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Un perfetto colpevole
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E-book249 pagine3 ore

Un perfetto colpevole

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Il bambino silenzioso
Un grande thriller

«Impossibile smettere di leggerlo.»

«Ti tiene con il fiato sospeso.»

«Saprai presto chi sono». Un sussurro roco nel cuore del­la notte, che proviene dalla stanza accanto.
È la voce di uno sconosciuto riprodot­ta dal registratore ambientale che So­phie ha fatto installare, perché ha la terribile sensazione che qualcuno la stia stalkerando. Solitaria per natura, Sophie passa le giornate nella scuola elementare dove insegna o in casa a prendersi cura della madre, amma­latasi precocemente di Alzheimer. È una routine impegnativa, che le lascia poco tempo per sé stessa. Ma il gior­no in cui Sophie decide finalmente di andare a un appuntamento galante, cominciano ad accadere cose strane. Trova un bottone in giardino. Un’im­pronta sulla parte esterna di una fine­stra. Inoltre la madre è piena di lividi e, in stato confusionale, continua a dare la colpa a un’ombra.
E poi c’è quella voce…
Con alle spalle un’infanzia turbolenta, Sophie comincia a chiedersi se sua madre stia solo fingendo di essere malata per continuare a torturarla… Ma che razza di madre farebbe una cosa del genere a una figlia? E che dire dell’uomo che ha incontrato onli­ne? Per scoprire la verità, Sophie do­vrà indagare sul suo passato, ma la verità a volte è più pericolosa della menzogna…

Autrice del bestseller Il bambino silenzioso 
1 milione di copie vendute
Un’autrice da 100.000 copie solo in Italia

Qualcuno è entrato in casa sua. Qualcuno che la conosce. 

«Davvero entusiasmante. Pervaso da un senso di mistero e di suspense, questo thriller psicologico è in grado di sconvolgerti.»

«Ti tiene incollato fino all’ultima pagina, a elaborare ipotesi puntualmente smentite. Sarah Denzil sa come si scrive un thriller.»

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Una storia che fa presa sulle paure più ataviche delle donne.»
Libero

«Autrice donna, protagonista femminile: una storia in vetta alle classifiche.» 
Corriere della Sera
Sarah A. Denzil
Vive nello Yorkshire, dove si gode la campagna e il tempo imprevedibile. Sotto pseudonimo pubblica libri per ragazzi, ma ha una vera passione per i thriller e le storie di suspense. Il bambino silenzioso ha scalato le classifiche di vendita negli Stati Uni­ti, nel Regno Unito, in Australia e in Italia, dove è stato l’ebook più scari­cato dell’anno. La Newton Compton ha pubblicato anche April è scom­parsa, La figlia silenziosa e Un perfetto colpevole.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9788822752390
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    Anteprima del libro

    Un perfetto colpevole - Sarah A. Denzil

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    PARTE PRIMA

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Eddington

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Eddington

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Galles

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Londra

    Capitolo venti

    Londra

    Capitolo ventuno

    PARTE SECONDA

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    PARTE TERZA

    Capitolo ventisette

    Epilogo

    narrativa_fmt.png

    2802

    Della stessa autrice:

    Il bambino silenzioso

    April è scomparsa

    La figlia silenziosa


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: The Broken Ones

    Copyright © 2016 Sarah A. Denzil

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5239-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Sarah A. Denzil

    Un perfetto colpevole

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Prologo

    Uno. Due. Tre. Uno. Due. Tre. Adesso tocca a te.

    Nel giardino c’è un buon profumo. Foglie calde. Terra calda. Sole alto. Conta gli uccelli. Uno. Due. Tre. Gazze ladre, tutte quante. Nere, blu e bianche. Fanno un verso buffo, stridulo e rozzo, quando cantano. Un suono che non mi piace. Mi fa paura. Dovrei tornare dentro, magari? Non mi va, però. Voglio sentire il sole sulla pelle. È ancora rosso e incandescente quando chiudo gli occhi, rosso come il sangue che mi è uscito dal ginocchio sbucciato l’anno scorso.

    Uno. Due. Tre.

    Cosa viene dopo? Che abbiamo fatto?

    Adesso tocca a te.

    Non ricordo cosa viene dopo. Perché continuo a scordarlo?

    «Che ci fai qua fuori?».

    Mi irrigidisco al suono della sua voce. È acuta e trepidante. Il che significa che è arrabbiata per qualcosa. Viene verso di me a passo svelto. Poi la mano fredda mi stringe il braccio.

