Taklamakan. La grande caccia al tesoro dell’archeologia
Di Marc Roubaix
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Anteprima del libro
Taklamakan. La grande caccia al tesoro dell’archeologia - Marc Roubaix
Scritti Traversi
TAKLAMAKAN
La grande caccia al tesoro dell’archeologia
di Marc Roubaix
Prefazione di Stefano Malatesta
TAKLAMAKAN
La grande caccia al tesoro dell’archeologia
di Marc Roubaix
Prefazione di Stefano Malatesta
© 2010 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Collana Scritti Traversi
ISBN 978-88-98848-81-2
Impaginazione omgrafica, roma
Immagine di copertina Karanghu-tagh. Malfattori esiliati da Khotan e mandriani di Taghlik a Khushlash-langar
Foto gentilmente concesse da Biblioteca dell’Accademia Ungherese di Scienze http://dunhuang.mtak.hu
Il mare di sabbia
. La carovana di Aurel Stein nel deserto del Taklamakan, a sud del Tarim.
PREFAZIONE
Quando Aurel Stein arrivò nell’Asia centrale, la Via della Seta non era neanche conosciuta sotto questo nome e del suo tracciato e della sua importanza gli europei avevano idee vaghe e contraddittorie.
Nessuno aveva mai immaginato che sulle piste, che andavano dall’oasi di Dunhuang fino al regno chiamato Fergana nell’Asia centrale e anche oltre, fosse fiorita una grande cultura buddhista durata mille anni. Cultura non semplicemente confinata nei monasteri popolati da uomini incappucciati d’ocra che passavano il loro tempo salmodiando e bevendo thè e burro, ma allargata a paesi e città che erano esposti agli attacchi dei popoli delle steppe e che ricordano la guarnigione immaginata da Dino Buzzati ne Il Deserto dei Tartari
.
Nell’insieme si trattava di una cultura che aveva prodotto una splendida fioritura artistica influenzata dall’Oriente come dall’Occidente. Da qualche tempo arrivavano notizie di ritrovamenti di oggetti modesti come dimensione ma estremamente eccitanti per il loro valore documentario, scritti come erano in una lingua sconosciuta e che facevano riferimento ad un mondo di cui non si sapeva nulla.
Sven Hedin aveva ritrovato pitture molto distanti tra loro per gusto e tecnica; alcune avevano un aspetto mediterraneo e ricordavano le opere del Fayoum, altre erano invece di fattura cinese con elementi lontani da qualsiasi forma di realismo. E la cosa straordinaria era che provenivano da un unico luogo: il deserto del Taklamakan, uno dei più spaventosi del mondo, che si apre tra le Tien-shan, le montagne celesti dove i kirghizi andavano a caccia con le aquile, e le Kun-lun, una catena delle montagne del Tibet dove secondo la leggenda è nascosta Shangri-La, la Valle dell’Eterna Giovinezza.
Allora si cominciò a sospettare che quel deserto, definito un abominio di desolazione, racchiudesse molto più di quello che era stato trovato. Orientalisti e archeologi entrarono in fibrillazione. Si scatenò così la più spettacolare, famosa e controversa caccia al tesoro che gli annali dell’archeologia abbiano mai registrato. Una corsa a chi arrivava primo tra le quattro o cinque nazioni più potenti del mondo che ritenevano non solo legittimo ma doveroso andare ad impadronirsi di tutto quello che poteva essere esibito nei musei in nome di una superiorità culturale europea.
L’archeologia è diventata ormai da molti anni una dignitosa e perbenistica scienza accademica frequentata da studiosi che assomigliano ai dotti di provincia di una volta, gelosissimi dei loro orticelli che coltivano con soverchia cura e specialisti nelle note a pie’ di pagina e nelle polemiche di lana caprina.
Non è chiaro cosa abbiano a che fare questi rispettabili signori con quegli avventurieri del secolo scorso, chiamati anch’essi archeologi, che erano in realtà una banda di briganti tagliagole e militari pronti a compiere qualsiasi atrocità e a giustificarle in nome di Sua Maestà, della quale erano al servizio. Alcuni di loro avevano abbinato l’istinto di predone con una fervidissima fantasia: da pochi reperti reinventavano intere civiltà.
