover affrontare delle spese mediche.

    Cercando di non darlo a vedere, lancio un'occhiata oltre le tende di pizzo ed esamino la strada che porta al nostro caravan. Anch'io sono preoccupato ma è mio dovere alleviare i timori della mamma.

    Provo a scherzare. «Scommetto che non vedi l'ora che Chevy si diplomi il prossimo anno. Così ci saranno altre due persone in più a proteggere i grandi.»

    La mamma fa una risata strozzata. «Non riesco neanche a immaginarmi voi due in moto con gli altri quando ancora vi vedo bambini, coperti di fango dalla testa ai piedi.»

    «Non è difficile ricordarlo. È successo anche la settimana scorsa quando abbiamo giocato a football in cortile.»

    Lei sorride. Quanto basta per scacciare brevemente la serietà della situazione di stanotte, ma poi torna alla realtà e si rabbuia. Se scherzare non funziona, farò il serio. «Chevy vorrebbe lasciare le superiori e magari poi prendere il diploma da privatista.»

    «Nina lo scuoierebbe vivo. Tutti e due avete promesso a Olivia di finire le superiori.»

    In passato Olivia ha sofferto tantissimo quando Eli, suo figlio, ha abbandonato le superiori per poi prendere il diploma da privatista. Posso anche non essere parente di Eli, Olivia e Cyrus, ma loro hanno accolto in casa mia madre e mio padre anni fa, quando i loro genitori hanno dato di matto. Il che significa che Olivia è diventata quasi una nonna per me.

    «Basta parlare di Chevy e del diploma da privatista» dice la mamma con una smorfia. «Già è una sciagura che tu non voglia prendere in considerazione l'università.»

    Mi irrigidisco e ignoro la sua frecciatina. È ancora incavolata che non voglia discutere del college. Conosco il mio futuro e non prevede altri quattro anni di libri e regole da rispettare. Voglio entrare nel club. Peccato però che entrarci non sia scontato. Devono ancora mettermi alla prova prima di accettarmi come membro.

    La mamma si sfrega le braccia. È agitata quando il club è fuori a scortare un carico, ma questa volta è tesa come una corda di violino e non è l'unica. Ultimamente i ragazzi del club vanno a lavorare con la serenità di chi si appresta a lanciarsi da un aereo senza paracadute.

    Mio padre appartiene al Reign of Terror, un motoclub che, quando io avevo undici anni, ha messo su la suddetta attività di vigilanza privata. Gran parte dei dipendenti è membro del Reign of Terror. Non tutti, ma perlopiù sì. E funziona anche viceversa. Non tutti i membri del Terror qui a Snowflake lavorano nell'impresa di mio padre, ma il lavoro c'è per tutti quei membri che ne abbiano bisogno.

    La loro attività principale è fare da scorta ai Tir che trasportano merci di lusso nelle zone ad alto rischio di criminalità.

    Immaginate un camion che trasporta migliaia di dollari di pregiato bourbon del Kentucky e, a un certo punto, l'autista deve fermarsi a far pipì o a mangiare un boccone. Mio padre e gli altri del club si accertano che l'autista possa mangiarsi il suo Big Mac in santa pace e tornare al parcheggio trovando il Tir come l'ha lasciato con la merce intatta all'interno.

    Il loro mestiere può essere pericoloso, ma io sarò fiero di lavorare al fianco di mio padre e delle uniche altre persone che considero la mia famiglia. Forse la mamma dormirà sonni più tranquilli la notte, quando andrò anch'io in trasferta con papà e sarò accanto a lui a proteggerlo. «Cerca di non preoccuparti. Ti comporti come se fossero loro a rischiare di essere beccati a fare qualcosa d'illegale.»

    La mamma mi scocca uno sguardo come se il mio commento fosse serio. «Sai bene che non è così.»

    Lo so. E il club se ne fa un vanto. In TV dicono tante sciocchezze lasciando intendere neanche tanto velatamente che chiunque guidi una moto è un teppista o un criminale ? e questo perché non conoscono i motoclub in generale, e in particolare il nostro. Il nostro club è una confraternita, una famiglia a tutti gli effetti. Eppure, servono parecchi soldi per curare la malattia di Olivia e fra me, Chevy, i miei genitori, Eli, Cyrus e altri ragazzi del club che danno il sangue, non riusciamo mai a mettere assieme abbastanza per non essere costretti a fare debiti. «A quanto ho sentito, un club di fuorilegge che opera a un paio d'ore a nord di qui fa parecchi soldi.»

