Un monaco free-lance. Fra Vietnam e Cambogia
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Anteprima del libro
Un monaco free-lance. Fra Vietnam e Cambogia - Fabio Morotti
IL LIBRO
Che c’entra un monaco, uno che rinuncia al mondo e alla libertà per una vita tutta clausura e penitenza, con l’essere free-lance, cioè libero di muoversi e scrivere dove, quando e per chi gli pare?
Eppure questa è la condizione del giovane protagonista: un monaco senza abito, un giornalista senza fede che viaggia per il Vietnam e la Cambogia, in cerca di storie e di quella libertà interiore che da millenni ispira i saggi e i folli.
Praticante di una castità e di una religione fai da te, festeggerà i primi mille giorni senza amplesso in un remoto angolo del nordest della Cambogia, dopo aver rischiato di sposarsi un paio di volte e di affogare per uno spazzolino da denti.
Approderà alla fine a Phnom Penh per mantenere una promessa fatta anni prima a un anziano danzatore, suo maestro, sopravvissuto alla fame, alla guerra, a Pol Pot e a una moglie quarant’anni più giovane…
L’AUTORE
Fabio Morotti è nato a Roma nel 1981.
Ha vissuto e viaggiato in vari paesi dell’Asia. Oltre a occuparsi di cultura cambogiana, scrive sceneggiature e documentari. Per la rivista «Lo Straniero» ha pubblicato Il plenilunio globale di Ko Phan Gan
. Per la casa editrice Editoria e Spettacolo ha pubblicato il libro Teatro e Danza in Cambogia.
Scritti Traversi
UN MONACO FREE-LANCE
Fra Vietnam e Cambogia
di Fabio Morotti
Un monaco free-lance
Fra Vietnam e Cambogia
di Fabio Morotti
© 2015 – Edizioni Exòrma
via Fabrizio Luscino 73 – Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
ISBN 978-88-98848-23-2
Collana Scritti Traversi
Nota linguistica
La lingua khmer è stata traslitterata liberamente nella maggior parte dei casi. Per i toponimi più noti sono state utilizzate le trascrizioni comunemente usate nel mondo anglofono, anche se non restituiscono perfettamente la pronuncia della lingua di partenza. Per i termini vietnamiti si è scelto di togliere accenti e segni diacritici.
A Daniela
MARX, LENIN E HO CHI MINH FRA I FIORI DI LOTO
Vietnam – Delta del Fiume Rosso
Vedo il mio corpo dall’alto. Paralizzato, in un’oscurità confusa.
Sento solo solleticare. Una qualche elettricità sta filtrando per mani e piedi come fossero antenne. Sale rapida fino alla testa. Scuote violentemente muscoli e ossa. Fasci di luce venano lo spazio di un chiarore abbagliante e il corpo si dissolve all’istante.
Sgrano gli occhi e il cuore scalcia in petto. È l’alba. Non male, considerando che ultimamente sogno soltanto donne con cui neanche parlo, andando subito al sodo. Mi trascino alla finestra per respirare. La nebbia avvolge il canyon distante, le misteriose pareti calcaree che rendono Tam Coc uno dei posti più affascinanti del Vietnam, ma non ho ancora niente di serio da scrivere. Se non esce fuori qualcosa di buono nelle prossime quarantotto ore mi tocca riprendere il pezzo sulle Vacanze perfette con Marx, Lenin e Ho Chi Minh, con quel tono da fallito totale che mi mette ansia da prestazione. Lo rileggo sulla tazza del cesso:
Il famoso canyon di Tam Coc raccoglie le acque stagnanti del Ngo Dong, il più romantico corso d’acqua per una coppia, pensato da una natura estremamente poetica per farti innamorare.
Mi annoiano il turismo e gli articoli su commissione, già dal titolo mezzi intelligenti, e non ho ancora l’umore giusto. Non so neanche perché sto viaggiando, tolto il fatto che devo tornare in Cambogia per incontrare il mio vecchio maestro Yith Sarin. E poi le rivoluzioni di un secolo fa non hanno più senso. Non interessano a nessuno. Oggi uno come Carl Marx sarebbe fautore della politica dal basso
e della decrescita intelligente. Vladimir Lenin farebbe l’hacker informatico oppure l’ecologista alla Greenpeace, e Ho Chi Minh, con il Vietnam indipendente, l’agricoltore che usa biomasse e metodi biologici.