A questo proposito, una delle storie più significative ed esilaranti della storia dell’archeologia è il ritrovamento da parte di Schliemann del tesoro di Troia. Dopo solo pochi giorni dall’inizio degli scavi, come per miracolo emersero dalle rovine di Hissarlik, dove tradizionalmente la Troia classica era collocata, ma da un livello sbagliato, tutti i gioielli di Priamo e di Ecuba, compresa la corona della regina che incredibilmente non aveva subìto nessun danno dopo una sepoltura durata tremila anni.
Come è naturale, la scoperta fece una sensazione enorme.
Adesso molti pensano che il tesoro sia un falso assoluto, commissionato agli orefici del Pireo dal mercante tedesco. La stessa operazione sarebbe avvenuta per le maschere d’oro, cosiddette degli Atridi, ritrovate a due passi dalla Porta del Leone a Micene.
Oggi quasi tutti sappiamo che anche la cultura minoica è un’invenzione nata da un entusiasmo di Sir Arthur Evans, il tipo di archeologo che da pochissimi manufatti trovati sul suolo faceva rinascere palazzi e città.
L’archeologia era qualcosa tra lo scavo clandestino e la rapina, un furto legalizzato, una ruberia. Gli archeologi dell’800 operavano come i corsari, alla Drake, alla Morgan, con patenti che legalizzavano il loro operato. Un’attività di genere selvaggio, simile ad una guerra dove non si fanno prigionieri, perché l’avidità degli archeologi era molto più simile a quella degli animali predatori che a quella degli studiosi.
Tuttavia ci sono momenti in cui rimpiangiamo questo genere di archeologia perché a volte i misfatti hanno salvato reperti che altrimenti sarebbero andati fatalmente perduti o distrutti.
Lo stesso Aurel Stein, protagonista di ritrovamenti spettacolari, fece la sua parte grazie all’astuzia e all’inganno: con la complicità ingenua del custode del tempio e della biblioteca segreta delle Grotte di Mogao, un bottino dal valore inestimabile prese la via dell’Europa. Stein portò via un’enorme quantità di preziose sete dipinte e rotoli stampati tra i quali il Diamond Sutra, ritenuto il più antico libro stampato che si conosca e che nessuno aveva mai visto fino a quel momento.
Quello che viene oggi considerato il Tesoro delle Grotte dei Mille Buddha di Dunhuang, fu tenuto nascosto per decenni negli scantinati del British Museum dai funzionari inglesi afflitti dal senso di colpa. Soltanto dopo gli anni ’60 i reperti furono finalmente trasferiti nelle sale ai piani superiori ed esposti a testimoniare il fiorire di una millenaria cultura sulla Via della Seta.
Stefano Malatesta
Aurel Stein e Jasvant Singh durante una sosta presso l’antico delta prosciugato del fiume Keriya.
1
Dagli Urali e le steppe del Kazakhistan, oltre il Mar Caspio, fino alla Cina e alla Mongolia, alle terre dei kirghizi, degli uzbeki, degli uiguri, dei tagiki, l’Asia Centrale, l’immensa Asia di Gengis Khan e di Tamerlano, agli inizi del Novecento era ancora la stessa che i cartografi arabi del Medioevo avevano rappresentato come una giovane donna avvenente e discinta, stretta alla vita da una catena chiusa con un lucchetto. Un miraggio, un desiderio proibito, un mistero per chi non possedesse la chiave di quel lucchetto. Quella regione del mondo, grande alcune volte l’Europa, era per la maggior parte inesplorata. Ciò che si sapeva di essa non andava molto al di là dei classici in materia, da Marco Polo ai padri gesuiti del Seicento, dalle memorie di alcuni ambasciatori inglesi presso il Celeste Impero ai resoconti dei pochi viaggiatori che si erano avventurati in questa o in quella parte di terre tanto inospitali. Nelle carte geografiche di appena un secolo fa, l’Asia centrale era un vuoto segnato dalle più grandi catene di montagne della terra, l’Himalaya, il Karakoram, il Pamir, le Montagne Celesti.
