L'eco della fuga
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Anteprima del libro
L'eco della fuga - Martino Lo Cascio
Table of Contents
PARTE PRIMA
A.D. 1993
Un racconto d’infanzia
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
PARTE SECONDA
A.D. 2001
Sette anni dopo
Capitolo 6
Nel quartiere, una signorina
Capitolo 7
Impalcature
Capitolo 8
Rinascite
Capitolo 9
Una coppietta
Capitolo 10
Carmelina
Capitolo 11
Le chiavi e le storie
Capitolo 12
China
Capitolo 13
Segreti
Capitolo 14
Cecità
Capitolo 15
Scricchiolio
Capitolo 16
Malevolenza
Capitolo 17
Guai ai sazi
Capitolo 18
Telefonia
Capitolo 19
Svagati
Capitolo 20
Fraintendimento
Capitolo 21
Le cose e le immagini
Capitolo 22
Invocazione
Capitolo 23
Dove s’interruppe
Capitolo 24
Ritorno
Capitolo 25
Corale
Postfazione
A mia madre
Aida Burruano Lo Cascio
Il desiderio di narrare il servizio dei ministri straordinari
, misconosciute figure attive nelle nostre comunità,
è nato dall’ascolto dei racconti di mia madre,
da tanti anni impegnata in questa missione
.
La storia e il carattere della protagonista, però, non le somigliano per nulla e, peraltro, risulta frutto della mia fantasia il legame con la reale e documentata fuga da Lipari dei tre eroi dell’antifascismo.
Se non credi in tempo all’amore,
nessuno ti potrà salvare.
David Maria Turoldo
Non c’è viso che non celi
un paesaggio sconosciuto, inesplorato,
non c’è paesaggio che non si popoli
di un viso amato o sognato.
Deleuze e Guattari
Dove la memoria vacilla
arriva l’immaginazione a completare il disegno.
Marco Baliani
PARTE PRIMA
A.D. 1993
Un racconto d’infanzia
Addio, addio. Dove, quando ci rivedremo?
In acqua, speriamo.
Carlo Rosselli
Capitolo 1
Il mese scorso è morto mio marito.
Mio figlio è scomparso qualche giorno dopo. Senza dire una parola.
Svaniti entrambi dall’orizzonte del mio sguardo.
Sono nata a Lipari, la più grande delle isole Eolie.
Il mio nome è Adele, come il piroscafo che ogni giorno effettuava la traversata Milazzo-Lipari, andata e ritorno. L’altro piroscafo si chiamava Etna, come la punta del vulcano che riuscivamo a vedere in lontananza.
Ero una ragazzina molto sveglia. Irrequieta. Così indisciplinata che non so come sia potuta diventare la donna che vedete oggi: metodica e coscienziosa, ligia e decorosa. Vado per i 72 anni e non so giustificare gli esiti della mia esistenza a partire dalla selva oscura dell’infanzia.
Non fa eccezione la vicenda epica cui partecipai intorno agli 8 anni.
Non sono una scrittrice e mi concederò il lusso di ritornare a quell’episodio, senza preoccupazioni narrative. Spero solo, con questo artificio mai osato, di superare il dolore, ricostruendo pezzo per pezzo la mia vita. Scrivendola a partire da quell’episodio antico.
Infatti, in verità, fui testimone e protagonista di un evento che cambiò il destino di tanti.
Di sicuro il mio e quello di Emilio Lussu, Carlo Rosselli e Francesco Nitti.
Antifascisti militanti. Gente che ha fatto la storia.
Erano amici di mio padre. Di lui non scriverò il nome.
Da tanti anni la nostra isola era stata usurpata dal regime fascista che ne aveva fatto località dove confinare i dissidenti. Il fascismo aveva riesumato la procedura che, con alti e bassi, persisteva dall’Unità d’Italia in poi. In questo modo si formava una promiscuità di detenuti anche se la più parte erano condannati per questioni politiche.