A quest’ora lo sciacquone è una mancanza di rispetto per gli altri ospiti dell’hotel, ma quantomeno mi pulisco sempre due volte con lo stesso quadratino. Se consumo troppa carta igienica poi ci penso per ore. Oggi sono passati esattamente novecentosessantacinque giorni dall’ultima copula, con una media preoccupante di 1,5 polluzioni notturne a settimana da quando ho lasciato l’Italia. Un incremento netto del cinquanta percento rispetto alla mia media da sedentario, ascrivibile sicuramente all’esotismo orientale. Combatto qualche minuto con la testa che vorrebbe riportarmi in posizione orizzontale, trovo coraggio ed esco dall’hotel. È presto per andare a correre ma è l’unico modo per ritrovarsi in questo paesaggio incredibile senza la calca di turisti che affollano il fiume e il porticciolo. Abbozzo sorrisi di cortesia ai primi appisolati venditori ambulanti che non hanno ancora la forza di placcarmi.
Cerco Bich Dong, un tempio che non so neanche pronunciare, centinaia di scalini fino alla cima dove è arroccato. Una pescatrice, remando con i piedi, indica da tutt’altra parte, ma continuo lo stesso, sudando come un porco. Una lingua di terra si addentra fra le lussureggianti formazioni rocciose. Sfodero taccuino e penna rossa:
Decine di pareti solitarie spuntano dalla superficie come enormi squame di un dragone addormentato, semisepolto nella terra. In qualche casa sparuta, fra le risaie, si prepara la colazione, rischiarati dal debole focolare. La nebbia avvolge soltanto le cime più alte e la luce trasuda dagli stagni e dal fiume, mentre all’orizzonte, le stesse pareti misteriose formano un labirinto di pietra che sembra distante, un’altra realtà. Non c’è altro posto sul pianeta dove viva così forte il contrasto fra la generale piattezza del terreno e l’imprevedibilità della roccia che vi galleggia sopra, dove la convivenza fra un mondo rurale antico e le vacanze organizzate sia oggi tanto disorientante.
Di sicuro questo non è il tempio che cercavo. Due dragoni sul portone d’ingresso accolgono all’interno del giardino. I piccoli stagni profumano di mattino e i fiori di loto lasciano scivolare qualche foglia sull’acqua, propagando concentriche smagliature turchesi. Più in là, in un porticato all’interno, alcuni monaci sorseggiano tè. È tutto perfetto e non vorrei dover parlare, ma sento subito chiamare: «Monsieur… monsieur… bonjour».
La strana combriccola vanta un vecchietto in un saio verde, con un turbante e un lungo pizzetto dai miracolosi peli bianchissimi, un monaco occidentale in una linda tunica celeste e un altro straniero, bruciato dal sole, in calzoncini e maglia elasticizzata da ciclista. Il gran maestro Pizzetto
ha tutti i denti neri per via del tabacco. Sostiene di avermi già visto cento volte. Sono mai stato in quel tempio?
«No». Avrei dovuto rispondere magari in un’altra vita
, facendoci bella figura, invece sparo che forse ci siamo già visti su Facebook. La battuta piace. Mi invitano a sedere.
Richard è appena diventato un monaco buddista. Da una dozzina d’ore è stato ribattezzato Tich Tain Tienh. Non riesce ancora bene a pronunciare il suo nuovo nome e chiede aiuto al maestro Pizzetto, che a malapena capisce l’inglese.
«Di certo non cambierò nome sui documenti», ripete passandosi la mano sulla testa rasata, ancora emozionato per l’iniziazione, mentre mostra la foto del momento: uno stampellone sorridente e una monaca minuta, ora il suo idolo, ultranovantenne. Tutti e due stanno in piedi come una colonna e mezzo.
Mr Tich ha fatto tutto di corsa perché ieri era luna piena, l’unico giorno propizio alla cerimonia; deve recarsi in Australia per una breve visita ai parenti e poi riprendere col volontariato in un campo profughi palestinese. Per Richard l’impegno sociale è infatti importante quanto la vocazione religiosa. Affascina questa sua personale visione buddista e umanitaria: da una parte lo spirito, i contenuti, dall’altra la vita, la messa in pratica.