Al centro di quel vuoto, il vuoto assoluto: il più spaventoso dei deserti, il Taklamakan: la terra della morte
, come lo definiva il geografo Sir Percy Sykes, che fu per un certo periodo console a Kashgar, avamposto commerciale sulla Via della Seta ai margini del Taklamakan e crocevia fra tre imperi: quello russo, quello cinese, quello britannico. La sorella di Sir Percy, Ella, che di deserti se ne intendeva, avendone attraversato più d’uno, chiamava abominio di desolazione
quella distesa gibbosa di sabbia e sassi, lunga novecento chilometri e larga quattrocento, cosparsa di depositi salini e di dirupi argillosi che si scorgeva in distanza dalle finestre della residenza consolare di Kashgar, circondata da difese difficilmente superabili: a nord dalla superba catena del Tien Shan, a sud dal Karakoram e dalla catena del Kun Lun, a ovest dal Pamir (il Tetto del Mondo), a est dai deserti contigui del Lop e del Gobi.
A queste difese naturali si aggiungevano, a tener lontani viaggiatori e curiosi, superstizioni funeste e leggende terrificanti sugli spiriti maligni e i mostri e le potenze sovrumane che abitavano quella mortale distesa di niente, dove le dune, altissime, cambiavano continuamente forma sotto le raffiche del kara-buran, ovvero uragano nero
, il terrorizzante vento locale capace di raggiungere i duecento chilometri l’ora, sollevando vortici di pietre che non lasciano scampo a uomini, cammelli, cavalli, e dove intere carovane erano scomparse senza lasciare traccia.
Improvvisamente il cielo diventa nero… e subito dopo la tempesta aggredisce la carovana con violenza terrificante… L’oscurità aumenta e strani schianti risuonano fra i ruggiti e gli ululati della bufera… Tutti i viandanti investiti da una simile tempesta debbono coprirsi da capo a piedi di pesanti panni di feltro, quale che sia il calore, per difendersi dai colpi delle pietre che sfrecciano a folle velocità. Uomini e bestie si sdraiano per terra per sopportare la violenza dell’uragano, che può durare ore e ore…
. Così von Le Coq descrive quel deserto da incubo nel suo libro Buried Treasures of Chinese Turkestan: riferisce che nel 1905 una carovana di sessanta cavalieri cinesi, di scorta a un carico di lingotti d’argento verso l’oasi di Turfan, perì al completo per essere stata travolta da un kara-buran così forte da rovesciare i carri nonostante il peso del loro carico di metallo. In seguito, furono trovati alcuni corpi di uomini e di cavalli mummificati; tutti gli altri erano totalmente e definitivamente scomparsi: la tempesta di sabbia ama seppellire le sue vittime
. Per i cinesi, era tutta opera dei dèmoni che abitavano il deserto e attiravano gli uomini verso la morte per sete. E anche Sir Clarmont Skrine, console generale britannico a Kashgar negli anni Venti del secolo scorso, pareva dello stesso parere, stando alla sua descrizione del Taklamakan che egli poteva scorgere, come s’è detto, dalle finestre della residenza consolare: le sue gialle dune come onde gigantesche di un oceano pietrificato, si moltiplicano in innumerevoli miriadi fino al lontano orizzonte… Sembra che gridino silenziosamente, quelle dune, chiamando i viandanti e le carovane perché vengano a inabissarsi e a farsi inghiottire come tanti altri nel passato
.[1]
Eppure, proprio lì, intorno alle oasi che orlano i margini di quel deserto, e anche discosto da queste, in epoche nelle quali il clima era certamente meno selvaggio e le forze della natura più calme, era fiorita una civiltà della quale solo a metà del XIX secolo si cominciò ad avere sentore e a trovare qualche testimonianza. Un’antica civiltà sprofondata sotto quelle sabbie, riassorbita da una terra divenuta ostile e sinistra,