    «Oz.»

    Come se montando di guardia potessi far tornar papà prima, scosto la tenda per vedere meglio la strada che da casa nostra porta nei boschi. «Sì?»

    «Il nostro club rispetta la legge.»

    «D'accordo.» Il che significa che noi non siamo un club criminale, che non facciamo intrallazzi illeciti.

    Chiudo la tenda. «Che c'è, non vuoi un gangster in famiglia?»

    La mamma sbatte la mano sul bancone della cucina. «Non voglio sentirti parlare così!»

    Io mi giro a guardarla. La mamma non è tipa da strillare. Anche quando è tesa, mantiene sempre la calma. «Ti stavo prendendo in giro.»

    «Questo club rispetta la legge e così continuerà a fare in futuro. E anche tu rispetterai la legge. Intesi?»

    «Intesi. Io sono pulito. Il club è pulito. Siamo tutti così puliti che profumiamo di rosa. Questo lo so benissimo, per cui mi fai la cortesia di spiegarmi perché stai dando di matto?»

    Il rumore di una moto in lontananza tronca la nostra conversazione. La mamma fa un lungo sospiro, come se le avessero appena dato la notizia che un suo congiunto è sopravvissuto a un'operazione a cuore aperto. «Eccolo a casa.»

    Corre alla porta di casa e la spalanca. L'espressione sollevata le svanisce dal viso e a me viene un crampo allo stomaco. «Cosa c'è?»

    «Sono in due su una moto.»

    Altre motociclette compaiono in coda alla prima moto, una marea di fari puntano sul caravan, e non una di quelle moto è quella di papà. Cazzo. Supero di corsa la mamma e salto giù dai gradini mentre lei illumina il cortile accendendo la luce del portico. Eli salta giù dalla sua moto. «Oz! Vieni qui!»

    Sono lì prima che finisca la frase e aiuto mio padre a scendere dalla moto. Si regge in piedi, ma si appoggia comunque a me, e questo mi terrorizza di più dell'uomo nero che credevo fosse nascosto sotto il mio letto da bambino.

    «Cos'è successo?» la voce della mamma trema ed Eli non dice niente. Regge dall'altro lato papà, cui cedono di colpo le ginocchia.

    «Cos'è successo?» ripete a gran voce la mamma, e il suo tono angosciato mi fa vibrare le viscere. Mi sto domandando la stessa stramaledetta cosa, ma mi preoccupa di più il sangue che cola dalla testa di mio padre.

    «Kit di pronto soccorso!» Eli entra precipitosamente in casa e tutti e due adagiamo papà sul divano. La mamma è subito dietro di noi e corre in cucina a cercare il necessario. La mamma è infermiera e io non mi ricordo una volta che non fosse pronta in caso di bisogno.

    Altri ragazzi compaiono in soggiorno, tutti con il gilet da motociclista in cuoio nero, la divisa che li contraddistingue quali membri del Reign of Terror. Nessuno sarebbe tipo da lasciare indietro un fratello.

    «Sto bene, Izzy.» Papà si gratta la pelle sopra il taglio di una decina di centimetri, più o meno, sulla fronte. «È solo un graffio.»

    «Graffio un cavolo.» Kit in mano, la mamma s'inginocchia davanti a papà e io mi accovaccio accanto a lei, tenendole aperta la scatola con i ferri del mestiere, mentre versa dell'antisettico su un panno. Fulmina Eli con un'occhiata. «Perché non l'hai portato al pronto soccorso?»

    Papà stringe le dita sul polso della mamma. Lei sposta lo sguardo su di lui. «Gliel'ho detto io di portarmi a casa. Non volevamo sporgere denuncia alla polizia.»

    La mamma scaccia le lacrime che le velano gli occhi, e io mi siedo a terra, rendendomi conto con sollievo che papà non sta per morire, ma che ? non so ancora come ? si è fatto così male alla testa che Eli non gli ha permesso di guidare la moto fino a casa.

