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Per sempre con te
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E-book459 pagine6 ore

Per sempre con te

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Info su questo ebook

La diciassettenne Breanna può essere definita con due parole: semplice e responsabile. Per lei il rispetto delle regole è tutto, finché una notte non rimane invischiata in una situazione di cyberbullismo per un suo comportamento non proprio da prima della classe, in cui Thomas "Rasoio" Turner ha il ruolo principale. Il suo mondo perfetto e ordinato, così, viene scosso dal profondo.

Thomas "Rasoio" appartiene al club motociclistico dei Reign of Terror dove le brave ragazze come Breanna non sono contemplate. Ma quando capisce che lei è sotto ricatto per una foto compromettente in cui loro due compaiono insieme, decide che è arrivato il momento di mettere da parte le regole non scritte dei Terror. I due fanno un patto: Rasoio tirerà fuori Breanna dal brutto guaio in cui si è cacciata; lei, in cambio, lo aiuterà a venire a capo di un mistero interno al club, di cui nessuno ha intenzione di parlare. Dopo di che ognuno riprenderà la propria vita. Ma più passano del tempo insieme e più il feeling tra loro aumenta, senza che nessuno dei due possa fare qualcosa per contrastarlo. Rasoio e Breanna si troveranno entrambi costretti a camminare ognuno sul filo delle proprie regole per poter scoprire chi sono, che cosa vogliono e dove andranno in un futuro non troppo lontano.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2016
ISBN9788858957288
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    Anteprima del libro

    Per sempre con te - Katie McGarry

    1

    Rasoio

    Nella vita ci sono bugie che accettiamo. Per ignoranza, piacere o, nel mio caso, sopravvivenza, facciamo tutti le nostre scelte.

    Io scelgo di appartenere al Motoclub Reign of Terror. Scelgo di lavorare per la ditta di vigilanza privata a loro associata. Scelgo anche di farlo mentre sono ancora uno studente delle superiori.

    Tutto questo si riduce a una scelta in particolare – se credere o meno alla versione di mio padre di una bugia o a quella della città. Scelgo la bugia di mio padre. Scelgo la fratellanza del club.

    Cosa non ho scelto? Di essere infastidito dall'uomo che sta invadendo il portico di casa mia. Ha addosso un paio di pantaloni color cachi stirati e una camicia button-down uscita dalla vetrina di un centro commerciale. La vera domanda: è qui per sua scelta o l'hanno obbligato a farlo?

    «Come ho detto, figliolo» continua, «non sono qui per parlare con tuo padre. Sono qui per vedere te.»

    Soffia un caldo vento d'agosto dai fitti boschi che circondano casa nostra, e il tizio ha la pelle madida di sudore. È troppo spavaldo per essere nervoso, quindi la sua fronte lucida è dovuta senz'altro al caldo allucinante.

    «Tu e io» aggiunge, «dobbiamo parlare.»

    Abbasso gli occhi sul distintivo da ispettore che gli pende al fianco e poi sulla sua anonima Chevy Caprice blu scura parcheggiata davanti alla mia moto sul vialetto di ghiaia. Venti dollari che pensa di avermi bloccato. Immagino abbia sottovalutato che sfreccerò sull'erba per scappare.

    Questo tale non appartiene alle nostre forze di polizia. La sua targa suggerisce che sia della Contea di Jefferson, che si trova nella parte settentrionale del Kentucky. Io abito in una cittadina dove perfino le prostitute e i poliziotti si chiamano per nome.

    Quest'uomo è un forestiero.

    Scartabello nella memoria in cerca di qualcosa che possa giustificare la sua presenza. Sono stato coinvolto in qualche rissa quest'estate. Qualche pugno mollato a tipi che non tenevano la bocca chiusa o il loro ego smisurato al guinzaglio, ma nulla che legittimi questa visita.

    Una goccia d'acqua mi cade dai capelli bagnati sul consunto legno grigio del ponte e lui la segue con gli occhi. Sono fresco di doccia. Ho addosso i jeans. Gli anfibi neri ai piedi. Niente camicia. I capelli appena tamponati da un asciugamano.

    Il tizio mi squadra i tatuaggi sul petto e sulle braccia. Perlopiù disegni del club, ed è un bene per lui sapere con chi ha a che fare. Dalla primavera scorsa sono diventato ufficialmente un membro del Reign of Terror. Se dà fastidio a uno di noi, dà fastidio a tutti.

    «Hai intenzione d'invitarmi a entrare?» domanda.

    Sentendo bussare alla porta ho pensato fosse uno dei miei amici che veniva per andare in moto con me all'orientamento dei membri anziani, non certo uno stramaledetto tizio in giacca e cravatta con un distintivo.