Anche Ioachin, il ciclista, è interessante. Ha lasciato crescere un ruvido capello sfibrato e la barba che lo rende un po’ più vecchio e saggio. Il suo credo personale fa riflettere: «Ogni uomo dovrebbe intraprendere, almeno una volta nella vita, un lungo viaggio solitario, senza mezzi a combustione, muovendosi nello spazio al solo ritmo delle sue capacità psicofisiche. Nessuna esperienza gli sarebbe oggi tanto utile, stressato e alienato com’è per i ritmi frenetici imposti dalle macchine e dagli agi della vita quotidiana».
Deve essere una di quelle frasi pronte per fare effetto sulle donne, comunque se Ioachin continua col materialismo storico e la plusvalenza, forse ho trovato il Marx tedesco che mancava al mio articolo di viaggio; purtroppo, invece, si concentra su Teoria e pratica del viaggiare in bicicletta.
Ieri Ioachin ha dormito poco distante dal tempio, in tenda, fregandosene della polizia che pretende che tutti siano turisti con un albergo, un indirizzo, un posto dove si possa essere eventualmente rintracciati. Appena arrivata, Pig, una vietnamita con un muso che ne traduce il nome, ripete che è un pazzo, ignaro dei pericoli, anche se finora gli è andato tutto liscio. Fra i paesi comunisti, il Vietnam è forse quello in cui i turisti hanno maggiore libertà, ma è sempre meglio evitare la polizia. Motivo per cui Ioachin preferisce circolare e accamparsi per strade poco battute, prendendosi così cura anche delle orecchie, visto che il clacson, da queste parti, è una valvola di sfogo collettiva.
Alcuni fedeli giungono al tempio. Mr Tich non si è ancora abituato al fatto che ora la gente gli mostri riverenza, congiungendo le mani in preghiera, mentre soltanto ventiquattro ore fa era considerato un portafoglio ambulante. Pig è tornata con il tè e, per rispetto, lo offre prima al monaco Pizzetto.
«Vorrebbe sapere cosa pensi del Vietnam», traduce la ragazza.
«Non so», rispondo. «Sono solo un paio di settimane che viaggio».
«Dove sei stato?», segue Ioachin che è in giro da tre mesi.
«Da Hanoi sono andato a Sapa, per scalare la montagna più alta del Vietnam. C’erano centinaia di donne hmong, tay e dzao che si attaccavano ai pochi turisti per vendergli borse, braccialetti, abiti tradizionali, cartoline… Ho rischiato di sposarmi una decina di volte, ma alla fine ho comprato soltanto una giacca a vento, la cosa più tipica del posto. Con la giacca nuova e una moto a noleggio finivo a sgasare in mezzo a villaggetti remoti mentre i locali pensavano a tagliare la legna per l’inverno. Mi sono sentito un cretino svariate volte e allora, siccome il tempo non migliorava, ho optato per la famosa baia di Ha Long».
«Il posto più famoso del Vietnam», fa Ioachin, come a dire che me la sono cercata.
«Ero preparato. La baia di Ha Long è famosa per il labirinto di faraglioni sbilenchi che escono dall’acqua. L’unica alternativa ai tour in barca con i cocktail era il kayak. Pagaiavo rapito: alcuni uccelli stavano nidificando e i falchi, in lontananza, si avvitavano in picchiata, puntando i pesci. Le case dei pescatori galleggiavano grazie a enormi piattaforme di polistirolo, insieme a cani, piante, gatti e galline. Dopo aver abbandonato la baia, finii a largo su una spiaggia deserta. Capii di essere sbarcato sull’isola delle scimmie
, quando un ometto venne a consegnarmi di corsa il biglietto d’ingresso da un dollaro».
Dovrebbero essere Tich e Ioachin a raccontarmi di avventure on the road, di travagli interiori che li hanno portati a scelte di vita così radicali, invece mi invitano a proseguire: «Qualche ragazza prendeva il sole, altri giovani facevano il bagno. All’improvviso, delle urla dalla vegetazione. Le scimmie urlatrici? Accorsi con un remo in mano e scoprii che un nutrito gruppo di scimmie non urlatrici aveva imposto il pedaggio sul sentiero che porta dalla spiaggia al resort. Patatine e biscotti prima, gentilmente. Poi, visto che il cibo rende le scimmie aggressive, queste avevano mostrato i denti e assalito qualche turista vietnamita. Urla vietnamite insomma. Per fortuna niente morsi, ma ho faticato tutto il pomeriggio successivo a capire quale fosse la differenza reale fra le scimmie e gli uomini».