    «Mi avevi promesso di metterti il casco» mormora la mamma.

    «Non ero mica in moto» si limita a rispondere lui.

    La mamma impallidisce e io fisso negli occhi Eli. Lui non distoglie lo sguardo e io capisco l'antifona. «Abbiamo avuto guai al lavoro.»

    Assaltare i Tir per rubare il carico che trasportano è molto remunerativo per i delinquenti, e i nostri vigilantes sono bravi a tenerli a bada. Ma a volte si trovano di fronte un idiota che si sente un figo usando la violenza.

    «Qualcuno ha provato ad aggredirci durante una sosta in una piazzola, ma noi siamo stati più furbi.» Eli fa cenno a papà con il pollice. «Anche se fra noi c'è qualcuno che non è svelto come gli altri.»

    «Va' al diavolo» mormora papà mentre la mamma gli pulisce la ferita.

    «Avreste dovuto sporgere denuncia» dice la mamma. «Questa è la quinta aggressione in tre settimane. È impossibile che siano dei casi di delinquenza isolati. La polizia deve indagare.»

    Nella stanza cala un silenzio pesante e la mamma stringe le labbra. I nostri vigilantes sono riservati, così come i membri del club. Gli affari in entrambi gli ambiti restano una questione privata. Le informazioni che girano sono ristrette a una cerchia di pochi eletti, da cui siamo esclusi anche la mamma e io... cioè, almeno finché non entrerò a far parte del club in via ufficiale. Probabilmente ne saprò di più quando mi accetteranno come candidato e sto contando i giorni che mi separano dal diventare un membro a tutti gli effetti.

    «Sta bene?» domanda Eli.

    «Soprattutto tu dovresti sapere quanto è cocciuto» risponde la mamma. Eli è qualche anno più giovane dei miei genitori, ma loro tre sono stati un trio di combinaguai fin dalle elementari. «Credo che tutti abbiamo una veglia cui partecipare domattina, quindi suggerisco di andare a dormire.»

    È il commento più diplomatico che la mamma riesce a fare prima di sbattere tutti fuori a calci nel sedere. Tutti salutano lei e papà, ma i miei sono troppo assorti nel loro mondo per notarlo.

    «Mi accompagni fuori, Oz?» Eli accenna con il capo alla porta e ci spostiamo sul portico di fronte. L'aria notturna è umida e alla luce del portico ronza qualche insetto.

    Eli tira fuori le sigarette dal giubbotto di cuoio e se ne accende una. «Abbiamo bisogno di te in strada.»

    «A scuola mi hanno detto che mi spediranno il diploma ufficiale la prossima settimana.»

    Domani sarei dovuto andare alla consegna dei diplomi, ma la veglia di Olivia è prioritaria. Niente toga e cappello quindi. «Ditemi quando devo iniziare e sono pronto.»

    «Ottimo.» Eli fa un raro sorriso. «Ho saputo che questo fine settimana potremmo accettare un nuovo candidato.»

    Io sorrido a trentadue denti. La candidatura è il periodo d'iniziazione degli aspiranti membri prima che il club voti il loro ingresso ufficiale nel club. Aspetto questo momento da tutta la vita.

    Eli fa un lungo tiro e la manica del giubbotto si solleva, mostrando le stelle tatuate sul braccio. «Tieni d'occhio tuo padre. Ha preso un brutto colpo in testa quando ha urtato l'asfalto. Per un po' è rimasto privo di sensi, ma poi è balzato in piedi ed è salito in moto. Quando l'ho visto sbandare, l'ho fatto accostare e salire dietro di me.»

    «Gli sarà piaciuto da morire» dico.

    «In pratica gli ho dovuto puntare una pistola alla testa» ribatte Eli esalando una nuvola di fumo.

    «Erano quelli del Riot?» Il motoclub Riot. Sono una gang di fuorilegge che sta a nord di qui. Ho sentito dire di sfuggita che la nostra tregua con loro sta andando al diavolo.

    «Come ti ho detto, abbiamo bisogno di te in strada» ripete Eli.