    «Non sei nei guai» dice, e io sono colpito dal fatto che non strascichi i piedi come gran parte della gente che compare sulla soglia di casa mia. «Come ho già detto, voglio parlarti.»

    Io reggo lo sguardo più a lungo di quanto il più della gente possa sostenere. Il silenzio non mi disturba. C'è una miriade di cose da imparare di una persona da come gestisce l'assenza di suoni. Non tutti riescono a gestire la lotta per la supremazia, e invece questo tizio si dimostra forte.

    Senza dire una parola, entro in casa e gli sbatto la zanzariera in faccia. Attraverso la stanza, prendo il mio gilet da moto dal tavolo, poi una T-shirt nera del Reign of Terror dal divano. Me la infilo uscendo sul portico e chiudo la zanzariera dietro di me.

    Il tizio mi fissa intensamente mentre metto il gilet di cuoio nero che ha impresso lo stemma del club cui appartengo. Grazie alla mia angolazione, riesce a vederlo bene: un mezzo teschio bianco con le fiamme che gli escono dalle orbite, circondato da una pioggia di fuoco. Sopra c'è la scritta Reign of Terror. Sotto, il nome della città: Snowflake.

    Si concentra sullo stemma da cui evince che porto un'arma da fuoco. Con la mano si avvicina alla pistola nella fondina da fianco. Sta valutando se al momento sono armato o disarmato.

    Appoggio un fianco alla ringhiera e infilo i pollici nelle tasche dei jeans. Se vuol parlare, deve farlo adesso. Lancia un'occhiata alla porta chiusa poi torna a guardare me. «Dobbiamo discuterne qui?»

    «Devo andare in un posto.» E sono in ritardo. «Non le ho visto un mandato.» Perciò, per legge, non può entrare.

    Si guarda attorno con quell'espressione di chi cerchi di capire perché qualcuno voglia vivere in una casa così piccola. È una scatola di vinile, praticamente. Due camere da letto. Un bagno. Una combinazione soggiorno-cucina. Probabilmente più finestre che metri quadri.

    Papà ha detto che era il sogno della mamma. Una casa grande quanto bastava a ospitarci. Non ha mai desiderato qualcosa di grande, ma agognava la terra tutt'attorno. Quando ero più piccolo, mi stringeva forte e spiegava che era più importante essere liberi che ricchi. Diavolo, spero che la mamma si senta libera adesso.

    Sento un dolore diffondersi dentro di me e cambio posizione. Prego ogni santo giorno che trovi pace.

    «Ho guidato parecchio per vederti» dice.

    Non me ne frega niente. «Avrebbe potuto telefonare.»

    «L'ho fatto. Nessuno ha risposto.»

    Alzo una spalla come per dire hai una fortuna di merda. Papà e io non siamo tipi da rispondere alle telefonate degli sconosciuti. Specie quelli il cui numero telefonico è targato Polizia. Certi agenti sono tranquilli, ma perlopiù sono come tutti gli altri, giudicano un uomo con un gilet da moto come un criminale psicopatico.

    Non ho tempo per l'idiozia della gente.

    «Sono qui per tua madre.» Il coglione sa di avermi incastrato quando sgrano gli occhi alle sue parole.

    «Lei è morta.» Come le altre volte che dico queste parole, una parte di me muore con lei.

    Gli occhi verdi del tizio si raddolciscono come se fosse mortificato. «Lo so. Mi dispiace. Ho ricevuto delle nuove prove che potrebbero aiutarci a scoprire che cos'ha provocato la sua morte.»

    I muscoli mi si torcono dalla rabbia e mi pulsa la mascella. Questa soggiogante sensazione di follia è quello contro cui lotto ogni giorno. Per anni ho udito i mormorii dei pettegolezzi in città, ho sentito sulla pelle gli sguardi dei miei compagni di classe e ho percepito la pietà degli uomini del Reign of Terror che chiamo fratelli. È tutto accumulato in un dubbio nero che mi sibila nell'anima.

    Suicidio.

    In città è questo che dicono sia successo. È in ogni conversazione a bassa voce che la gente fa non appena gli volto le spalle. Non solo delle persone di cui non me ne frega un cavolo di niente, ma anche di chi considero la mia famiglia.

    Scaccio via questi pensieri e mi concentro su quello che mi hanno detto mio padre e il club – quello cui ho scelto di credere. «La morte di mia madre è stata un incidente.»

    Lui scuote la testa e io perdo di nuovo la pazienza. Non ci sto. Non al suo gioco. Né a quello di nessun altro. «Non sono interessato.»