«Il Vietnam non si lascia amare così presto», spiega Ioachin con un sospiro, invitandomi ad abbandonare le rotte turistiche e le mie vacanze perfette. «Sembra un enorme cantiere, pieno di visitatori, cemento e rumore… Ci vuole un po’ di pazienza».
La bandiera rossa con la stella gialla a cinque punte sventola all’ingresso del tempio, accanto a quella colorata del buddismo. In Vietnam il comunismo ha rispettato la religione, lasciando integri i templi che non erano stati distrutti dalla guerra, anche se non ha rinunciato a promuovere la rivoluzione fra i piani celesti. Un primo turista scatta qualche foto e il monaco Pizzetto insiste eccitato che, siccome sono pelato, io e Vladimir Lenin siamo due gocce d’acqua. Continua a ripetere che mi manca soltanto il suo pizzetto. Non so più che inventarmi e, pur di cambiare argomento, spiego che sono masochista, che sto scrivendo un reportage, e ora vogliono tutti sapere di cosa si tratta. Diciamo che oggi in Vietnam continua a esserci un partito unico al governo, la falce col martello in ogni angolo della strada, la religione e la proprietà privata, con il turismo che regge il tutto come un collante. Pig ha tradotto, ma Pizzetto non ne capisce ovviamente la sostanza. Consentitemi allora qualche appunto chiarificatorio:
Grazie al turismo – quasi sei milioni di persone quest’anno – è oggi possibile un compromesso, la stabilità e il progressivo benessere economico. Il sistema economico per il quale gli americani hanno tanto combattuto, mietendo numerose vite umane, è stato imposto facilmente soltanto con la pace. E, infatti, oggi pullman di vecchi veterani con consorti, e vietnamiti, emigrati o fuggiti a causa della guerra, corrono per le strade del paese, non solo a scattare foto ma a ricercare, in maniera catartica, il senso del passato.
Meglio abbandonare la politica. Tich mi lascia intendere che conosce poco Pig e non molto meglio il maestro Pizzetto. Potrebbe volare qualche soffiata alla polizia.
In compenso Ioachin è incontenibile: secondo lui per dare sostanza al mio ordinario articolo di viaggio dovrei comprare una bicicletta e pedalare assieme a lui fino al confine con la Cambogia! Niente aereo. Ha già fissato a domani mattina la partenza; l’idea è interessante e prendo tempo.
Mr Tich chiede se vogliamo sorbirci i suoi goffi tentativi di pregare in vietnamita e noi, chiaramente, accettiamo. Nel padiglione principale del tempio la statua dorata del Budda domina l’altare, una folta piramide di bodhisattva e offerte floreali, con i minacciosi giganti Tran Vu e Giong ai due lati come piantoni. L’incenso è già fragrante nell’aria quando sediamo poco distante dai monaci, nel tentativo di sentire cosa sia la religione, il silenzio, la pace; ma è impossibile con Tich che, foglietti alla mano, prova a seguire le incomprensibili formule rituali di Pizzetto, leggendo e cantando in vietnamita. Batte poi un cocco, un guscio sonante, per marcare il tempo, mentre Pizzetto si esibisce con un bel tamburo a cornice. Malgrado abbia parlato di vuoto, d’inesistenza della mente, Budda è Dio e ama la musica, come gli antenati e gli spiriti. E non disdegna neanche i giochi di prestigio: Pizzetto ha lanciato delle monete per aria e ora invita tutti noi a provare.
Mi ritrovo in mano due vecchie monete di bronzo, con degli ideogrammi impressi su un solo verso. Facendole saltare da una mano bisogna ottenere una faccia con gli ideogrammi e una senza. «Very zen», dico a Tich, e comincio a riflettere sull’operazione. Ma c’è poco da pensare. Una mano, due monete, quattro possibilità. Tiro e niente ideogrammi. Tiro di nuovo, ma nulla. Il fatto è che, come fossero dadi, mi affido alla sorte. Pizzetto invece mi dimostra che non esiste il caso, riuscendovi di nuovo: bisogna essere contemporaneamente nella mano (l’azione), nelle monete (la possibilità), nella soluzione (la perfezione). Tiro ancora finché, proprio a caso, vi riesco. Ne sono tutti sollevati, la cerimonia è finita. Torniamo a sedere sotto