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Cemetery Road (Edizione italiana)
Cemetery Road (Edizione italiana)
Cemetery Road (Edizione italiana)
E-book837 pagine12 ore

Cemetery Road (Edizione italiana)

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Info su questo ebook

"Un romanzo ambizioso che è sia un'avvincente storia di crimini, sia un’indagine approfondita sul dolore, il tradimento e la corruzione. Iles scrive con passione, intensità e impegno assoluto.” — Washington Post “Eccezionale. Crime letterario al suo meglio, scorrevole, ingegnoso, ad alto tasso di tensione, e tuttavia dotato di un profondo intento morale… impossibile smettere di leggerlo.” — The Times “Iles ha creato un suo Mississippi, proprio come Connelly ha fatto con Los Angeles. Si parlerà di questo libro per molto tempo.” — Booklist A volte il prezzo della giustizia è l’anima di un uomo.
Marshall McEwan ha lasciato la sua cittadina d’origine in Mississippi a diciotto anni e ha giurato a se stesso di non tornarci più. E così è diventato un importante giornalista di Washington. Ma quando scopre che il padre è malato terminale deve tornare a casa e affrontare il passato. Al suo arrivo si rende conto che Bienville è molto cambiata. Il quotidiano della sua famiglia sta fallendo, Jet Talal, il suo amore giovanile, è sposata con il rampollo di un ricco imprenditore. La città, in cui i corrotti e i potenti spadroneggiano sotto un sottilissimo velo di rispettabilità, è controllata dal Bienville Poker Club. Ma due morti sospette squassano le fragili fondamenta della comunità. Due morti legate ai loschi affari del Bienville Poker Club. Marshall non può fare altro che cercare la verità, anche se presto capisce che il suolo del Mississippi è un campo minato, dove segreti esplosivi possono distruggere le anime ancora più dell’ingiustizia. Greg Iles è uno dei maggiori scrittori statunitensi di oggi, capace di intrecciare trame avvincenti dal ritmo incalzante a drammi umani di grande intensità. Cemetery Road ha esordito subito in cima alla classifica del New York Times, rimanendo in testa per settimane. Una storia epica ed emozionante di amicizia, tradimento e segreti sconvolgenti sullo sfondo affascinante e oscuro del profondo Sud americano.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2020
ISBN9788830511835
Cemetery Road (Edizione italiana)
Autore

Greg Iles

GREG ILES Nato in Germania nel 1960, ha passato la maggior parte della sua vita a Natchez, Mississippi. Si è laureato alla Mississippi University nel 1983. Ha esordito con il suo primo romanzo nel 1993, e da allora molti dei suoi libri, oltre a scalare i vertici delle classifiche, sono diventati film di successo, e sono stati pubblicati in più di trentacinque paesi.

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    Anteprima del libro

    Cemetery Road (Edizione italiana) - Greg Iles

    McKenna

    1

    Non ho mai avuto intenzione di uccidere mio fratello. Non ho mai voluto odiare mio padre. Non avrei mai pensato di seppellire mio figlio. Né avrei potuto immaginare di tradire l’amico d’infanzia che mi ha salvato la vita o di vincere un premio Pulitzer per aver mentito.

    Tutte queste cose ho fatto, eppure gran parte delle persone che conosco direbbe che sono un uomo rispettabile. Io non arriverei a tanto. Però cerco di essere un uomo buono, e in genere credo di riuscirci. Com’è possibile? Sono tempi difficili.

    E non è facile essere buoni.

    2

    Chino, in ginocchio, Buck Ferris estrasse una sfera di argilla cotta dal suolo sabbioso lungo il fiume Mississippi, poi si rialzò gemendo e uscì dalla buca vicino a un pilastro portante. Era difficile essere sicuri dell’epoca alla luce della luna e non avrebbe rischiato di accendere una torcia, non lì. Eppure… ne era certo. La sfera sul suo palmo era stata prodotta alcuni secoli prima che Mosè iniziasse a vagabondare nel deserto con i figli di Israele. Ferris faceva l’archeologo da quarantasei anni, ma non aveva mai rinvenuto niente di simile. Aveva l’impressione che la piccola sfera gli vibrasse in mano. L’ultimo essere umano a toccare quell’argilla era vissuto più o meno quattromila anni prima: due millenni prima che Gesù di Nazareth attraversasse le distese di sabbia della Palestina. Buck aspettava da una vita di reperire un manufatto del genere. Tutto il resto appariva insignificante al confronto. Se aveva ragione, il terreno su cui si trovava era il più importante sito archeologico non ancora scoperto del Nordamerica.

    «Cos’hai là, Buck?» chiese una voce maschile.

    Una luce bianco-azzurra gli trafisse gli occhi. Per poco non se la fece sotto. Credeva di essere solo sul terreno ampio e basso del parco industriale. Quattrocento metri più a ovest il fiume scorreva noncurante.

    «Chi sei?» chiese Ferris sollevando la mano sinistra per proteggersi gli occhi. «Chi c’è?»

    «Ti era stato detto di lasciar stare questa zona» affermò l’uomo dietro la luce. «È proprietà privata.»

    Aveva un sofisticato accento del Sud che solleticò la memoria di Ferris, però non riusciva del tutto a inquadrarlo. Né poteva dire molto a propria discolpa. Aveva chiesto il permesso di scavare in quella zona sette volte negli ultimi quarant’anni, e ogni volta se lo era visto negare. Cinque giorni prima, tuttavia, la contea aveva rimosso le macerie di uno stabilimento per l’elettroplaccatura risalente alla Seconda guerra mondiale. E nel giro di due giorni un’azienda cinese avrebbe iniziato a costruire al suo posto una cartiera. Se qualcuno intendeva scoprire che cosa si nascondeva in quel terreno, doveva farlo ora, al diavolo le conseguenze.

    «Da dove spunti?» domandò Buck. «Non ho visto nessuno quando sono arrivato qui.»

    «Oh, Buck… sei sempre stato un bravo ragazzo. Perché non potevi lasciare le cose come stavano?»

    «Ti conosco?» replicò Ferris, sicuro di aver già sentito quella voce.

    «Non sembrerebbe.»

    «Credo che tu non capisca il valore di quello che ho qui» esclamò con una vaga eccitazione nella voce.

    «Non hai niente lì» ribatté la voce. «Tu non sei qui.»

    Buck allora colse il messaggio e qualcosa prese a fremergli nel ventre, come se qualcuno stesse tirando una corda già tesa. «Aspetta, ascolta, il terreno su cui ti trovi… è un insediamento indiano di quattromila anni fa. Forse di cinque o seimila, a seconda di quello che scoprirò se scaveremo più a fondo.»

    «Speri in un documentario per la tv?»

    «Dio, no. Non capisci quello che ti sto dicendo?»

    «Certo. Hai trovato qualche osso indiano. Il problema è che è una cattiva notizia per tutti.»

    «No, ascolta. A soltanto ottanta chilometri da qui, in Louisiana, c’è un sito proprio come questo. Si chiama Poverty Point. È patrimonio mondiale dell’Unesco. Migliaia di turisti lo visitano ogni anno.»

    «Ci sono stato. Un paio di mucchi di terra, e avrebbe anche bisogno di una tagliata all’erba.»

    Buck si rese conto a quel punto che era come tentare di parlare di Bach con un buzzurro. «È assurdo. Tu…»

    «Un miliardo di dollari» lo interruppe l’uomo.

    «Prego?»

    «Un miliardo di dollari. Ecco quanto potresti costare alla città.»

    Buck cercò di concentrarsi nuovamente sul discorso, ma aveva sempre la sensazione che la sfera nella sua mano vibrasse. Nota come manufatto di Poverty Point, veniva usata dagli indiani per cuocere la carne sotto terra. Dio solo sapeva che cos’altro si trovava nel loess sotto i loro piedi. Ceramiche, punte di lance, gioielli, oggetti religiosi, ossa. Com’era possibile che qualcuno non capisse che cosa significava essere lì e sapere quello che lui sapeva? Com’era possibile che a qualcuno non importasse?