    «Non importa. Devi prepararti», dice.

    «Non voglio», mormoro. Mormoro sempre quando le disobbedisco. È l’unico modo in cui oso farlo.

    Mi strattona e io urlo. Affonda le unghie nella mia pelle e comincio a piangere.

    «Ti ho detto che non devi giocare qua fuori». Suda. Qualche ciuffo le è scappato dall’acconciatura, mentre il resto dei capelli le sta appiattito sulla fronte. La camicetta è macchiata, sbottonata in cima. Ha due cerchi scuri intorno agli occhi e il rossetto è sbafato. Per me è sempre terrificante. Continua a trascinarmi sull’erba. «Insomma, che ci facevi qua fuori? Con chi stavi parlando?».

    Non voglio dirglielo.

    «Allora?», insiste. Le unghie mi scavano ancora nella pelle.

    «Con le ombre», mormoro.

    Si blocca. Ora sì che ho paura. Paura del silenzio che segue. Piega le ginocchia, chinandosi alla mia altezza, e l’unica cosa a cui riesco a pensare sono i suoi occhi arrossati, a quanto siano disperati.

    «Non c’è nessun’ombra», dice. «Non c’è mai stata. Devi smetterla con queste sciocchezze, subito».

    Annuisco. Lo farò. La smetterò con queste sciocchezze. Lo prometto.

    Voglio solo che mi ami.

    Parte prima

    Capitolo uno

    Mi chiamo Sophie Howland e mai – neanche per un singolo istante della mia desolata esistenza – mi sono sentita una persona completa. Mi manca qualcosa. È come se un cane avesse strappato a morsi una parte di me non appena sono nata. Divorata qua e là e abbandonata come un avanzo.

    Ora che sono grande, credo che quel vuoto potrà essere riempito da una famiglia, un giorno. Vedete, ho sempre voluto dei bambini. Voglio appartenere a un clan, più di ogni altra cosa. Il pacchetto completo: marito, figli e compagnia bella. Mamma mi ha dovuta crescere da sola dopo che papà è morto, e voglio solo assaporare il gusto di una vita all’interno di un nucleo familiare normale. Ma forse le mie stelle non si sono allineate e il mio destino non è mai stato questo. O forse verso i quarantacinque anni diventerò uno di quei fiori tardivi che sbocciano dopo gli altri. E tutto andrà di colpo al suo posto. Se ne sentono di cose del genere. Anche se si tratta perlopiù di donne ricche o famose sopra i quaranta che decidono di sistemarsi dopo una carriera sfavillante e hanno tutte le carte in regola per permettersi un utero in affitto – e non di una maestra delle elementari che vive insieme alla madre in una piccola cittadina inglese.

    Anche se non ho ancora trovato marito, si può dire che una figlia già ce l’ho. Una figlia di cinquantacinque anni cocciuta, arrabbiata e confusa. Ma questa bambina non crescerà mai. Anzi, tornerà sempre più indietro. Con lo sfaldarsi della sua mente, mia madre perderà gran parte della sua indipendenza. Presto dovrò darle da mangiare, lavarla e vestirla, proprio come se non fosse adulta. Pian piano diventerà la mia bambina. Quella che non ho mai avuto.

    Ricordo ancora lo studio del nostro medico di base quando ci ha dato la notizia. Ricordo come la stanza sembrava restringersi e le luci scemare in un singolo fascio che si rifletteva sulla testa pelata del dottor Lee. Ricordo anche la matita che rotolava lentamente sulla scrivania, la tazza sporca di caffè posata su un vecchio sottobicchiere. Ricordo le parole distorte, che andavano al rallentatore e acceleravano di colpo senza alcun preavviso. Precoce. Principio. Di Alzheimer. E poi quel pensiero sorto dal nulla: è la mia punizione. Perché ho sempre saputo che avrei dovuto prendermi cura io di lei. Non c’è mai stato nessun altro. E questa è la punizione per non essere la figlia che sarei dovuta diventare. Non posso farci nulla. Se non restare a guardare mentre la malattia le divora lentamente il cervello.