Li stoccavano come roba marcia in varie isole dell’impero italico. Per il Duce Maximo il nostro ruvido fazzoletto di terra sul mare era una buona soluzione. A 240 miglia da Malta, a 330 da Tunisi, a 400 dalla Corsica. Distanze che rassicuravano i fascisti e facevano desistere da ogni congettura d’evasione. Come diceva sempre il direttore del carcere quando lo incontravamo al bar, Da Lipari non pensano di scappare neppure le mosche
. E quando il Signor Cannata diceva queste parole, canzonando i presenti prima di ingerire la granita di limone che adorava, io dentro di me, sognatrice e ribelle com’ero, pensavo: Forse…
E sgattaiolando fra le sedie in piazza, raggiungevo la mia banda.
Un manipolo di bimbetti e canaglie in erba.
Il carcere troneggiava affacciandosi sulla costa dove attraccavano barche e navi. Una cittadella fortificata, soprelevata per un naturale promontorio breve. La costruzione quasi declinava a strapiombo sugli scogli aguzzi dove le onde si scagliavano spumose.
Era la prima tappa obbligata per i delinquenti e i sant’uomini che arrivavano, sospinti dalle leggi del fascio. Non erano felici, è ovvio. Ma ciascuno di loro sapeva che il destino poteva riservargli di peggio. Per esempio luoghi ancor più dannati come l’Ustica petrosa, dipinta come spazio vuoto e infernale. Là il cuore s’inaridiva e i carcerieri senza scrupoli, lasciati senza un vero controllo sui loro soprusi immondi, vessavano brutalmente i corpi.
Li vedevamo arrivare con il piroscafo. Scendevano ammanettati. I confinati politici li riconoscevi subito perché tenevano la testa alta e guardavano con fierezza e curiosità il nuovo mondo che li attendeva. Camminavano lentamente, in fila, sferragliando perché legati fra loro con enormi catene. Ad attenderli, oltre ai militari, c’erano tutti i compagni già confinati. Insieme avrebbero spezzato la monotonia delle giornate tutte uguali. All’inizio i confinati non capivano la nostra parlata siciliana. Avevano quasi tutti accenti stranissimi. Per chi li aveva spediti in villeggiatura
(li sfottevano così) si trattava di democratici, repubblicani, massoni, comunisti, liberali, socialisti e anarchici. Ma anche qualcuno con reati comuni.
A noi bambini suscitavano molta compassione, anche se qualche picciriddu scimunito sputacchiava per terra quando passavano. Avevamo ascoltato tanti racconti di questi poveri cristi. Li facevano viaggiare tutti compressi nelle stive, attaccati al bestiame. E questo era niente. Prima di arrivare alla nave, li spedivano nei vagoni cellulari. Non lo so se ci sono ancora. Ma loro li descrivevano come delle carceri in movimento, prigioni mobili tutte rivestite d’acciaio. Gli scompartimenti di metallo si arroventavano al sole e loro abbrustolivano come pane al forno. D’inverno si creava l’effetto frigo e congelavano. Erano obbligati dai soldati a rimanere impassibilmente seduti su degli scanni molto piccoli, separati gli uni dagli altri.
Quando scendevano dal piroscafo – espletati al largo i doverosi controlli incrociati e i primi passaggi di carte bollate tra militari – la sfilata di incatenati faceva il suo défilé per la gioia sadica degli uomini di potere. Si trascinavano con un’enormità di bagagli dove sigillavano tutta la loro vita per gli anni a venire.
Fiancheggiati dai carabinieri, talvolta accennavano sorrisi o mezzi saluti se incrociavano lo sguardo di compagni di lotta già detenuti.
Il molo per gli sbarchi, piccolo e quasi lucido, in linea d’aria era proprio sotto la chiesa dove avevo iniziato a frequentare le funzioni religiose tutti i giorni.
Mi dava un senso di pace, di conforto, di calore.
E dire che avrei dovuto invece disertarla la chiesa.
Infatti avevo chiesto ripetutamente al parroco di fare il chierichetto. Simulavo impeccabilmente la messa, prima con le bambole e con i compagni dopo. Mimavamo in fila indiana persino la comunione, masticando ostie fatte d’aria. Mi sentivo davvero tagliata per quel ruolo. Volevo servire il sacerdote nelle sue mansioni. Ma il prete mi ripeteva che ero femminuccia e quel compito era solo per i maschietti. Eo tempore
me ne feci una ragione.