    «Questo non deve per forza compromettere il vostro accordo» affermò. «Situazioni simili vengono risolte continuamente con la soddisfazione di tutte le parti. Arriva il dipartimento per gli Archivi e la Storia, esamina il sito e sposta le cose, sempre che sia necessario. Per proteggerle. Tutto qui.»

    «Avrebbero spostato l’intera Poverty Point, Buck, per costruire una cartiera?»

    No, pensò. Non lo avrebbero fatto.

    «Un miliardo di dollari» ripeté l’uomo. «In Mississippi. Sono come dieci miliardi nel mondo reale. E non considero nemmeno che cosa mi costerebbe personalmente perdere la cartiera.»

    «Mi toglieresti quella luce dagli occhi?» chiese Buck. «Non possiamo parlare da persone civili?»

    «Fallo» disse la voce.

    «Cosa?» domandò Buck. «Fare cosa?»

    «Mi è sempre piaciuto il tuo fingerstyle. Ti saresti dovuto limitare a quello.»

    Buck udì qualcosa muoversi per terra dietro di lui, ma non riuscì a voltarsi abbastanza in fretta per vedere chi fosse o per difendersi. Un’immagine residua bianca gli invase il campo visivo e da quel biancore spuntò un rettangolo nero compatto.

    Un mattone.

    Sollevò le mani, troppo tardi. Il mattone gli si abbatté sul cranio, alterandogli la percezione. Sentì solo dolore e un senso di nausea dovuto all’improvvisa caduta nel buio. Il volto di sua moglie gli apparve tremolante nella mente, pallido per la preoccupazione quando l’aveva salutata, quella sera. Nell’attimo in cui toccò terra, pensò a Hernando de Soto, morto vicino al fiume Mississippi nel 1542, non lontano da lì. Si chiese se quegli uomini lo avrebbero sepolto accanto al fiume che lui amava da tanto.

    «Colpiscilo di nuovo» ordinò la voce. «Spaccagli la testa.»

    Buck cercò di coprirsela, ma le sue braccia non si mossero.

    3

    Mi chiamo Marshall McEwan.

    Sono scappato da casa a diciotto anni. Non era il Mississippi da cui scappavo, era mio padre. Ho giurato che non sarei mai più tornato, e per ventisei anni ho mantenuto la promessa, salvo per alcune brevi visite a mia madre. La strada non è stata facile, ma alla fine sono diventato uno dei giornalisti di maggior successo a Washington. Dicono che l’inchiostro ce l’ho nel sangue: negli anni Sessanta mio padre è stato un direttore e un editore di giornale leggendario, la Coscienza del Mississippi, come lo aveva definito il New York Times, io però non ho imparato il mestiere da Duncan McEwan. Da leggenda mio padre è diventato un ubriacone, e come gran parte degli ubriaconi è rimasto tale. Eppure ne sono sempre stato ossessionato, era come una seconda ombra al mio fianco. Quindi suppongo che fosse inevitabile che la sua morte mi riportasse a casa.

    Oh, non è ancora morto. La fine si sta avvicinando come una nave nera solitaria annunciata dalle onde che genera, onde scure che agitano una mente un tempo acuta e travolgono i confini protettivi di una famiglia. È spinta da quella che i medici chiamano comorbidità: morbo di Parkinson, insufficienza cardiaca, ipertensione, un fegato da alcolista. Ho ignorato la situazione il più a lungo possibile. Ho visto colleghi brillanti, in genere di dieci o quindici anni più vecchi di me, faticare per assistere i genitori sofferenti nelle loro piccole città, e ogni volta la carriera ne ha risentito. Per caso o per il karma la mia era decollata come un razzo dopo l’elezione di Trump nel 2016. Non avevo alcun desiderio di abbandonare il mio razzo, atterrare in Mississippi e fare da baby-sitter a un ottantaquattrenne che fingeva che non esistessi da quando avevo quattordici anni.

    Alla fine mi sono arreso, perché mio padre era così malato che non potevo più aiutare mia madre a occuparsene da millecinquecento chilometri di distanza. Papà ha trascorso gli ultimi trent’anni sprofondando sempre più nella rabbia e nella depressione, gettando nell’infelicità chiunque gli stesse attorno e rovinandosi nel contempo la salute. Ma dato che nel mio cuore sono un bravo ragazzo del Sud, il fatto che tra noi ci fosse un abisso incolmabile da più di tre decenni era irrilevante. Laggiù è una legge non scritta: quando tuo padre sta morendo, torni a casa e ti siedi al suo capezzale con tua madre. Inoltre, la nostra attività di famiglia, il Bienville Watchman (fondato nel 1865), stava andando a rotoli sotto la sua gestione sempre più inaffidabile. Visto che negli ultimi vent’anni si era caparbiamente rifiutato di vendere quel dinosauro di quotidiano, avevo dovuto considerarlo in attività finché alla sua morte non fossi riuscito a vendere ciò che ne restava per recuperare qualcosa.

    Questo a ogni modo era quello che mi ero detto.

    In verità le mie ragioni erano più complesse. Di fronte alle scelte cruciali della nostra vita agiamo di rado secondo logica. Allora non ero in grado di cogliere l’autoinganno. Ero ancora in stato di shock per un matrimonio che aveva vissuto una tragedia, o meglio, che non era stato in grado di sopravvivere a una tragedia, precipitando in un divorzio mentre la mia vita professionale toccava il vertice. Ora però lo vedo.

    Sono tornato a casa per una donna.

    Era solo una ragazza quando me ne sono andato, e io un ragazzo confuso. Ma per quanto la vita cercasse inesorabilmente di uccidere la tenerezza nel mio cuore, di rinchiudermi nella corazza dura, fragile del cinismo, una cosa pura restava viva e vera: la ragazza mezza giordana e mezza del Mississippi che mi aveva fatto scoprire le gioie segrete della vita era tanto impressa nella mia anima che nessun’altra donna l’aveva mai superata. Ventotto anni di separazione non erano bastati a cancellare il desiderio di starle nuovamente vicino. A volte temo che mia madre abbia capito sin dal primo momento la mia reale motivazione, o forse lo ha solo percepito e ha pregato d’essersi sbagliata. Ma che lo sappia o che lo ignori tuttora, come facevo io fino al giorno in cui ho ceduto, ho comunque preso un’aspettativa dai miei impegni con la stampa e la televisione, messo l’essenziale in valigia e fatto un viaggio in macchina verso sud teso a verificare il detto più famoso di Thomas Wolfe.

    Ovviamente puoi tornare a casa, ha risposto il mio orgoglio. Almeno per un po’. Puoi fare il tuo dovere di figlio. Quale uomo che si ritiene un gentiluomo non lo farebbe? E una volta compiuto quel dovere, e che lui sarà morto, riuscirai forse a convincere tua madre a venire con te a Washington. Sapevo in effetti che era una misera speranza, ma era qualcosa che potevo ripetermi invece di pensare troppo al problema irrisolvibile. No, non la situazione di mio padre. La ragazza. Ormai ovviamente è una donna. Una donna con un marito che è forse il mio migliore amico fin dall’infanzia. Ha anche un figlio dodicenne, e se questo nodo può sembrare non troppo gordiano nell’epoca del divorzio universale, altri fattori garantiscono che lo sia. D’altronde, i guai di mio padre inevitabilmente si risolveranno.

    Appaio freddo, suppongo.

    Non dico che papà abbia tutte le colpe della sua situazione. Ha avuto la sua dose di sofferenza, Dio lo sa, tale da fargli passare per sempre ogni inclinazione religiosa. Due anni prima che sposasse mia madre aveva perso la moglie e la figlia piccola in un incidente d’auto. Come se ciò non bastasse, quand’ero in prima superiore mio fratello diciottenne morì anche lui in un incidente, una sciagura che ha colpito la nostra città come una bomba sganciata da altezze invisibili. Forse il fatto di aver perso due figli uno dopo l’altro lo ha distrutto. Potevo capirlo. Quando mio fratello Adam è morto, è stato come se Dio avesse spento tutte le luci del mondo lasciandomi incespicare per i due anni seguenti come un cieco incapace di adattarsi alla sua nuova condizione.