    Da allora, ho vissuto la mia vita soltanto a metà. Penso sempre prima a lei: ed è giusto che sia così, una priorità, ora che è vulnerabile. Ma vivo in un costante tira e molla, un perpetuo braccio di ferro su come portare avanti la mia esistenza. Gli amici mi tirano da una parte, ma io faccio resistenza dall’altra, impazzendo per una vita che probabilmente non avrò mai. E poi c’è Mamma, un richiamo perenne. Il suo continuo avere bisogno. Non faccio che chiedermi: dovrei smettere di vivere per lei? Dovrei mollare tutto: i sogni di una vita normale, con un marito e una famiglia? So cosa vorrebbe lei. So cosa risponderebbe. Forse ho preso la decisione sbagliata. Non lo so.

    Arrivo al bar in anticipo. Lo sapevo. Ho stimato che ci sarebbero voluti venti minuti di camminata, ma poi ho deciso di aggiungerne altri dieci per sicurezza. E, senza rendermene conto, mi sono ritrovata a uscire di casa un’ora prima. Ma va bene così. Me ne starò seduta qua a leggere il mio libro, mentre il suono della macchina del caffè mi rilassa e mi libera dallo stress di casa.

    Do un’altra occhiata al telefono, cerco di memorizzare il suo aspetto e guardo la porta del bar. Ma non lo vedrò spuntare a breve: mancano ancora quarantacinque minuti all’orario dell’appuntamento. Sono le undici di sabato mattina e le poche altre persone presenti sono coppie che si godono il brunch o ragazzi che bevono il cappuccino con la faccia incollata al portatile. Nonostante sia piuttosto improbabile che il mio cavaliere, conosciuto su internet, tenti di uccidermi di sabato mattina alle undici alla luce del sole, Mamma ha provato lo stesso a dissuadermi dall’andare all’appuntamento. Per fortuna aveva perso le chiavi e si è distratta, dandomi modo di sgattaiolare via indisturbata e lasciarla alle cure di Erin, la sua infermiera.

    Mescolo il caffè. Non mi fa bene pensare a mia madre tutto il giorno, e capita fin troppo spesso. Anche il dottore continua a ripetermelo: preoccuparmi non servirà a curarle l’Alzheimer, ma soltanto a far ammalare anche me. È insieme a Erin. Sta bene.

    Seppure peggiori a vista d’occhio – capita, quando si soffre d’Alzheimer precoce – è ancora abbastanza lucida da dirmi che con i capelli raccolti la mia mascella marcata sembra ancora più grossa e che il cardigan che indosso è sciatto. Come ci riescono? Come fanno le madri a sollevare una critica con la stessa facilità con cui dicono ciao? Sembra quasi la loro seconda natura.

    La porta si apre e sollevo di scatto la testa. È lui. È più basso di quanto mi aspettassi. La foto del profilo deve essere di qualche anno fa – o forse la luce era particolarmente buona – perché lì non si vedevano le rughe intorno agli occhi o la barba brizzolata. Ma ha un bel sorriso. Mi riconosce subito e si avvicina a testa bassa, lo sguardo puntato sui piedi. Non posso fare a meno di notare le sue scarpe. Sono una sorta di stivali da lavoro e sembra quasi che non abbia indossato altro negli ultimi anni, a giudicare da quanto sono consumati. Per il resto porta un paio di jeans e un maglioncino con la zip.

    «Tu devi essere Sophie», dice. «Piacere, Peter».

    Gli stringo la mano sudata e senza farmi notare mi pulisco il palmo sulla gonna. «Ciao, piacere mio».

    Si siede e avvicina la sedia. Lo stomaco sporgente preme contro il bordo del tavolo. «Sei tale e quale alla foto profilo», dice.

    Non so se interpretarlo come un complimento o meno.

    «Che bevi?», chiede.

    «Oh, un americano».

    «A me non piace il caffè», risponde. «La caffeina mi agita troppo. Mia madre non mi dava mai il tè da piccolo. Immagino sia per questo».

    Ci conosciamo da un minuto e già parla della mamma… brutto segno, mi sa. O magari sarà proprio il rapporto disfunzionale con le nostre madri che ci farà legare. Dato che il mio ha distrutto l’ultima relazione che ho avuto…

    «Allora, sei un ragioniere, giusto?», chiedo.

    «Sì», risponde. «La compagnia è piccola, ma i clienti ci sono fedeli. Lavoriamo quanto basta per andare avanti. Sono quasi tutti lavoratori autonomi, non immagini neanche quanto siano disorganizzati». Ride. «L’anno scorso uno mi ha portato un mucchio di ricevute in un sacchetto di plastica».

    Alzo le sopracciglia. «Oh, sembra davvero…».