    Mi stacco dalla ringhiera e tiro fuori le chiavi della moto mentre scendo i gradini. L'ispettore è dietro di me. Ha una falcata lenta e regolare e m'irrita che mi segua in cortile e non si fermi mentre mi siedo a cavalcioni della moto.

    «E se ti dicessi che non credo sia stato un incidente?» dice.

    Probabile che non lo sia stato. Probabile che ogni dileggio nei miei confronti sia vero. Che mio padre e il club abbiano fatto impazzire la mamma, e che io non fossi una ragione sufficiente perché scegliesse di vivere.

    Per soffocare le sue parole, avvio il motore. Questo tizio deve avere istinti suicidi come la gente dice avesse la mamma, perché si piazza di fronte alla mia moto, dando per scontato che non lo investirò.

    «Thomas» dice.

    Ruoto il manubrio per dare gas al motore come avvertimento. Lui alza il mento come se finalmente si fosse incazzato e stringe gli occhi su di me. «Rasoio.»

    Lascio la moto in folle. Se lui mi rispetta usando il mio nome da motociclista, io rispetterò lui per qualche secondo. «Lasciami in pace, cazzo.»

    E maledizione se l'uomo non ha delle palle grosse come tutto il Montana. Si avvicina a me e scarica una bomba. «Ho motivo di credere che tua madre sia stata assassinata.»

    2

    Breanna

    Ero emozionata.

    Un misto di nervosismo ed eccitazione, morti entrambi all'istante di fronte a una sola domanda. È difficile reggere lo sguardo di Kyle Hewitt mentre continua a parlare, spiegando perché mi ha chiesto quel che mi ha chiesto. Si mantiene a distanza di sicurezza – un po' oltre quella che separa un armadietto viola dall'altro. «Ho bisogno che mi aiuti in questa cosa, Bre.»

    Usa il mio soprannome, quello riservato alle mie due migliori amiche e ai familiari. Mi stringo la cartella al petto, sentendomi a disagio per il fatto che lui pensi che ci sia tutta questa familiarità fra di noi.

    La gente ci passa accanto nel tragitto verso la palestra, ma lui si comporta come se fossimo da soli parlandomi a voce bassissima, poco più d'un sussurro. «Inglese è difficile... Scrivere ancora di più... Quest'anno gli allenamenti a football sono stati più tosti del solito... I miei hanno delle aspettative... Fra due settimane arriveranno i cacciatori di teste del college... Tu sei brava... lo sanno tutti... Puoi facilitarmi parecchio la vita e io facilitarla parecchio a te.»

    Facile. Naturale. Lapalissiano. La ragazza più brava della scuola che aiuta l'atletico golden boy. Due dei migliori esponenti della città che si aiutano l'un l'altro ad avere successo, anche se non mi ha fatto un esempio illuminante su come questo progetto possa giovare a me.

    «Non ti sto proponendo niente di romantico.» Agita la mano verso il basso a suggerire che preferirebbe tagliarsi il polso anziché mettersi con me. Questo ragazzo deve seriamente ripensare alle sue tecniche di vendita. Non porta a nulla di buono insultare il potenziale acquirente.

    Kyle sorride. È tutto denti, e fino a questo momento adoravo il suo sorriso. Ha i capelli neri come me, ma è molto più alto e, grazie a una vita dedicata al football, è grande e grosso come un armadio.

    Ed è bello. Lo è sempre stato, ma mai il tipo che mi notava. Per qualche secondo avevo avuto delle illusioni di grandezza pensando che il motivo per cui mi aveva chiamata era perché gli piaceva com'ero cambiata nell'aspetto e, in teoria, nell'atteggiamento.

    Non mi sono mai sbagliata tanto in vita mia.

    «Cosa ne dici? Ci stai?» Kyle infila le mani nelle tasche dei pantaloni come se fosse lui quello nervoso.

    Come mio fratello minore alla riunione di orientamento degli studenti del primo anno, anche Kyle porta una camicia bianca, dei bei pantaloni e una cravatta. Il coach di football esige che tutta la sua squadra si vesta elegante il giorno della riunione. Credo voglia che spicchino, ma mio fratello sostiene che dà l'idea di unità della squadra.

    La scuola inizia fra qualche giorno e stasera c'è la riunione di orientamento per i ragazzi dell'ultimo anno. I miei genitori sono al momento in riunione con il mio consigliere studentesco mentre mi viene fatta questa proposta.

    Proposta. Faccio un sorriso ironico.

    Il mio scopo questa sera era di essere notata. Credo di esserci riuscita. Sono stata notata, ma non per i vestiti, l'acconciatura o perché ho mollato gli occhiali per le lenti a contatto. No, sono stata cercata per il mio cervello. Tutti gli avvincenti e svenevoli romanzi d'amore iniziano così, vero?