    Dio tuttavia non aveva ancora finito con me. Vent’anni dopo la morte di Adam ho perso mio figlio di due anni, il mio unico bambino, nel più domestico di tutti gli incidenti. So che cosa significhi essere travolto dal fato.

    Però sono ancora in piedi.

    Gestisco le mie fonti, scrivo articoli, appaio alla CNN e alla MSNBC per commentare i fatti del giorno. Tengo anche discorsi a trentacinquemila dollari l’uno (o li tenevo prima di tornare nel mio stato sottosviluppato facendo precipitare irreversibilmente la mia quotazione di mercato). Il punto è che ho sofferto, ma sono andato avanti. Questo mi hanno insegnato a fare. Mi riferisco a mia madre, naturalmente, non a mio padre. E anche a Buck Ferris, l’archeologo e capo scout subentrato a mio padre dopo che questi ha abdicato al suo ruolo, che ha fatto quello che ha potuto per trasformarmi in un uomo. Dopo i miei successi Buck pensava di esserci riuscito. Io non ne sono mai stato sicuro. Se un giorno lo proverò a me stesso, lui non lo saprà mai. Perché ieri notte Buck Ferris è stato assassinato.

    La sua scomparsa sembra l’incipit naturale di questa storia, perché così di solito avviene. Una morte segna una comoda linea di demarcazione, dà inizio al quadro familiare delle indagini, dell’attribuzione delle colpe, della scelta della punizione. Ma gli inizi sono cose complicate. Possono volerci decenni per stabilire la catena esatta di cause ed effetti che hanno portato a un determinato esito. La mia laurea in storia mi ha insegnato se non altro questo. Non posso però aspettare vent’anni per discutere di questi fatti, perché se in questo momento sto bene, e ho fatto quello che era in mio potere per tutelarmi, ci sono persone che vorrebbero per me il contrario. Meglio metterlo nero su bianco adesso.

    Mentre compiamo insieme questi familiari passi, tuttavia, vi prego di ricordare che niente è ciò che sembra. Se l’omicidio di Buck rappresenta il naturale punto di partenza, la storia in realtà è cominciata quando avevo quattordici anni. Le persone le cui vite si sarebbero intrecciate con conseguenze fatali erano vive allora, e alcune già innamorate. Per comprenderla dovrete fluttuare tra due epoche come chi passa dallo stato di veglia al sonno e di nuovo alla veglia. Data la natura della mente, considereremo i sogni come il passato, mai del tutto precisi nel ricordo, concepiti sempre per asservire i nostri desideri (tranne quando ci tormentano per le nostre colpe). E il presente come lo stato di veglia… Be’, anch’esso racchiude le sue insidie.

    A tredici anni mi sono imbattuto in un uccello, un colino della Virginia, appollaiato su un tronco nel bosco. Un altro giaceva ai suoi piedi. Sembrava morto, ma io mi sono inginocchiato e li ho osservati per mezzo minuto; il secondo era immobile, il primo invece si muoveva curioso come se aspettasse con impazienza che il compagno si alzasse. Solo quando mi sono deconcentrato, forse per la fatica, ho notato il serpente a sonagli avvolto a spirale, pronto a colpire. Il crotalo diamantino era lungo un metro e venti e fissava me, non l’uccellino.

    Quel giorno sono sopravvissuto e ho imparato una cosa: abbastanza vicino da vedere significa abbastanza vicino da uccidere.

    4

    Quando mi è giunta voce che c’era un corpo nel Mississippi, lo sceriffo aveva già inviato l’imbarcazione di soccorso della contea per recuperarlo. Di solito avrei mandato un reporter a documentare il fatto ma, dato che la mia fonte sembrava piuttosto certa che il morto fosse Buck Ferris, sapevo di doverci andare di persona, il che comporta qualche difficoltà. Per me l’acqua e la morte sono inestricabilmente legate. Non vado mai al fiume, non lo attraverso neppure sul ponte alto, a meno che non abbia altra scelta, cosa che può rendere piuttosto scomodo vivere in una città fluviale.

    Oggi non ho scelta.

    Prima di lasciare gli uffici del Watchman, chiamo Quinn Ferris, la moglie di Buck. Quinn mi ha trattato come un figlio quando stavo a casa sua, il che è accaduto spesso e per lunghi periodi. Nonostante i miei anni di assenza da Bienville (a eccezione degli ultimi cinque mesi), le sono abbastanza legato da sapere che preferirebbe ricevere la tragica notizia da me piuttosto che dalla polizia o dal coroner. Come temevo, le è già giunta voce: la maledizione delle piccole città. Sta correndo di qua e di là, cercando di trovare le chiavi per andare al fiume, in quanto vive venticinque chilometri all’interno della contea. Quinn vuole disperatamente mettersi in viaggio, ma in qualche modo la convinco a restare a casa finché non le darò conferma di quella che è ancora solo una voce.

    Il mio SUV è parcheggiato nel posteggio dei dipendenti dietro la sede del giornale. Siamo soltanto a quattro isolati dal promontorio dove Front Street taglia a quarantacinque gradi quel salto di sessanta metri fino al fiume. Immettendomi in Buchanan Street, riesamino quello che la mia fonte mi ha detto al telefono. Intorno alle otto e quaranta un ex canoista professionista ha scoperto un uomo che riteneva fosse Buck Ferris incastrato nella diramazione di un tronco di pioppo sommerso nel Mississippi, quattrocento metri a sud dell’approdo di Bienville. Il canoista non conosceva bene Buck, ma era stato a un paio delle sue conferenze archeologiche al Villaggio indiano. Chiunque conosca il fiume Mississippi sa che questa vicenda ha del miracoloso. Se Buck non fosse finito per caso tra i rami di quell’albero, sarebbe forse stato trasportato fino a Baton Rouge o a New Orleans prima di essere ritrovato, sempre che lo avessero ritrovato. Molti annegano nel Mississippi e, anche se alla fine vengono in gran parte recuperati, ci sono casi in cui il dio del fiume si rifiuta di rinunciare ai suoi morti.

    Il terrore mi attanaglia lo stomaco mentre percorro la ripida discesa di Front Street fino a quella che la gente del luogo chiama Lower’ville, abbreviazione di Lower Bienville, ma che la Camera di commercio chiama Riverfront. Il livello del Mississippi è già alto anche per la stagione primaverile, e un vento pungente crea creste bianche sulla sua superficie ampia, fangosa. Distolgo lo sguardo dall’acqua concentrandomi sulle auto parcheggiate lungo il guardrail di legno che protegge dal precipizio, ma per placare l’ansia serve a poco. Da più di trent’anni cerco invano di liberarmi da quella che è indubbiamente una fobia legata a quel fiume.

    Dovrò stringere i denti.

    Due strade strette sono tutto ciò che resta di Lower’ville, nel diciannovesimo secolo una zona equivoca all’ombra del promontorio di Bienville. Duecento anni fa questo famigerato approdo fluviale offriva di tutto agli equipaggi delle chiatte e delle navi a vapore, dal gioco d’azzardo alle donne di facili costumi, dall’ottimo whisky alle pistole da duello a noleggio. A Lower’ville fiorivano i commerci di qualsiasi cosa, dal cotone a fibra lunga agli schiavi africani, a beneficio dei nababbi residenti nelle ville sfarzose sul promontorio, i quali facevano rifluire il denaro nel quartiere per pagarsi i loro vizi.

    Oggi è cambiato tutto. Il fiume inesorabile ha ridotto Lower’ville a due strade parallele collegate da cinque vicoli corti, fiancheggiate perlopiù da bar e ristoranti turistici. La Sun King Gaming Company conserva un piccolo ufficio e ha una fermata dei bus per il suo pacchiano casinò in stile Luigi XIV, che spicca un chilometro e mezzo più in su lungo il fiume. Un tour operator locale gestisce un servizio di pullman scoperti, e un distillatore di whisky mette in pratica la sua arte in un vecchio magazzino ai piedi del promontorio. Tutto il resto è composto da negozi carissimi. Non ci sono prostitute, capitani di navi a vapore, marinai di chiatte armati di coltello o duelli con la pistola. Oggi i duelli si verificano a Bucktown, e le armi d’elezione sono le Glock e gli AR-15. Per il gioco d’azzardo bisogna risalire il fiume fino al Sun King. Non vengo quasi mai in questa parte della città e nelle rare occasioni in cui sono costretto a incontrare qualcuno in un ristorante sul fiume, do le spalle ai finestroni per non guardare tutta quell’acqua.