    I rapporti fra il nostro club e il Riot sono stati tesi fin dall'inizio. Noi ce ne stiamo dalla nostra parte dello Stato, loro nella propria. Ma il problema qual è? Un nostro nuovo cliente risiede nel territorio del Riot.

    «Che resti fra noi» dice Eli. «Questo nuovo cliente per cui lavoriamo è piuttosto suscettibile e non vuole che il suo nome sia legato a possibili furti sui Tir. Dice che è cattiva pubblicità per la sua azienda. Questo lavoro ci serve e ho bisogno di gente fidata che faccia da scorta a questi carichi. Ho bisogno che tu sia dei nostri.»

    «Capito.»

    «Due di quei furti erano di delinquenti, ma gli altri tre...»

    ... erano del Riot. La faccenda dev'essere piuttosto seria se Eli parla con me così liberamente. «Se decidi d'iniziare a lavorare con noi, non ci sarà molto tempo per imparare. Dovrai essere vigile sempre e comunque. Erano anni che non avevamo guai con il Riot, ma all'epoca quelli non si facevano problemi a prenderla sul personale.»

    Il che significa che non si fanno problemi a far del male alla gente ? come nel caso di mio padre. Il che significa che devo farmi furbo con loro e non avere paura dei rischi, e così è. Preferisco mille volte starmene in strada a proteggere la mia famiglia che starmene a casa con la mamma.

    «Non appena mi date un giubbotto, io ci sono.»

    Eli fa un sorriso malizioso. «Fatti trovare qui alle sei. Vengo a prenderti con il furgone e andiamo a riprendere la moto di tuo padre prima della veglia. Voglio che si faccia una bella dormita.»

    Cavolo, sì. «Mi lascerai guidare la sua moto fino a casa?»

    «Cazzo, no. Ti porto con me per farti tornare indietro con il furgone. Nessuno tocca la moto di un altro e, a mali estremi, solo un altro fratello può farlo. Lo sai benissimo.» Eli mi dà una pacca sulla spalla e si fa serio in faccia. «Ci vediamo domani, e quando vengo a prenderti fatti trovare già vestito per la veglia.»

    Avvia la moto e parte a tutto gas facendo schizzare la ghiaia del cortile. Lo guardo fin quando il suo fanalino di coda rosso non svanisce nell'oscurità. Oltre la zanzariera, vedo mia madre che sta ancora prendendosi cura di mio padre. Ci mette una dedizione particolare nel fasciargli la fronte con la garza.

    Gli liscia l'ultima striscia di nastro chirurgico sulla fronte e quando fa per chiudere il kit di pronto soccorso, papà le scosta una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Si fissano negli occhi per un lasso di tempo quasi infinito, e poi lei gli appoggia la testa in grembo. Papà si china a baciarla sulla tempia.

    Hanno bisogno di un momento d'intimità e, avendo molto tempo da perdere, mi siedo sul primo gradino del portico domandandomi se troverò mai qualcuno come mia madre, qualcuno che capisca e accetti questa vita. La mamma ama così tanto papà che si adatta a tutto. Al lavoro che lui fa, a questo modo di campare e perfino al club.

    3

    Emily

    Lo ammetto. Sono incavolata nera.

    Incavolata che il volo dalla Florida al Kentucky non sia stato nient'altro che un incubo costellato di turbolenze. Incavolata che l'uomo seduto accanto a me in aereo abbia vomitato tre volte. Incavolata che a giugno nel Kentucky siano normali i frequenti acquazzoni. Incavolata che sto sudando nel mio tubino nero preferito, e che si lavi solo a secco. Incavolata che da più di un'ora mi trovo su questa caricatura di taxi, senz'aria condizionata e con un autista che non spiccica parola. O forse è muto.

    O forse ha ucciso il vero tassista, è venuto a prendere me e i miei all'aeroporto e ci sta portando alla nostra destinazione finale prima di farci a pezzettini piccoli piccoli. Forse... ma probabilmente no. Siamo entrati nella cittadina di Snowflake qualche minuto fa e se questo qui fosse un omicida di massa intenzionato a divertirsi, troverebbe senz'altro un posto più originale di questo.

    «Avete detto l'impresa di pompe funebri Da Richard?» domanda il tassista. Ah però, allora parla.