    Kyle fraintende il mio atteggiamento e i suoi occhi neri s'illuminano. «Allora ci stai a scrivermi i temi d'Inglese per tutto l'anno?»

    Cinquanta dollari a tema – questa è la sua offerta. Avere addosso una casacca senza maniche tramandatami da mia sorella, una gonna di jeans più corta di quelle che abbia mai indossato in vita mia e dei sandali con la zeppa mi fa prendere in considerazione la sua proposta, anche se solo per un battito di ciglia. In famiglia siamo nove figli, io sono quella di mezzo e, lo ammetto, le cose belle e luccicanti mi attirano, ma questo... questo non va proprio.

    «Lo sai che questa è la prima volta che mi rivolgi la parola?» dico.

    Lui ride come se avessi raccontato una barzelletta, ma non sto scherzando. Snowflake, nel Kentucky, è una città piccola e tutti tendono a conoscersi, ma solo perché respiriamo la stessa aria non significa che comunichiamo, o ci comportiamo come se gli altri esistessero.

    «Questo non è vero» ribatte. «Eravamo seduti allo stesso tavolo in quarta elementare.»

    Io reclino la testa di lato come a dire Ma guarda, come mai non mi ricordo di questo momento culminante della mia vita?. «Cavolo, il tempo vola.»

    Lui ridacchia e si gratta la testa, scompigliandosi i capelli ben pettinati. «Sei simpatica. Non lo sapevo. Senti, non è colpa mia se parli poco.»

    Fare tappezzeria negli ultimi due anni mi ha tenuta al sicuro, ma dà una sensazione di soffocamento. Tutti dicono la stessa cosa: Breanna è intelligente ma parla poco. Nel mio intimo, non sono poi così taciturna. Perlopiù grido. « Comunque, non te li scrivo i temi.»

    Il sorriso di Kyle con cui prima lasciava intendere di aver suggellato l'affare si trasforma in una smorfia perplessa, e a me viene un nodo allo stomaco. Dire di no a Kyle mi turba quanto quello che lui dirà ai suoi amici. È questa la ragione per cui in seconda media sono diventata muta.

    Avvampo sul collo come conseguenza del mio rifiuto, ma non prendo in considerazione l'idea di acconsentire. Barare non è il mio stile.

    Kyle scruta il corridoio, e se è la privacy che cerca, resterà gravemente deluso. Si avvicina a me e io di scatto mi ritraggo, ma lui avanza comunque. «Benissimo. Cento dollari a tema.»

    «No.»

    «Non capisci. I miei voti devono migliorare.» La disinvoltura di Kyle scompare e la disperazione non è molto attraente.

    Rubo un'occhiata nell'ufficio della scuola, sperando che la mia consulente mi faccia entrare. Parte di me spera che abbia delle notizie epocali per me, l'altra parte spera di porre fine a questa dissennata conversazione. «Quello che mi chiedi è una follia.»

    «Invece no.»

    In risposta al milione di preghiere che ho recitato dentro di me, la consulente apre la porta. «Breanna.»

    Kyle si allunga verso di me. «Questa conversazione non è finita.»

    «Sì, invece.» Ma lui ignora la mia risposta mentre raggiunge la tromba delle scale più vicina. Grande. Finora il mio ultimo anno di superiori inizia come l'antitesi dei miei desideri – di nuovo in questa piccola e soffocante scuola con un gruppo di persone che mi ritiene utile per una sola cosa: un filo diretto per i compiti a casa.

    Torno a rivolgere l'attenzione all'ufficio e alla mia consulente scolastica, che si è già seduta alla scrivania. Mamma e papà sono sistemati di fronte a lei su due sedie di truciolato consunte e nessuno dei due mi degna di uno sguardo quando entro e prendo posto a mia volta.

    Papà si guarda i mocassini e la mamma sembra affascinata da qualcosa oltre le finestre mentre traffica con il badge dell'ospedale in cui lavora. Solo la mia consulente, la signora Reed, mi guarda negli occhi, e quando scuote leggermente la testa mi viene un tuffo al cuore.

    Mi mordo il labbro inferiore per impedirgli di tremare. Ho fatto il passo più lungo della gamba. Lo sapevo quando ho implorato la consulente di discutere di questa opportunità con i miei genitori, ma ero abbastanza stupida da avere un briciolo di speranza.

    Inutile fingere di non conoscere l'esito della loro conversazione. «La High Grove mi ha offerto parte di una borsa di studio. Finanzia il settantacinque per cento della retta. Posso tirar su qualche soldo nel loro programma studio-lavoro e poi ho trovato questo bar dove mi assumerebbero con un orario flessibile per adattarsi al mio programma e potrei perfino studiare nei tempi morti e...»