    Oggi non avrò il lusso di evitare il mio fattore stressogeno. Parcheggiando la Ford Flex a pochi metri dall’argine del fiume, noto l’imbarcazione di soccorso della contea ancorata nella corrente quattrocento metri a sud dell’approdo, a cento dalla riva. Una fila irregolare di persone osserva l’operazione in corso sull’acqua. A poco più di un chilometro dalla barca ondeggiante, la sponda bassa della Louisiana incombe sul fiume. La vista da questa prospettiva mi provoca la nausea, in parte a causa del fiume, ma anche perché comincio ad assimilare la realtà: Buck Ferris ha forse lasciato questa terra ieri notte mentre io dormivo nel mio letto. Sapevo che probabilmente era in pericolo, eppure, ovunque sia andato ieri sera, ci è andato solo.

    Mi costringo a distogliere lo sguardo dalla riva opposta, vado a valle allontanandomi dai curiosi per avere una visuale sgombra in direzione della barca. Senza un binocolo non riesco a vedere molto, ma i due agenti a bordo sembrano impegnati a ripescare dall’acqua qualcosa sull’altro lato.

    Ci sono tre tipi di ostacoli sommersi nel fiume, e tutti hanno fatto naufragare parecchi battelli a vapore all’epoca di Mark Twain. I più insidiosi sono gli alberi sradicati dal fiume che si incastrano sul fondo e vi restano bloccati del tutto dal limo. Spesso visibili in superficie solo per mezzo metro o anche meno, dondolano su e giù nella corrente aspettando di creare squarci fatali nelle barche pilotate da comandanti avventati. Viste le palesi difficoltà degli agenti, immagino che stiano faticando per liberare il corpo incastrato tra i rami semisommersi di un albero simile. E anche dopo esserci riusciti, dovranno sollevare quel peso morto al di sopra del bordo della barca, compito tutt’altro che facile. Rifletto sulla loro situazione e mi viene in mente l’ovvia domanda: quante probabilità ci sono che un uomo caduto in un fiume largo un chilometro e mezzo finisca in uno dei pochi ostacoli che gli avrebbero impedito di essere trasportato fino al Golfo del Messico?

    Mentre osservo le schiene chiazzate di sudore dei poliziotti, un ronzio simile a quello di uno sciame di calabroni mi passa sopra la testa distogliendo la mia attenzione dalla barca. Alzo lo sguardo e vedo un piccolo drone quadrirotore, un DJI presumo, sfrecciare sull’acqua a circa trenta metri d’altezza, diretto alla barca dello sceriffo. Sale rapido avvicinandosi: chiunque lo stia pilotando spera di non irritare gli uomini dello sceriffo. Conoscendo bene il dipartimento della contea di Tenisaw, dubito che quel pilota avrà molta fortuna.

    Un agente ha già notato il drone. Agita infuriato la mano al cielo, poi accosta il binocolo al viso e inizia a scrutare la riva in cerca del pilota. Seguo il suo sguardo, ma l’unica cosa che vedo è una coppia di poliziotti che fa la stessa cosa che faccio io: osserva la fila di curiosi in cerca di qualcuno con un joystick in mano.

    Dopo trenta infruttuosi secondi decido che il pilota sta per forza manovrando il drone dalla cima del promontorio alle nostre spalle. Se sta operando da lassù, sessanta metri sopra il fiume, scegliere di farlo volare basso fino alla barca è stata una mossa furba. Ha fatto credere alla polizia che lo stesse guidando dalla riva. Senza piegare indietro la testa osservo la recinzione metallica sulla sommità del promontorio. Non impiego molto a notare, centocinquanta metri a sud dell’approdo, una figura sottile in piedi, attenta, dietro la recinzione, con qualcosa in mano.

    Se da questa distanza non riesco a distinguerne i tratti e nemmeno il sesso, vedendola mi suona un campanello. Conosco un ragazzo che è un asso quando si tratta di riprendere un fatto clamoroso con la sua telecamera aerea: il figlio di una mia compagna delle superiori. Pur avendo solo quattordici anni, Denny Allman è un genio dei droni, e sul sito del giornale ho postato alcuni suoi filmati. La maggior parte dei ragazzi non avrebbe modo di salire sul promontorio di martedì mattina durante la scuola, ma Denny studia a casa, il che significa che può uscire se per esempio viene a sapere di un morto grazie allo scanner della polizia, avuto in regalo dalla madre il Natale scorso dopo varie suppliche.

    Mentre osservo la sagoma sulla roccia, il mezzo del coroner arriva rombando da Front Street. È un furgoncino Chevy vintage degli anni Sessanta. Invece di parcheggiare nella piazzola come ho fatto io, continua sulla terra battuta e lungo la riva fermandosi infine a una trentina di metri da me. Byron Ellis, il coroner della contea, scende e mi si avvicina evitando i curiosi che lo tempestano di domande.

    Non devi essere laureato in medicina per farti eleggere coroner a Bienville, in Mississippi. Byron Ellis è un ex autista di ambulanze e paramedico che all’approssimarsi del suo sessantesimo compleanno ha deciso di diventare il primo afroamericano a ottenere quel posto. Negli ultimi cinque mesi io e Byron siamo giunti a conoscerci bene per un tragico motivo: Bienville è scossa da una violenta ondata criminale circoscritta esclusivamente alla comunità nera. Circa sei mesi prima del mio arrivo gli adolescenti di colore hanno cominciato a uccidersi a vicenda in imboscate e sparatorie che hanno terrorizzato i cittadini sia bianchi sia neri. Nonostante il massimo impegno delle forze dell’ordine e l’intervento attento della comunità religiosa, della scuola e delle figure più importanti dei quartieri, il ciclo di rappresaglie si è soltanto inasprito. Io e Byron ci siamo trovati davanti a troppi ragazzini crivellati di proiettili e al fatto indiscutibile che la nostra società sia impazzita.

    «Chi c’è là fuori, Marshall?» mi chiede Byron avvicinandosi.

    «Ho sentito che si tratta di Buck Ferris. Non lo so ancora con certezza. Spero maledettamente che non sia così.»

    «Siamo in due a sperarlo.» Byron mi dà una pacca sulla mano che gli ho teso. «Quell’uomo non ha mai fatto male a una mosca.»

    Guardo i poliziotti che faticano sulla barca. «Pensavo che mi avresti battuto sul tempo venendo qui.»

    «Ho un altro ragazzo nel furgone. Oggi mi sto già facendo il culo.»

    Mi volto sorpreso verso di lui. «Non ho saputo di nessuna sparatoria ieri notte.»

    Scrolla le spalle. «Nessuno ne ha denunciato la scomparsa finché sua mamma non è andata a svegliarlo stamattina e ha visto che non era nel suo letto. Una squadra di carcerati addetti alla manutenzione delle strade lo ha trovato in un fosso dove Cemetery Road incrocia la Highway 61. Si è preso diciotto colpi, è quanto di meglio sono riuscito a capire. Ho estratto quello che pare un proiettile calibro 223 da qualcosa che assomigliava a un foro d’uscita sulla schiena.»

    «Maledizione, Byron. Questa situazione ci sta sfuggendo di mano.»

    «Oh, siamo ormai ben oltre, fratello. Adesso siamo in una zona di guerra. Al confronto gli archeologi annegati sembrano un po’ noiosi, no?»

    Ho bisogno di tutta la mia forza di volontà per mantenere un’espressione imperturbabile. Byron non ha idea che Buck Ferris è stato come un padre per me, e non ha senso farlo sentire in colpa dicendoglielo ora. «Forse» mormoro, «però mi stupirebbe se fosse una morte accidentale. Ho la sensazione che dietro ci sia qualcosa di grosso. Persone potenti.»