Per la maggior parte alloggiavano nelle camere preparate nel castello – che detto così sembra vero una villeggiatura, quando era poco meglio che un carcere. Sorvegliati continuamente da milizie fasciste e altre forze dell’ordine. Uscivano al mattino solo dopo l’appello e gli spettava una piccola paga. Dieci lire al giorno. Non potevano oltrepassare una zona del centro del paese che era ben delimitata. Il mare veniva controllato dai motoscafi con tanto di mitragliatrici assassine.
Qualcuno più facoltoso otteneva anche il permesso di affittare qualche casupola in paese. Si costringevano a grandi sacrifici ma risultava impagabile la possibilità di stare a casa e, magari, riuscire a ricongiungersi con la propria famiglia.
Mio padre e mia madre erano dalla parte degli antifascisti.
Io vivevo con mia madre e le sue sorelle.
Mio padre non viveva con noi perché era anche lui uno dei confinati.
Come dicevo, noi carusi
, avevamo formato una banda.
Scorrazzavamo dappertutto e avevamo ogni libertà di movimento. Nella banda ci stavano i figli dei confinati, quelli dei carabinieri, dei pescatori, e pure gli orfani. Non c’erano disparità. Noi avevamo infiltrati
dentro ogni abitazione e gestivamo in segreto le informazioni più importanti e riservate.
Quando ci riunivamo – io ero la capa, avevo i capelli cortissimi, quasi a zero, ed ero più forte dei maschi – ognuno raccontava quello che aveva ascoltato a casa.
Di tutti gli abitanti dell’isola, la banda conosceva vita, morte e miracoli, spostamenti e decisioni, piani nascosti, scorciatoie e orari, appuntamenti amorosi e tradimenti, scappatelle e luoghi del tutto ignoti ai poliziotti o ai paesani pettegoli.
Altro che servizi segreti!
Nella banda c’era anche Pietro. Bellissimo, simpatico, riccioluto.
Aveva un modo di parlare così gentile e risoluto che l’avrei ascoltato per ore. Ma la sua dote più grande era la capacità di farmi parlare. Mi confidavo solo con lui. Tra i rimproveri dei grandi, che non vedevano di buon’occhio quella complicità, e le gelosie di qualche amichetta che spasimava
segretamente per quell’Adone in miniatura.
Vestiva con eleganza e nuotava come un pesce. Eravamo tutte ai suoi piedi.
Ma le piccole rivalità non causarono mai problemi alla nostra banda.
L’amicizia e i codici erano superiori a tutto. E poi eravamo dei mocciosi. Neanche avevamo i vocaboli per quelle che apparivano semplici imitazioni dei palpiti degli adulti.
La banda sapeva il fatto suo.
E tutti partecipammo al tentativo di evasione rocambolesca che ancora oggi appare temeraria e impossibile.
Zio Emilio, zio Francesco e zio Carlo tentarono di scappare nottetempo.
Ma fin da piccola ricordo ben poco di quelle ore.
Dimenticare, tentare di dimenticare fu la mia prima necessità.
Nacqui prematura ed ero stata letteralmente appiccicata alla morte per ore e ore. La mia gemella era morta nel grembo di mamma. Accanto a me. Addosso a me. Ma a farmi davvero male non fu quell’adesione intima al mistero, il faccia a faccia con il respiro negato. Fu, invece, la sensazione di essere stata io stessa a decretarne la fine. Mors tua, vita mea
. Una tragica selezione naturale. Il peccato originale. La colpa da espiare. Inspiegabile agli occhi di mia madre. Che i primi anni mi chiamava sempre con il nome che avevano scelto per la gemellina.
Ho sempre pensato che la mia vita si sia dispiegata in una teoria di trame frammentarie, un’infinita di segreti, di parole non dette.
Mi ha tenuta in piedi la fede costante in Cristo, per quanto soporifera e talora mortificante, ricuciva immagini di me che anche oggi non riesco davvero a mettere insieme in un romanzo coerente.