    «E saresti a più di due ore di distanza da noi» taglia corto la mamma, per poi lisciarsi i capelli neri corti lasciando intendere che è turbata. «Questo è il tuo ultimo anno. L'ultimo anno in cui stai a casa con noi. Non mi va l'idea di mandarti in una scuola privata. Non è giusto.»

    «Ma la signora Reed vi ha spiegato il mio programma per quest'anno?»

    Ho già completato il ciclo di studi per ogni lezione che l'unica scuola superiore di Snowflake, nel Kentucky, abbia da offrire. Siccome il mio cervello è settato diversamente da quello degli altri, non sarà una sfida per me e se intendo preservare la mia sanità mentale, ho bisogno di una sfida. Chiudo brevemente gli occhi e cerco di controllare il caos che ho in testa. Il mio cervello... non si riposa mai. Cerca sempre un qualcosa da risolvere, un codice da decifrare, un test con cui cimentarmi e in loro assenza è come se qualcuno mi desse delle scalpellate sulle ossa della faccia.

    «Sì» risponde la mamma. «Ma la signora Reed ci ha anche assicurato che ti daranno del lavoro extra da fare e che prenderai parte a certi cicli di studio indipendenti, utili per avere dei crediti per il college.»

    Tamburello con il piede a terra, sempre più rabbiosa. Quello che propone la mamma è qualcosa che mi farà di nuovo spiccare sugli altri, qualcosa che mi renderà di nuovo il fenomeno da baraccone della scuola. «Ne ho bisogno. Ho bisogno di qualcosa di più. Ho bisogno di una sfida.»

    «E io ho bisogno di te a casa.» La mamma ha la voce rotta come se fosse sul punto di piangere. Abbiamo fatto questa lacrimevole discussione diverse volte mentre mi stavo iscrivendo.

    «Sei la mia bambina» mormora la mamma. «Ne ho già quattro fuori casa e il prossimo anno te ne andrai anche tu.»

    Deglutisco per scacciare il nodo in gola. Il prossimo anno, intendo essere a centinaia e centinaia di miglia a nord di qui. Speriamo in una scuola della Ivy League.

    «Non privarmi di questo mio ultimo anno con te.» La sua voce addolorata mi strazia nel profondo.

    «Verrò a casa il fine settimana.» Mi arrischio a lanciarle un'occhiata. «Telefonerò tutti i giorni. Sarò sempre presente, anche se non così tanto.»

    «Ma noi abbiamo bisogno di te qui.» La mamma si sposta sulla sedia come se, avvicinandosi a me di qualche millimetro, potesse farmi vedere diversamente le cose. Quello che non capisce è che io sono lì lì per mettermi in ginocchio e pregarla che cambi idea lei.

    «Joshua è più che capace di aiutare in casa.» Mio fratello Joshua ha solo un anno meno di me. Sono incastrata in mezzo a quattro fratelli e sorelle di quattro anni più e meno giovani di me. I maggiori hanno tutti scontato il loro periodo di responsabilità in cui a turno sono stati al comando della banda. Andare in una scuola privata equivarrebbe alle due settimane di preavviso prima delle dimissioni.

    «Joshua non è te» dice la mamma. «Non sa gestire le responsabilità.»

    «Perciò stai dicendo che dovrei dare di matto e a quel punto mi lasceresti andare alla scuola privata? Perché la logica della tua obiezione è questa. Rispondo ai tuoi requisiti e devo restarmene a casa.»

    «Signora Miller.» Percependo una diatriba in piena regola, la mia consulente scolastica interviene. «Questa è una fantastica opportunità per Breanna. Con la sua memoria fotografica...»

    «Solo un'ottima memoria» rettifico sommessamente. Non esiste la memoria fotografica. Almeno non è mai stata dimostrata, anche se c'è gente come me in grado di ricordarsi molto bene informazioni a casaccio ma, in altri ambiti, può anche far fatica.

    «Certo.» La signora Reed mi sorride, ricordandosi probabilmente le nostre conversazioni in cui insiste a definire fotografica la mia memoria e io insisto che la mia memoria non è poi così stupefacente. Fin dal mio primo anno di superiori, mi ha sottoposta a una serie di test come se fossi una specie di cavia da laboratorio.

    «Comunque sia, Breanna ha una memoria fantastica e un elevatissimo quoziente intellettivo. Noi possiamo integrare la sua istruzione, ma la High Grove Academy può offrirle delle opportunità che noi non siamo preparati o attrezzati a fornirle.»