    «Sì? Be’, questo mi sembra il tuo campo.» Sogghigna e la risata bassa rimbomba nel suo ventre generoso. «Guardali là, gli agenti pasticcioni. Quel drone li farà diventare matti!»

    «Ti chiamo dopo» gli dico. «Ho del lavoro da fare.»

    «Certo, amico. Lasciami pure sotto questo sole. Non preoccuparti per me.»

    Mi strizza l’occhio mentre gli rivolgo per scherzo il saluto militare.

    Monto sulla Flex, premo il pulsante dell’accensione e mi dirigo su Foundry Road, che risale il promontorio dalla parte opposta rispetto a Front Street. Mentre il motore fatica per la salita, uno sparo di pistola risuona sul fiume echeggiando contro la parete rocciosa. Sussulto sul sedile, stupefatto davanti all’idiozia di un poliziotto che spara in aria in una zona popolata per cercare di abbattere un drone. Un altro colpo risuona sotto di me. Mi auguro che non abbiano un fucile a bordo. In tal caso potrebbero forse abbattere quel piccolo velivolo, che per legge deve avere un numero di immatricolazione. E dato che Bienville ha come sceriffo un coglione, il pilota finirà in un sacco di guai. Se è chi penso che sia, è una storia che non voglio coprire.

    Non prego, ma fino in cima supplico l’universo di concedermi una dispensa fra tutte le sue creazioni e distruzioni quotidiane: Fa’ che quel corpo appartenga a qualcun altro. Non fare che sia l’uomo che mi ha impedito di uccidermi a quindici anni.

    Non fare che sia Buck.

    5

    Sul promontorio di Bienville non puoi parcheggiare a meno di trenta metri dal ciglio. All’interno del confine cittadino c’è una barriera verde tra Battery Row e il recinto di ferro che impedisce ogni giorno ai ragazzini e agli ubriachi di cadere giù. Come speravo, la figura sottile davanti alla recinzione è il figlio della mia amica, il quattordicenne Denny Allman. Denny riconosce sicuramente la mia Flex mentre parcheggio. Se non l’avesse fatto, se la sarebbe data a gambe.

    Sollevo la mano in segno di saluto mentre mi avvicino. Lui ricambia muovendo la testa, poi si volta di nuovo verso il fiume senza mai lasciare l’unità di controllo del drone. Anche se mi dà la schiena, vedo sua madre nella sua postura. Dixie Allman era atletica e attraente alle superiori. Aveva tutte C, soprattutto per pigrizia, ma una mente sveglia. Il suo problema era che dall’età di dieci anni si era focalizzata solo sull’obiettivo di attirare l’attenzione maschile. Si è sposata a diciotto e ha divorziato a venticinque. Il padre di Denny era il suo terzo marito e li ha abbandonati quando lui aveva cinque o sei anni. Dixie ha fatto del suo meglio per crescerlo bene, e questa è una delle ragioni per cui l’ho incoraggiato postando i suoi filmati sul nostro sito.

    «Hanno sparato al tuo drone?» grido.

    «Sì, merda! Che deficienti.»

    Mi sforzo di ridere e raggiungo la recinzione. Denny ha un vocabolario colorito per essere uno studente di terza media, ma in fondo anche io e i miei amici lo avevamo a quell’età. «Probabilmente hanno chiamato un’auto di rinforzo per darti la caccia.»

    «Sì, ma è andata giù al fiume. Io ho guadagnato un po’ di quota e sono atterrato dietro ad alcuni alberi molto più a sud. Adesso stanno cercando di arrivare là. Non ce la faranno mai attraverso i kudzu.»

    L’unità di controllo del drone che ha in mano è un iPad Mini con un joystick. Denny ha fissato un’aletta parasole al suo iPad, perciò non posso lanciare un’occhiata allo schermo. Osservando al di là della recinzione vedo la barca della contea in basso sul fiume. Si sta dirigendo verso il molo. Gli agenti devono aver infine issato a bordo il carico.

    «Sei riuscito a vedere bene il corpo?» chiedo.

    «Non in diretta» risponde concentrandosi sullo schermo. «Dovevo tenere gli occhi sugli agenti mentre sparavano.»

    «Possiamo guardare ora?»

    Alza le spalle. «Certo. Perché tanta fretta?»

    «Hai mai incontrato il dottor Ferris, intorno ai tumuli indiani?»

    «Sì. È venuto nella mia scuola un paio di volte. Io…» Denny impallidisce. «Era lui in acqua? Il vecchio dottor Buck?»

    «Forse.»

    «Oh, cavolo. Cosa gli è successo?»

    «Non lo so. Forse stava cercando punte di freccia o qualcosa del genere e si è avventurato troppo in là su un banco di sabbia. A volte cedono sotto il peso di una persona.»

    Lui scuote energicamente la testa. «Il dottor Buck non lo farebbe. Camminava sempre nei fiumi e nei torrenti in cerca di cose, di solito dopo i temporali. Ha trovato tonnellate di roba indiana, persino ossi di mastodonte. Dovresti vedere quello che ha trovato per il museo di Jackson.»

    «L’ho visto.»

    «Allora sai che è impossibile che sia caduto nel Mississippi. A meno che non abbia avuto un infarto o qualcosa di simile.»

    «Forse è andata così» dico, pur non credendoci. «O un ictus. Buck aveva più di settant’anni. Con un po’ di fortuna scopriremo in che punto è finito in acqua. Questo potrebbe spiegarci cosa stesse facendo.»

    Vedo Denny fare un paio di calcoli mentali. «Devo lasciare il DJI laggiù finché la polizia non se ne va» afferma. «Ma posso accedere al file da qui. Solo che mi mangio un bel po’ del traffico dati mensile.»

    «Ti rimborserò.»

    Il suo volto si illumina. «Fantastico!»

    Picchietta lo schermo dell’iPad e mi invita ad avvicinarmi di più. Grazie all’aletta parasole adesso vedo senza riflessi quello che Denny ha ripreso solo pochi minuti fa. Sullo schermo due agenti senza alcuna esperienza nel recupero corpi dall’acqua stanno tentando di fare proprio quello. Del cadavere vedo solo il lato di una faccia grigia e un braccio sottile che ondeggia nella corrente fangosa. Poi la testa ciondola nell’acqua e un’ondata di nausea mi pervade. La bocca mi si secca.

    È Buck.

    Non vedo l’intera testa, ma il lato opposto del cranio sembra spaccato da una specie di frattura. Mentre cerco ulteriori elementi, la testa risprofonda nell’acqua. «Va’ avanti veloce» incalzo.

    Denny lo sta già facendo. A tripla velocità gli agenti corrono di qua e di là sul ponte della barca di soccorso come personaggi dei cartoni animati, sporgendosi ogni tanto oltre il bordo per cercare di liberare il corpo di Buck dai rami dell’albero che lo trattiene in acqua. D’un tratto uno guarda verso il cielo e inizia ad agitare le braccia. Poi si mette a urlare, estrae la pistola e spara alla telecamera appesa sotto il drone.

    «Che fottuto idiota» borbotta Denny mentre il poliziotto spara di nuovo.

    «Non si rende conto che quei proiettili cadono per forza da qualche parte?» chiedo.

    «Lo avranno bocciato in fisica.»

    «La forza di gravità non la insegnano alle elementari?»

    Dopo aver rimesso la pistola nella fondina, l’agente torna a grandi passi verso un portello a poppa e recupera quella che sembra una corda per sci nautico. Forma un cappio, si sporge oltre il bordo e prova a lanciare il lazo per prendere il corpo di Buck.

    «No, maledizione!» tuono. «Abbiate un po’ di rispetto, accidenti!»

    Denny commenta sbuffando.

    «Deve legarsi la corda in vita» brontolo, «poi calarsi lui stesso in acqua e liberare il corpo.»

    «Certo, come no…» osserva Denny con la cantilena di un giovane corista la cui voce non è ancora cambiata. «Prenderà il corpo con il lazo, darà gas e creerà onde di scia fino al molo.»

    «Spezzando allo stesso tempo il corpo di Buck in due.»