    Per fortuna arriva la cameriera, che prende l’ordine di Peter e mi salva da un incerto tentativo di conversazione. Non sapevo bene cosa rispondergli.

    «Che leggi di bello?». Indica il libro a faccia in giù sul tavolo.

    «Oh». Lo giro. «Jane Eyre. È la terza volta. Ogni cinque anni lo ricomincio, per ricordarmi perché lo adoro così tanto».

    Peter fa una risata, suona un po’ come un lungo: «Ah!». E poi dice: «A me non piace leggere. Preferisco i videogiochi. È faticoso dover immaginare tutti quei personaggi, non ti pare? Gli scrittori, poi. Tutti narcisisti».

    «Perché dici così?», chiedo.

    «Chi altro si metterebbe a sedere immaginando le conversazioni degli altri? È folle».

    La cameriera gli porta la sua Coca-Cola. Ne butta giù la metà in un sorso solo.

    Ma io sono ancora spiazzata dall’ultimo commento. «Secondo te la gente non ha bisogno di storie? E poi la nostra lingua è bellissima, non credi?».

    Socchiude gli occhi. «Sei una professoressa di inglese, vero?».

    Resto stizzita. «No. Faccio la maestra in una scuola elementare, in realtà. Però ho studiato inglese all’università».

    Fa schioccare le dita e sorride. «Lo sapevo!».

    Vorrei tanto dirgli che sul mio profilo del sito d’incontri c’era scritto che lavoro faccio, ma mi mordo la lingua e resto zitta. Se mettessimo da parte la letteratura inglese e riuscissimo a cambiare discorso, magari scoprirei che è più profondo di quanto sembra. «Che interessi hai tu, Peter? Ti piace la musica?». A chi è che non piace la musica?

    «Altri cazzoni arroganti», risponde. «Le rockstar proprio non le sopporto, e tu? Quegli imbecilli tipo Bono che vogliono salvare il mondo».

    Sposto il peso sulla sedia allontanandomi fisicamente da quello sguardo incalzante. È così aggressivo, lo odio. È come se qualsiasi cosa che dice debba portare a un dibattito. Non è un buon inizio. Ora come ora, voglio soltanto andarmene. Meglio stare a casa con mia madre che dover sopportare tutto questo. «A volte. E invece la musica classica?»

    «Non ne ho la pazienza. Pop e country sono accettabili. Kenny Rogers, Dolly Parton. È stata lei a scrivere I will always love you. L’originale. E poi Whitney Buuu-ston l’ha rovinata». Ride da solo. Alla sua stessa battuta.

    Sto ancora annuendo con accondiscendenza quando il cellulare squilla. «Scusami, ma devo rispondere. Mia madre non sta bene».

    «Certo», dice, e non posso fare a meno di notare che gli si illuminano gli occhi a sentirmi parlare della Mamma.

    La chiamata non poteva arrivare in un momento più opportuno e, nonostante la paura che ci sia qualche problema a casa, mi sento sollevata. Cerco un angolino tranquillo e faccio scivolare il dito sullo schermo per rispondere.

    «Erin, che succede?», chiedo preoccupatissima.

    «Niente di così grave», dice con la voce di un’ottava più acuta del solito. Me la immagino già in piedi di fronte al bancone della cucina che sbraccia come una forsennata mentre parla al telefono. Erin ha dieci anni meno di me e certe volte la sua energia è sfiancante. «Ma la mamma non sta molto bene oggi». Parla sempre di lei come se fosse una bambina. La cosa non mi infastidisce, poi mia madre sa essere così cattiva con lei che le lascio passare qualsiasi stranezza l’aiuti a sopportare il lavoro. «È molto agitata. Continua a chiedere di te. Scusa se ti ho disturbato durante l’appuntamento, mi dispiace davvero tanto…».

    «Non ti preoccupare», la interrompo. «A dire la verità, stavo cercando una scusa per andarmene».

    «Ah, va così male?», chiede.

    Lancio un’occhiata a Peter, che sventola una mano entusiasta verso di me. Lo guardo con una faccia che spero mostri preoccupazione e non disagio, poi sollevo le spalle a mo’ di scusa.

    «Sì, sembra carino ma…».

    «Non fa per te?», finisce lei.

    Sospiro. «Esatto. Per niente. Sono lì tra una ventina di minuti».

    Chiudo la chiamata e torno da Peter, seduto a bere la sua Coca. Quando mette giù il bicchiere la schiuma gli resta sui baffi. Mi dà la nausea.