    Esatto. Grazie all'obiezione ben pensata e adulta della signora Reed acquisto dei punti, ma la mamma si copre gli occhi con la mano mentre papà... rimane in silenzio.

    Fili grigi che non ho mai notato gli hanno guastato i capelli neri, e si sfrega gli occhi cerchiati di scuro. Il suo fisico atletico sembra più minuto nel suo completo. Papà è sotto stress al lavoro, e mi vengono i sensi di colpa al pensiero di aggravargli ulteriormente la vita.

    Apro la bocca, la chiudo, poi ci riprovo. «Papà, farò tutto ciò che posso per sovvenzionarmi da sola gli studi.»

    «Non si tratta di denaro, Bre.» Papà alza la testa ed è come se fosse invecchiato di dieci anni da quando l'ho visto stamattina. «Si tratta di tempistica. La mia azienda ha perso un grosso contratto, e se non mi conquisto questo prossimo cliente, tutta la città sarà nei guai.»

    Perché mezza città lavora per l'azienda, una fabbrica di vernici.

    «Tua madre ha appena ricevuto una promozione all'ospedale e le sue ore di lavoro sono più di quelle che pensavamo. Dacci tempo qualche mese per prendere le misure e poi, tua madre e io faremo tutto ciò che possiamo per aiutarti a trovare il college di tua scelta. Ma per adesso abbiamo bisogno di averti a casa. Abbiamo bisogno di te qui. Questa famiglia sarebbe impossibile da mandare avanti senza di te.»

    Abbozza un sorriso e la mamma è raggiante come se pensasse che il monologo di papà mi convincerà. Come se le sue parole potessero farmi dimenticare che ogni giorno che passo in questa città mi sembra di annegare sotto un milione di ettolitri d'acqua.

    Questo dovrebbe essere uno di quei momenti d'orgoglio – quelli che ho visto in televisione – in cui abbraccio mio padre e gli dico che sono felicissima che abbia fiducia in me, ma dentro di me mi sento una rosa che avvizzisce a velocità quadruplicata sul suo stelo.

    Come posso rinnegare i miei genitori? Come lo spiego che nella nostra famiglia di nove persone, io sono quella che non si è mai inserita?

    «Capisco.» Lo detesto, ma non c'è altro da dire. «Capisco.»

    3

    Rasoio

    Il mondo scompare attorno a me come se fossi in una lunga galleria circondato dall'oscurità. Il verde degli alberi e il sole che mi avvolge si allontanano troppo diventando inaccessibili. Senza pensarci, con gesto repentino, spengo il motore e il silenzio diventa un peso.

    «Ho un dossier» dice l'ispettore di polizia. «In macchina. Vorrei che gli dessi un'occhiata.»

    Scendo dalla moto e lo aspetto a qualche centimetro dal cofano della sua auto. Ho una vocina in testa, a me familiare. A me comprensibile. Mi sta lanciando degli avvertimenti – digli di parlare con papà, digli di parlare con il consiglio di amministrazione del club, digli di sottoporsi alle centinaia di procedure che mi sono state ficcate nel gargarozzo riguardo a come ciascuno di noi deve interagire con chi non è membro dei Terror.

    Ma quando mi porge il dossier, la vista del nome di mia madre soffoca la voce che ho in testa. Ora c'è solo silenzio. Un silenzio folle e perverso. Quello che può farti impazzire.

    «Aprilo» dice. La mamma mi disse la stessa cosa una volta. Era Natale. La scatola era più grande delle altre e si muoveva. Dubito che troverò la stessa cosa in questo dossier, come ho fatto con la scatola che mi ha dato la mamma, con dentro un cucciolo.

    Apro il dossier e raggiungo a rallentatore il portico mentre con gli occhi assorbo le parole battute a macchina e gli appunti scritti a mano. Voltando pagina, mi siedo lentamente sul gradino superiore. È una foto di mia madre. Mi passo una mano sul viso poi torno a concentrarmi sulla foto – di lei, di mia madre.

    «Dove l'ha presa questa?» domando. È della mamma che sorride. Un sorriso vero. Quello in cui le si increspano gli occhi. Amavo quando sorrideva così. Significava che il suo buonumore non era una finta.

    «Tuo padre l'ha data alla polizia locale... quando è scomparsa.»

    Scomparsa...

    Quella notte, papà e il club erano in giro alla ricerca di qualcosa, a caccia di una pista. Papà mi lasciò con la mia madre surrogata Olivia. I miei tre migliori amici restarono con me a casa di lei. Avevo dieci anni, e mi guardavano accarezzare il mio cucciolo ripetutamente.