    «Ma è sicuro che si tratti di Buck?» chiede. «Io non sono riuscito a capirlo.»

    «Sì. È lui.»

    Denny china la testa sopra lo schermo.

    Impiega un po’, ma alla fine l’agente lega la corda attorno a Buck e usa in effetti il motore per liberarlo dall’albero. Per fortuna il cadavere resta intero e, quando la barca si ferma, i poliziotti lo issano lentamente oltre lo specchio di poppa.

    «Oh cavolo» borbotta Denny.

    «Cosa?»

    «Guarda la sua testa. Di lato. È tutta un macello.»

    Non ci vuole un analista della CIA per capire che qualcosa ha fracassato il lato sinistro del cranio di Buck Ferris. La calotta ha un buco grande quanto un’arancia. Ora che è fuori dall’acqua, la sua faccia sembra essersi sgonfiata. «Ho visto.»

    «Cos’è stato?» chiede. «Una mazza da baseball?»

    «Forse. Potrebbe essere stato uno sparo. Le ferite da arma da fuoco non sono come in tv e nemmeno come nei film. Però potrebbe essere un trauma da corpo contundente. Un grosso sasso avrebbe potuto provocarlo. Forse è caduto prima di finire in acqua.»

    «Dove?» domanda incredulo. «Praticamente non ci sono rocce da queste parti. Anche se cadi dal promontorio, non ne beccheresti una. Non rocce vulcaniche. Per una ferita così dovresti atterrare sul calcestruzzo o qualcosa del genere.»

    «Potrebbe essere caduto sulle gettate di massi» suggerisco, intendendo i grandi sassi grigi con cui il Genio ricopre le rive dei fiumi per rallentarne l’erosione.

    «Suppongo di sì. Ma quelli sono giù vicino all’acqua, non sotto il promontorio.»

    «E sarebbe dovuto cadere da una certa altezza per fracassarsi il cranio così.» Nonostante il mio stato emotivo, mi chiedo d’un tratto quali siano le implicazioni legali dell’esplorazione del drone di Denny. «Sai, dovrai proprio consegnare il filmato allo sceriffo.»

    «Non è un filmato, amico. È un file. Ed è mio.»

    «Il procuratore distrettuale avrebbe probabilmente da obiettare. Sei autorizzato a far volare quel drone?»

    «Non mi serve un’autorizzazione.»

    «Lo fai a scopo commerciale. E se lo metto sul nostro sito o se ti pago il consumo dati, lavori su commissione.»

    Denny guarda di colpo nella mia direzione. «Allora non pagarmi.»

    «Non capisci il punto, Denny.»

    «No, non lo capisco. Non mi piace lo sceriffo. E il capo della polizia mi piace ancora meno. Mi tormentano in continuazione. Finché ovviamente non hanno bisogno di me. Quella volta dell’auto finita in un canale vicino alla Highway 61 mi hanno chiamato per far volare il drone laggiù e controllare se qualcuno fosse vivo. Allora erano contenti di vedermi. E pure durante la rivolta in carcere. Anche se mi hanno rubato le micro SD e me le hanno copiate. Ma in qualsiasi altra occasione sono dei grandissimi coglioni.»

    «Ho saputo che adesso hanno un loro drone.»

    Di nuovo sbuffa con disprezzo.

    «Sai cosa penso?» dico.

    «No.»

    «La prima cosa che dobbiamo sapere è dove si trova il furgone di Buck. Ha un vecchio pick-up GMC. Deve essere per forza a monte rispetto a dove l’hanno trovato, a meno che le cose siano diverse da come sembrano.»

    Denny annuisce. «Vuoi che voli sopra le rive e cerchi il furgone?»

    «Mi sembra la cosa giusta da fare, no? Ti resta abbastanza batteria?»

    «Due sono uno, uno è niente.»

    «Cosa?»

    «È un motto dei Navy SEAL. Significa che ne ho portate un paio di scorta.» Denny si china al di là della recinzione e guarda la discesa ripida di Front Street. «Sembra che lo stiano caricando sul furgone del coroner. Lasciamo che gli agenti se ne vadano, poi farò venire qui il drone, cambierò la batteria e comincerò a controllare le rive.»

    «Mi pare una buona idea. Proviamo prima con la sponda in Mississippi.»

    «Sì.»

    Rimaniamo davanti alla barriera di metallo e guardiamo in basso Lower’ville, che in genere di mattina è praticamente deserta, tranne in marzo, durante il picco della stagione turistica per la nostra città. Ma in questo mattino di maggio la morte ha richiamato una discreta folla. Anche se dalla nostra prospettiva sono simili a omini stilizzati, riconosco Byron Ellis che sta aiutando gli agenti a caricare il corpo coperto dal lenzuolo dalla barella al vecchio Chevy. Mentre li guardo armeggiare con quel peso mortale, sento una musica: Robert Johnson che suona Preachin’ Blues. Mi volto verso la strada cercando un’auto di passaggio, ma non ne vedo. Poi mi accorgo che la musica era nella mia testa.

    Preachin’ Blues è stata una delle prime canzoni che Buck mi ha insegnato a suonare con la chitarra. Quell’uomo innocuo steso sotto il lenzuolo del coroner con il cranio fracassato ha salvato la mia giovane vita. L’idea che sia stato assassinato, forse sul fiume, è così surreale che devo cacciarla a forza in qualche luogo inaccessibile della mia mente.

    «Ehi, stai bene?» chiede esitante Denny.

    Mi asciugo gli occhi e mi volto verso di lui. «Sì. Io e Buck eravamo legati quando vivevo qui. Quand’ero ragazzo.»

    «Oh. Posso chiederti una cosa?»

    Mi chiederà della morte di mio fratello, penso, cercando un modo per evitare il discorso. Vedere Buck ripescato dall’acqua mi ha già turbato. Non voglio soffermarmi sull’incubo che ha contaminato per sempre il fiume ai miei occhi.

    «Certo» rispondo con un tono tutt’altro che sconvolto.

    «Sapevo che avevi vinto il premio Pulitzer quand’eri a Washington, ma non per cosa. La scorsa settimana ho visto online che è stato per qualcosa che hai scritto quand’eri al seguito delle truppe in Iraq. Eri con i SEAL? Con la Delta Force?»

    Una domanda da quattordicenne. «In certe occasioni» rispondo, mentre il sollievo mi pervade. «Sono stato in Afghanistan prima che in Iraq, con i marine. Ma in Iraq ero con le agenzie di sicurezza private. Sai cosa sono?»

    «Come la Blackwater?»

    «Esatto. In genere gli uomini che fanno quel lavoro in Afghanistan sono ex soldati: ranger, Delta, SEAL. Ma che tu ci creda o no, molti di loro in Iraq erano semplici poliziotti. E molti venivano dal Sud. Ci vanno per soldi. È l’unico modo in cui riescono ad avere uno stipendio del genere. Guadagnano quattro volte tanto rispetto ai soldati normali. Più dei generali.»

    «Non mi sembra giusto.»

    «Non lo è.»

    Denny ci riflette. «Allora com’è? Nella realtà. È come Call of Duty nella vita vera?»

    «Non è nemmeno paragonabile. Ma finché non ci vai, non puoi capire realmente. E spero che tu non lo farai mai. Solo alcune cose nella vita sono così.»

    «Tipo?»

    «Questo è un altro discorso. Un discorso per te e tua mamma.»

    «Dai. Raccontami qualcosa di figo.»

    Cerco per un minuto di pensare come un quattordicenne. «Riesci a capire da quale unità arrivino i contractor in base agli occhiali da sole che portano. Oakley fascianti per la Delta Force. I SEAL hanno i Maui Jims, le forze speciali i Wiley X.»

    «Non ci credo. E i Ray-Ban?»

    «Laggiù? Solo per i delinquenti e gli impostori. Qui sono quelli che porto io.» Guardo l’orologio. «Devo chiamare la moglie di Buck, Denny.»

    «Certo, okay. Ma come hai fatto ad avere quel tipo di lavoro? Voglio dire, quel tipo di contatti?»