Quei due anni, però, furono memorabili. Vissuti nella sensazione che qualcosa di grande incombesse sul nostro presente. Ogni giorno pensavamo potesse succedere qualcosa di leggendario. Attendevamo un eroe. Ogni istante era vissuto come se il giudizio universale potesse finalmente rendere giustizia di quello schifo in cui l’isola e gli uomini erano sbriciolati. Ci si alzava la mattina pregando e si usciva di casa con l’anima sbatacchiata tra noia e ardore, tra mestizia e tensione intrepida. In fondo sapevamo di essere sospesi dentro un’epopea malvagia, a cui molti di noi non volevano abituarsi. L’unico tormento fisso, l’unico chiodo dove affiggere le speranze, era squagliarsela.
Ogni pensiero vi era consacrato.
Eppure, ritornando a quell’evasione di cui dirò, non ho immagini dell’epilogo.
Non sono mai riuscita a recuperare la scena finale.
Magari scrivendo, ci provo, riapparirà quella lettera rubata, l’orma scomparsa.
Non mi illudo. Ho già fallito in passato.
Deve essere di sicuro accaduto qualcosa d’irreparabile che la mia mente vuole cancellare.
Qualcosa che nei libri di storia è taciuta.
Capitolo 2
Ieri mi sono confessata e ho rivelato la scomparsa di mio figlio al prete, quello che aveva celebrato il funerale di mio marito.
Tornando a casa ho assunto dei farmaci.
Da tanto non ripensavo ai tempi antichi. Ricordare mi ha spesso procurato forti vertigini.
Soprattutto ritornando a quel periodo, persone, fatti, caratteri, iniziano a mescolarsi, in una netta frattura che mi disorienta.
In verità io sono nata già vecchia.
Aveva ragione mia madre.
Ammetto di avere riverniciato infinite volte le pareti di questa storia ma ogni volta giungo in uno stesso vicolo cieco. Buio. Black-out. Capogiri. Il vuoto assoluto.
Qualcosa deve avermi scavato perdutamente.
Ricominciamo dall’inizio.
All’epoca ci si divertiva con poco, inventando ogni volta giochi nuovi o piccole varianti. A volte giocavamo nel Corso davanti al bar Eolo dove i confinati stavano buona parte del pomeriggio. Mi piaceva moltissimo un gioco che avevano inventato lo zio Francesco e il signor Dolci. Si dovevano indovinare i nomi di alcuni personaggi. Si potevano fare delle domande e si vinceva una granita al limone (l’unica cosa che metteva d’accordo carcerati e carcerieri, poveracci e benestanti). Non era scontato ci fosse la granita ogni giorno sia per la difficoltà ad avere refrigeratori sia perché la stessa acqua era sempre razionata. La portavano con le navi cisterne e quando c’era brutto tempo si poteva rimanere senza, assetati per giorni e giorni. D’estate si rischiava seriamente di morire per l’arsura.
Stavamo quasi perennemente all’aperto, anche d’inverno. Rincasavamo con il buio.
Con la nostra banda di scanazzati facevamo azioni di spionaggio e piani per conquistare il potere sull’isola e imporre ai grandi le nostre regole.
Il quartiere generale era un posto disabitato che stava proprio nel cuore della cittadella fortificata. Era soprannominata la casa degli spiriti
e i grandi si guardavano bene dal frequentarla. Il luogo perfetto per le nostre riunioni carbonare. Sotto il castello e in posizione strategica. Ci vedevamo là ad un segnale convenuto. Discutevamo sottovoce le mosse da compiere per colpire i nostri bersagli. Quando sentivamo qualcuno avvicinarsi, ci zittivamo di colpo. Ciccio, uno dei più piccoli, figlio di un secondino del carcere, improvvisava mugugni e lamenti che facevano scappare a gambe levate chiunque, rinfocolando l’idea che si trattava esattamente di un antro infestato da presenze maligne.
Torniamo agli eroi, quelli veri, di questa storia.
Lo zio Carlo era bravissimo nella navigazione e nelle cose di mare aperto.
Lo zio Francesco era un maestro nel conoscere punto per punto la costa, gli scogli, le maree.
Lo zio Emilio come pochi s’intendeva di stelle, luna e volta celeste.
Non avevano raccolto quelle conoscenze per astratto piacere intellettuale ma c’era una missione da compiere: svignarsela.
Come dargli torto?
Zio Emilio vivacchiava in una casetta sgarrupata ma lui diceva che ci stava benissimo. L’aveva scelta perché c’era un bel terrazzo e riusciva a spaziare