    Reclino il collo per tornare al presente – alla foto di lei. Assomiglio alla mamma. Sono più simile a papà nell'altezza e nel peso, ma ho i capelli biondi e gli occhi azzurri di lei. Il problema è che quando mi guardo allo specchio, non vedo l'azzurro profondo e caldo degli occhi di lei. Vedo il ghiaccio.

    «Il club discute mai di cos'è successo quella notte?» Nella posizione in cui si trova, l'ispettore blocca il sole, così posso alzare gli occhi senza stringerli. «Su quello che hanno visto?»

    «Perché dovrebbero?»

    È evidente che dal dossier mancano delle pagine e delle fotografie. Dentro ce n'è una dell'auto sfasciata della mamma, ma nessuna di lei. Un rapporto che è perlopiù stralciato e un fascio di carte che parrebbero consequenziali, ma le pagine due, cinque e dalla sette alla nove sono assenti.

    «Cos'è questo?» Gli mostro una pagina piena di dati incomprensibili. Numeri e lettere in abbinamenti bislacchi sparsi a mo' di cruciverba.

    «Lì spero possa aiutarmi tu. Sono certe informazioni venute in nostro possesso, e abbiamo motivo di credere che siano dei messaggi provenienti dal vostro club.»

    Il suo tono guardingo mi lacera la pelle. Il vostro club. Percepisco un'insinuazione che risveglia un demone dentro di me. Il vostro club.

    «Il Reign of Terror stava cercando tua madre la notte in cui è scomparsa» dice. «Hanno riferito di un problema con lei, senza specificare quale esso fosse. Ha lasciato il lavoro, e mezz'ora dopo erano tutti allertati. A te pare normale?»

    «A me pare che fossero preoccupati.»

    Si lascia sfuggire un gemito strozzato di stizza. «A me pare invece che sapessero esattamente cosa stava succedendo. Specie visto che sono stati loro a trovarla.»

    La seconda parte della sua dichiarazione mi fa sobbalzare e soffermare sulla parola morta a metà pagina. Sono stati loro a trovarla. Il club mi ha tenuto all'oscuro di questa informazione.

    «Indago sul Reign of Terror da un anno. Da prima che tu ne diventassi un membro. Il club si dice rispettoso della legge, ma protestano troppo. Ci sono dei segreti in questo club. Tu lo sai, e anch'io.»

    Mi hanno assegnato lo stemma del club solo da qualche mese, ma io sono figlio di uno dei pezzi grossi. Papà è il sergente d'armi. Il suo lavoro è proteggere il club, proteggere il presidente. Bisogna essere dei pazzi per fare questo lavoro. E lui è abbastanza matto da amare la carica.

    Io sono nato e cresciuto nella sede del club. Questo bastardo pensa di conoscere il club perché sta indagando su di noi. Non sa niente. È l'ennesimo coglione che cerca di distruggere quello che non comprende.

    «Non sei curioso di saperne di più?» domanda.

    «È stato un incidente» sbotto.

    «Tu credi sia stato un incidente, perché ti hanno detto che è stato un incidente.»

    Sempre meglio dell'alternativa – che la mamma si sia tolta la vita. Reggo il suo sguardo e diventiamo due statue mentre continuiamo la battaglia a suon di occhiate.

    «Non sono venuto qui a fare la gara a chi è più incazzato. Sono qui per aiutarti» dice come se fosse il mio sacerdote pronto a concedermi l'assoluzione. «Forse a farti mettere il cuore in pace.»

    «Chi glielo dice che io sia turbato?»

    «La cosa riguarda tua madre.» Mi concede un attimo per assimilare le sue parole e per farmi venire un nodo allo stomaco. «Un ragazzo non dimentica mai la perdita della madre. Certe cose sono universali. Neri, bianchi, poveri, ricchi, universitari e teppisti.»

    Alzo un sopracciglio. Immagino di essere il teppista.

    «Hai rimuginato sulla morte di tua madre. Forse ne sei perfino stato tormentato. Io indago su questo caso da tempo, quindi non vengo qui a cuor leggero. So cosa dice la gente – che tua madre si è uccisa.»

    Mi viene uno scatto di rabbia. «È stato un incidente.»

    «Non è stato un incidente. Credo vi siano due opzioni riguardo a quanto successo quella notte. Non c'erano segni di frenate. Nulla che provi che abbia cercato di fermarsi. O tua madre è caduta volutamente giù da quel ponte o si è gettata pensando che fosse l'unico modo per sopravvivere.»

    Mi si serra la gola. È morta. Mia madre è morta.

    «Ho parlato con la gente in giro. Dicono che tua madre era infelice. Che era infelice da mesi. Dicono che si apprestava a lasciare tuo padre e che aveva intenzione di portarti con lei.»