    «Uno con cui ho fatto le superiori mi ha dato una mano. Molto tempo fa, durante la Guerra del Golfo, era un ranger dell’esercito. Mi ha trovato un aggancio con i contractor privati. Mi ha anche salvato la vita laggiù. Questo mi ha fatto vincere il Pulitzer, quell’incarico. Quello che ho visto laggiù.»

    Denny annuisce come se comprendesse tutto, ma ho la sensazione che oggi pomeriggio si comprerà il mio libro online.

    «Risparmia i soldi» gli dico. «Te ne porterò una copia.»

    «Figo. Chi era quell’uomo? Il tuo amico?»

    «Paul Matheson.»

    Sgrana gli occhi. «Il papà di Kevin Matheson?»

    «Esatto.»

    «Quel tipo è ricco, ma davvero ricco.»

    «Direi che lo è, sì. Ma Paul non è andato là per soldi. Per lui è iniziato come una sorta di viaggio alla Hemingway. Sai che intendo?»

    «Non esattamente.»

    «Una cosa da macho. Aveva problemi con il padre. Sentiva di avere parecchio da dimostrare.»

    «Questo lo capisco.»

    Scommetto di sì.

    «Ehi» esclama Denny, il tono d’un tratto squillante. «Dovremmo andare al cimitero per la ricerca. Quella zona è dieci metri più in alto rispetto a qui se consideriamo le colline. Là c’è un campo visivo migliore, che mi dà maggior controllo.»

    Il pensiero del cimitero di Bienville mi scatena il terrore di prima. «Facciamola da qui, okay? Stamattina sono stretto con i tempi.»

    Mi lancia un’occhiata strana. «Cosa devi fare?»

    «Alle undici c’è la cerimonia di inizio lavori della nuova cartiera. Devo esserci.»

    Ride. «Il miracolo del Mississippi? Ci crederò quando la costruiranno.»

    Denny sembra citare qualcun altro. «Dove hai sentito questa frase?»

    Ha un’aria imbarazzata. «Da mio zio Buddy.»

    Lo zio di Denny è un impresario quasi sempre senza lavoro, che passa le giornate a farsi le canne davanti alla tv. «La cartiera è una cosa grossa. I cinesi hanno i soldi. Un investimento sostanzioso potrebbe rimettere in attivo la città per i prossimi cinquant’anni.»

    Denny appare un po’ meno scettico. «Mia mamma spera, tipo, di ottenere un lavoro lì.»

    «Ci credo. Il salario medio sarà di sessantamila dollari» penso a voce alta. «E questo è il motivo per cui temo che la nuova cartiera possa aver avuto un ruolo nella morte di Buck.»

    Denny gira di scatto la testa verso di me. Persino un quattordicenne riesce a fare due più due. «Ho letto il tuo articolo sul manufatto trovato da Buck. Potrebbe creare in qualche modo problemi alla cartiera?»

    «Potrebbe. Ha spaventato a morte gran parte delle persone di questa città. Della contea, a dire il vero.»

    «Pensi che qualcuno possa aver ucciso Buck per questo?»

    «In questo momento mi vengono in mente circa trentaseimila sospettati.»

    «Sul serio?»

    «Qui gli adolescenti si uccidono tra loro per un cellulare, Denny. Cosa pensi farebbe la gente per un miliardo di dollari?»

    «Un miliardo di dollari?»

    «È quanto investiranno i cinesi, senza contare tutti i milioni che arriveranno per il nuovo ponte e l’interstatale.»

    «Wow. Capisco quello che vuoi dire. Allora…» Guarda di nuovo al di là della barriera di metallo. «Il coroner se ne sta andando. Riporterò il drone quassù e comincerò a controllare le rive del fiume.»

    Gli do l’okay. «Io vado lungo la recinzione a fare un paio di telefonate. Lancia un urlo se vedi qualcosa.»

    «Certo.»

    Per un istante mi chiedo se lo stia mettendo in pericolo chiedendogli di cercare il pick-up di Buck, però non vedo come. Mi giro, mi incammino verso nord lungo la recinzione guardando il tetto del furgone del coroner che porta via i resti di Buck dal fiume. In realtà ho soltanto una telefonata da fare, perché quella a cui tengo davvero non posso farla. Non prima di diverse ore. Darei qualsiasi cosa pur di evitare la chiamata che sono costretto a fare.

    Prendo l’iPhone e compongo il numero di casa di Buck. Dopo neppure uno squillo la moglie si precipita a rispondere.

    «Marshall?» esclama affannata Quinn Ferris.

    «È lui» le dico sapendo che il minimo indugio peggiorerebbe solo le cose. «Buck è morto.»

    Per alcuni secondi c’è un silenzio profondo, poi chiede con un filo di voce: «Ne sei sicuro?».

    «Ho visto la sua faccia, Quinn.»

    «Oddio. Marshall… cosa faccio? Lui è a posto? È sistemato bene? Voglio dire…»

    «So cosa vuoi dire. Lo stanno trattando con rispetto. Lo ha recuperato Byron Ellis. Immagino che per un po’ lo terranno in ospedale. Ci sarà un’autopsia a Jackson.»

    «Oh… no. Lo apriranno?»

    «Non c’è modo di evitarlo, temo.»

    «Non è stato un incidente?»

    Qui minimizzare un po’ non farà male a nessuno. Non a breve termine. «Ancora non lo sanno. Ma chiunque muoia quando non è assistito da un medico deve essere sottoposto a un esame post mortem.»

    «Oh, Signore. Sto cercando di capire.»

    «Penso che tu debba restare a casa, Quinn.»

    «Non posso. Devo vederlo. Marshall, lui ti sembrava a posto?»

    «Era nel fiume. È una cosa che non fa bene a nessuno. Penso che tu debba restare là per un po’. Verrò a trovarti tra un paio d’ore.»

    «No. No, arrivo. Posso farcela. Era mio marito.»

    «Quinn, ascolta. Sono io che te lo chiedo, non la polizia. Sai dov’era Buck ieri sera?»

    «Certo. Era tornato al parco industriale in cerca di ossa.»

    Soffoco l’impulso di lanciare un gemito. Il parco industriale è la sede della nuova cartiera dove tra due ore inizieranno i lavori. Buck aveva fatto cinque ore di carcere per aver scavato su quel terreno la prima volta ed era stato accusato di violazione di proprietà privata. Sapeva che tornandoci si sarebbe cacciato in altri guai. Ma, fatto più importante, quel sito è a valle del punto in cui è stato ritrovato.

    «Lo hanno ucciso?» domanda Quinn. «Qualcuno di quegli avidi bastardi ha assassinato mio marito per quella stupida cartiera?»

    «Ancora non lo so, Quinn. Ma lo scoprirò.»

    «Se non lo farai, non lo sapremo mai. Non mi fido di nessuno di quegli stronzi del dipartimento dello sceriffo. Sono tutti fantocci in mano ai pezzi grossi locali. Sai di cosa parlo.»

    Grugnisco ma non commento.

    «Il maledetto circolo di poker di Bienville» afferma.

    «Potresti avere ragione, però ancora non ne abbiamo la certezza.»

    «Io sì. A loro non interessa altro oltre ai soldi. I soldi, le loro ville, i loro figli viziati e… Oh, non so cosa sto dicendo. Proprio non è giusto. Buck era così… buono.»

    «Sì, lo era» concordo.

    «E a nessuno importa un accidente» aggiunge sconsolata. «Il bene che ha fatto, in tutti questi anni, e alla fine a nessuno importa niente, importano solo i soldi.»

    «Pensano che la cartiera permetterà alla città di sopravvivere. Un nuovo boom.»

    «Maledizione a questa città» replica brutalmente. «Se hanno dovuto uccidere mio marito per avere la loro cartiera, Bienville non merita di sopravvivere.»

    Ecco.

    «Devi chiamare Jet Matheson» afferma. «È l’unica che abbia il fegato di sfidare il circolo di poker. Non che tu non abbia fatto certe cose. Voglio dire, hai pubblicato articoli e via discorrendo. Ma il suocero di Jet ne è membro, e lei ne ha attaccati un paio come un pitbull. Ha portato il dottor Warren Lacey in tribunale e accidenti se non lo ha fatto sospendere.»