    «Sì» risponde papà. Siamo atterrati a Louisville per essere relativamente vicini a Snowflake, ma la ditta di autonoleggio ha fatto casino con la nostra prenotazione e, non potendo inviarci l'auto per tempo, ci ha pagato il taxi.

    Il tassista imbocca la svolta a sinistra e si ferma al semaforo. Il sangue mi va alla testa e pulsa al ritmo della freccia del taxi quando adocchio l'impresa di pompe funebri. Non è diversa da quelle a casa mia in Florida, se non che questa è circondata da querce anziché da palme e che qui fa un freddo che si muore. Il che è decisamente in tema con il posto.

    «Andrà tutto bene» dice papà stringendomi la mano prima che io possa ritrarla. «Continua a respirare e cerca di non pensarci troppo.»

    Facile per lui. «Sei riuscito a parlare con Eli?»

    «No, mi risponde sempre la segreteria telefonica.» Probabilmente papà si sta sforzando di avere pazienza. È la cinquantesima volta che glielo chiedo da quando siamo scesi dall'aereo. Eli deve aver spento il telefono. Papà ha cercato di contattarlo ma non biasimo Eli se non risponde. Io sarei distrutta se mia madre morisse.

    Papà mi fa un sorriso rassicurante. «Eli sarà entusiasta di vederti.»

    Io faccio un sospiro... Sì, come no. «Cosa dico se mi chiede della mamma?»

    Papà smette di sorridere e mi lascia la mano per riaggiustarsi l'orologio da polso. «Digli che tua madre gli porge le sue condoglianze, ma non si sentiva bene. Proverà a venire più tardi se starà meglio.»

    Non appena siamo usciti dall'aeroporto la mamma è entrata nel panico ed è diventata blu in faccia. Visto che la veglia termina stasera alle otto, papà ha deciso che ci andremo prima lui e io. Poi se, dopo un riposino, la mamma sarà in grado di camminare e al tempo stesso respirare, ci tornerà con lei.

    La mamma ha protestato, ma papà con i suoi modi diplomatici da medico, ha vinto. Così lei ora è rintanata nell'unico motel in questo schifo di città e io sto andando all'impresa di pompe funebri. Ho cercato anch'io di farmi prendere dal panico per togliermi da questo impiccio infernale, ma evidentemente trattenere il fiato apposta non vale.

    Il semaforo diventa verde, il tassista svolta, e io mi metto una mano sullo stomaco. Oddio, papà ha decisamente troppa fiducia in me.

    Arriviamo nel vialetto di fronte alle pompe funebri, ma il taxi rimane bloccato fra due auto. Nessuna delle due dà segno di muoversi mentre chi è alla guida chiacchiera con la gente sul marciapiede. Il tassista tamburella con le dita sul volante, con gesto stizzito. Lo capisco perfettamente.

    «Mia figlia e io scendiamo qui» annuncia papà.

    Il tassista scruta un crocchio di uomini davanti all'ingresso. «Sicuro?»

    «Non c'è da camminare molto» risponde papà.

    Io apro la portiera e il tassista sgrana gli occhi. «Sicuro che è qui che volete andare?»

    No. Papà mantiene la sua calma da supereroe. «Sì.»

    «Snowflake non è esattamente Disney World.» Il tassista indica gli uomini. Se papà non dà retta a me, magari ascolterà il nostro tassista che ha ritrovato la parola.

    Allungo il collo per vedere meglio gli uomini davanti all'ingresso. Hanno tutti lo stile di Eli: aria da agricoltori con un tocco di grunge. Un incrocio fra i Linking Park e una gang di boscaioli: jeans e t-shirt sotto le camicie di flanella. Qualcuno ha in testa un berretto da baseball dell'Università del Kentucky ? esattamente come Eli. Un paio ha perfino i suoi... insomma i miei capelli castano scuro.

    Quello che probabilmente infastidisce il tassista è che qui quasi tutti sfoggiano sulla t-shirt o sulla camicia di flanella un gilet da motociclista in cuoio nero con su scritto, in bianco, Reign of Terror. Sul dietro del gilet c'è un enorme mezzo teschio bianco

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