    Un'intensa ondata di terrore mi scorre nelle vene, scuotendomi completamente. «Lei dice una marea di cazzate.»

    «Ah, sì?» domanda. «La gente dice che tuo padre ti adorava. Che non le avrebbe permesso di partire con te. Non vuoi sapere com'è morta? Non vuoi sapere se le persone che tu definisci la tua famiglia erano coinvolte? Se collabori con me, troveremo le risposte che stai cercando.»

    Mi vibra il cellulare in tasca e la distrazione spezza la tensione fra me e il poliziotto. Lo tiro fuori e trovo un messaggio di Chevy. Sono in ritardo all'appuntamento con lui ed evidentemente è preoccupato: Porcile e Signore della Guerra stanno arrivando in forze.

    «Lo sente questo rumore?» dico.

    Lui ha un'espressione smarrita. «Che rumore?»

    Il telefono in casa squilla e il graditissimo rombo di motori inferociti riecheggia in lontananza. Lui si gira a guardare la strada e io rientro in casa. Nel giro di due secondi apro il dossier e scatto quante più foto posso.

    «Rasoio!» grida il tizio dall'altra parte della zanzariera. Io gli volgo le spalle e lui senz'altro non entrerà in casa senza un mandato o un motivo plausibile. «Riporta qui quel dossier.»

    «Squilla il telefono» grido, sapendo benissimo che non riesce a vedere quello che sto facendo. Chiudo il dossier e lo agito alle mie spalle per fargli vedere che lui e io siamo amici. Il telefono di casa tace, ma a quel punto mi squilla il cellulare.

    Rispondo, e all'altro capo del filo c'è Oz. Lui e Chevy sono miei amici dalla nascita. «Sei nei guai?»

    «Così si potrebbe dire. Come lo sai?»

    «Sei in ritardo per l'orientamento, e Porcile ha visto un tizio con la targa della Contea di Jefferson diretto nel viale di casa tua. Ti ha dato qualche minuto per farti vedere sulla strada principale, e quando non sei comparso...»

    Oz s'interrompe. Non ha bisogno di spiegare. Il club, come sempre, mi guarda le spalle. Specie Porcile, che mi ha adottato come suo protetto.

    L'ispettore picchia sulla porta. «Esci in fretta di lì o dimmi di entrare, ma se ti allontani dalla mia vista con quel dossier in mano, butto giù questa porta.»

    «Devo andare.» Riattacco ed esco risoluto sul portico. Il poliziotto mi strappa il dossier dalle dita e la sua mano si avvicina alla pistola nella fondina da fianco mentre Porcile e Signore della Guerra scendono in fretta dalle moto e si dirigono verso di noi.

    Porcile si è guadagnato il suo nome per una barzelletta secondo cui le ragazze si ammassano come maiali per attirare la sua attenzione. Capelli biondi, occhi azzurri... una versione tardo ventenne di quello che io spero di essere. Signore della Guerra si è guadagnato il suo nome da motociclista perché quando picchia, fa male.

    «Ha un mandato per qualcosa?» domanda Porcile a bassa voce, ma è più una minaccia che una domanda. Meno di un anno e mezzo fa questo ragazzo stava strisciando nel fango in qualche paese straniero con gli Army Ranger. Anche se è stato reclutato dall'esercito perché è un mago del computer, sono stati i proiettili nella spalla e nel petto che si è preso a salvare un suo compagno di squadra a riportarlo a casa per sempre. Il fratello è letale, maledizione.

    «Stiamo solo chiacchierando» risponde il poliziotto con lenta cadenza, «e me ne stavo andando.»

    Porcile sale sul portico e Signore della Guerra se ne resta indietro sul prato. Io mi appoggio alla ringhiera e rimango in disparte. Tanta gente dice che ho le rotelle fuori posto, ma perfino io so tenermi a debita distanza quando questi due tendono all'irritato andante.

    Porcile sguscia verso l'uomo e gli si piazza naso contro naso. Spezzo una lancia a favore dello sbirro, non batte ciglio.

    «Questo ragazzo va ancora alle superiori.»

    «Rasoio ha diciotto anni» sbotta lo sbirro. «È maggiorenne e vaccinato.»

    «Vattene e non tornare. Se hai delle domande, falle al consiglio del club. Se sento che gli giri di nuovo attorno, te la vedrai con me.»

    «Per caso è una minaccia?» Lo sbirro reclina la testa di lato come se non gliene fregasse un cavolo di Porcile, e glielo sbatte in faccia. Quello che trovo più interessante è che i due parlano come se già si conoscessero, o almeno avessero familiarità l'uno con l'altro.

    Porcile sorride come un pazzo. «Sì, esatto.»

    Lo sbirro tira fuori un biglietto

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