    «Perdonami, Peter, ma devo andare. Mia madre soffre di Alzheimer precoce e l’infermiera ha chiamato per dirmi che è parecchio agitata oggi. Devo tornare a casa, purtroppo».

    «Oh, che peccato», dice. Si toglie finalmente la schiuma di dosso e aggrotta la fronte. «Lo vuoi un passaggio?»

    «No, grazie. Abito a pochi minuti da qui», mento. Non voglio restare sola con lui in un veicolo in corsa.

    «Potrei accompagnarti a piedi». Sorride. È davvero un bel sorriso. Con ogni probabilità è un brav’uomo, solo non molto capace con le persone.

    «No, tranquillo, resta qui e finisci il tuo drink. Io devo fare in fretta. È stato un piacere conoscerti».

    La cameriera mi fa l’occhiolino quando esco di corsa dal bar. Mi scappa quasi da ridere ma, non appena ripenso che sto tornando a casa, il sorriso mi muore sulle labbra.

    «Ho detto di no».

    Di colpo le spalle si fanno pesanti quando sento la sua voce. Forte, marcata, meschina. Tre aggettivi che mia madre ha incarnato per tutta la vita.

    «Levati di torno!».

    «Signora Howland, la prego, deve mangiare qualcosa».

    Apro la porta proprio mentre si leva il fragore di un piatto frantumato. «Mamma? Che stai facendo?». Corro in cucina e trovo una ciotola rotta sul pavimento in mezzo a una pozzanghera di minestra. «Perché l’hai fatto?»

    «Questa donna è entrata in casa mia e ha cercato di avvelenarmi», dice con il naso rivolto in alto. Ha sempre una postura dritta e orgogliosa. È secca come un manico di scopa, con lo sguardo acuto di un’aquila. È solo la sua mente che sta andando alla deriva.

    «Mamma, lei è Erin. Si prende cura di te». Faccio un sorriso alla ragazza, che viene pagata per metà dall’associazione benefica per i malati di Alzheimer. Ha poco più di vent’anni, i capelli da folletto e il cerchietto al naso. «Dai, siediti mentre noi puliamo questo macello». Cerco di spingerla verso la tavola, ma lei mi allontana la mano con uno schiaffo.

    «Non posso sedermi, stupida puttana. Ho perso le chiavi».

    Erin sgrana gli occhi per il linguaggio, ma io non batto ciglio.

    «Ce le ho io le tue chiavi, Mamma. Sono in borsa. Te le ridarò non appena avrai finito di mangiare».

    Mentirle è diventato molto più semplice da quando ha cominciato a scordare le cose ogni cinque minuti. Ma quando socchiude gli occhi, capisco di essere nei guai. Quando lo sguardo le brilla e lei cala in uno strano silenzio significa che è in uno dei suoi rari momenti di lucidità. «Be’, com’è andata allora? Vedo che hai lasciato i capelli legati, anche se ti avevo detto di non farlo».

    Erin si china per aiutarmi a raccogliere i cocci dal pavimento. Quando mi rialzo, evito lo sguardo di mia madre. In questi momenti mi sento ancora una bambina di dieci anni e non una donna di trentacinque.

    «Non era male», dico. «Ma non credo che ci vedremo di nuovo».

    Ride. «Con quella mascella, certo che no». Si volta verso Erin, che evidentemente non è più una maniaca assassina ai suoi occhi. «Avresti dovuto vederla da bambina. Un mento che pareva un’incudine». Inclina la testa e ride. «Non sapevo se doverle dare da mangiare o metterle i ferri da cavallo». Ride di nuovo.

    Erin mi guarda con un sorriso timido e impietosito. Poi apre un sacco dell’immondizia e buttiamo dentro i pezzi della ciotola.

    «Almeno non ti ha stuprata e uccisa», continua Mamma. «Gli appuntamenti online vanno sempre a finire così. Sono tutti pervertiti. Probabilmente ci prova con le ragazzine nel tempo libero. Ecco perché non si è nemmeno preso la briga con te. Ormai sei roba vecchia».

    «Mamma», dico. Ma ho la voce bassa. Troppo bassa perché riesca a fermarla. Vado a prendere uno strofinaccio dall’altra parte della cucina per togliere la zuppa dal pavimento. Erin se ne sta zitta. Sento le viscere contorcersi per l’imbarazzo. Non sopporto che gli altri vedano

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