    Quinn ha conosciuto Jet durante il nostro ultimo anno alle superiori, e ancor meglio negli anni in cui sono stato via. «Jet è fuori città stamattina» la informo, «è andata a raccogliere una deposizione per una causa. Le parlerò quando torna.»

    «Bene.»

    Quinn tace, ma sento quasi la sua mente lavorare frenetica in cerca di qualsiasi cosa pur di distrarsi dalla spaventosa realtà. Aspetto, ma la neovedova non aggiunge altro rendendosi probabilmente conto che al di là di quello che farò, o di quello che farà Jet Matheson o chiunque altro, suo marito resterà comunque morto.

    «Quinn, devo tornare al lavoro. Mi farò vivo presto, promesso. Chiamami se hai problemi con qualcuno o qualcosa.»

    «Sono in grado di cavarmela, Marshall. Sono una vecchia ragazza tosta. Passa più tardi se riesci. Questa casa mi sembrerà piuttosto vuota. Tu mi ricordi tempi migliori. Tutti i miei scout seduti al tavolo da pranzo. Be’, in realtà erano di Buck.»

    Quinn e Buck si erano sposati poco più che quarantenni e lei non era mai riuscita ad avere figli. I boy scout di Buck ricevevano sempre da lei una dose extra di affetto materno, di cui alcuni erano molto bisognosi.

    «Anche tuoi, Quinn.»

    «Sì. E la musica. Dio, quante notti tu e Buck avete suonato fino all’alba… Mi arrabbiavo tanto sapendo che il mattino dopo dovevamo svegliarci, ma non ho mai detto niente. Era una cosa così pura. Sapevo quanto fossimo fortunati, anche allora.»

    A quelle parole mi scendono le prime lacrime. «Ricordo quella volta o due in cui ti sei lamentata» le dico.

    «Be’, qualcuno doveva essere responsabile.» Ride piano, poi la voce le si abbassa in un sussurro. «So che sai cosa sto passando, Marshall. Per via di Adam.»

    Chiudo gli occhi e le lacrime mi rigano le guance. «Devo andare, Quinn.»

    «Non volevo… Oh, cavolo. La morte fa schifo.»

    «Ti chiamo questo pomeriggio.»

    Chiudo la telefonata e scendo dal promontorio allontanandomi da Denny Allman, che in quel momento non ha bisogno di vedermi piangere. Suo padre lo ha abbandonato molto tempo fa e, se per lui potrebbe essere un bene vedere come gli uomini adulti reagiscono alla morte, non voglio spiegare che la perdita che ora mi priva dell’autocontrollo non è avvenuta ieri notte, ma trentun anni fa.

    Un quattordicenne non ha bisogno di sapere che il dolore può durare tanto.

    6

    Mentre Denny Allman richiama il drone lungo la parete del promontorio per cambiare le batterie, vado verso nord seguendo la recinzione e cerco di recuperare il controllo. È dura con il fiume Mississippi che domina il mio campo visivo. Vedere Buck ripescato cadavere dall’acqua ha riaperto la porta tra l’uomo che sono ora e il ragazzo che ero a quattordici anni, quando il fato ha capovolto la mia vita devastandola. Quella porta è rimasta sprangata più a lungo di quanto non voglia considerare. Adesso, invece di guardare in quell’apertura nera, la mia mente cerca qualcosa per sviarsi e non sbirciare nel passato.

    Il mio dito freme per fare quella chiamata che non posso fare, ma la persona con cui voglio parlare non accetterà una mia telefonata ora. In vita mia mi è capitato due volte di andare a letto con donne sposate. La prima quando avevo vent’anni. Lei era francese, la mia professoressa a Georgetown. Non sapevo nemmeno che fosse sposata quando ho iniziato a stare con lei; suo marito viveva per gran parte dell’anno in Francia. I rischi durante quella relazione non sono mai andati oltre la possibilità di un incontro imbarazzante al ristorante, fatto che avrebbe potuto comportare, dopo, qualche parola pungente, per lei, non per me. La donna con cui vado a letto adesso ha un marito che sarebbe più che capace di uccidermi se dovesse venire a sapere della nostra storia. Se la chiamassi ora, potrebbe farla passare per una telefonata di lavoro, ma anche le persone poco intelligenti riescono a cogliere l’intimità nella voce umana. Non intendo vedere la mia vita scombussolata, o addirittura terminata, a causa di una sillaba spontanea decodificata da un assistente legale ficcanaso. Potrei ovviamente mandarle un messaggio, ma gli sms lasciano una traccia digitale.

    Per il momento mi tocca soffrire in silenzio.

    Un gruppo di donne impegnate in una fitwalking sul promontorio si sta avvicinando da lontano. Una pista asfaltata lo segue per tre chilometri, la Mark Twain Riverwalk, e il mattino presto e la sera è piuttosto affollata. Grazie a Dio, a quest’ora i camminatori più seri sono ormai nelle caffetterie o in giro con i loro SUV a sbrigare commissioni. Per i primi cento metri tengo lo sguardo rivolto a destra, sugli edifici che fiancheggiano Battery Row. Supero la vecchia torre dell’orologio, il Planters’ Hotel, due ville anteguerra. Dietro di esse sorge l’edificio più alto della città, l’Aurora Hotel. Poi c’è la fontana in memoria dei caduti che conserva i resti di centosettantatré confederati deceduti. È a un tiro di schioppo dalle postazioni dove i cannoni Seacoast da trentadue libbre coprivano il fiume Mississippi durante la Guerra civile. Di fronte alla fontana ci sono un paio di bar e ristoranti, un’altra villa anteguerra e quindi il nuovo anfiteatro, finanziato con i soldi del casinò.

    Il vecchio deposito ferroviario è il centro nevralgico del promontorio, con il suo piccolo caffè, il minimarket, l’ufficio del turismo e una flotta di biciclette blu a noleggio. Oltre il deposito si trova l’unico palazzo moderno della zona, la Holland Development Company, quartier generale del signore locale degli immobili. Più in là sorge seminascosto il Twelve Bar, un decrepito locale di blues, proprietà del figlio di un nativo che ha rifiutato somme sorprendenti per tenersi stretti il suo orgoglio e la sua gioia. Di fronte al Twelve Bar c’è un terreno spianato che attende la lastra di granito per il memoriale promesso per i diritti civili, ma per qualche motivo sembra che la somma finale non venga mai stanziata. Ho fatto questo percorso troppe volte negli ultimi mesi per riuscire a distrarmi a lungo. Alla fine il fiume attrae il mio sguardo verso ovest.

    Dal punto centrale del promontorio di Bienville si riescono a vedere quasi trenta chilometri di fiume. Grazie ai pasticci del Genio, il Mississippi a monte di Bienville sembra un canale. C’è un tratto di quindici chilometri fino alla prima ansa, e due anse più in là ancora si trova la città dell’assedio, Vicksburg. Assediata dai nordisti durante la Guerra civile e dai guai economici oggi, ha combattuto duramente per sopravvivere. È una cupa realtà, ma nello stato del Mississippi le città fluviali stanno morendo a causa di una lenta emorragia di persone e di talenti, che ha l’effetto di una malattia debilitante. In genere sono cambiate così poco nel tempo che se un cittadino del 1890 risorgesse, riconoscerebbe ancora le strade che percorreva ai suoi tempi. A Natchez e a Bienville lo farebbe anche un abitante del 1850.

    Di tutte le famose città cotoniere del Mississippi, da Clarksdale nel delta a Natchez sul suo promontorio, solo Bienville resiste alle aggressioni del tempo, delle razze e degli attacchi di nostalgia. Le ragioni sono complesse, perlopiù illegali, e da quando sono tornato, cinque mesi fa, hanno occupato buona parte dei miei pensieri e del mio lavoro. L’istinto mi dice che la morte di Buck Ferris finirà per aggiungersi all’elenco dei reati minori commessi in nome della sopravvivenza economica di Bienville, ma in questo momento la mia mente si rifiuta di imboccare quella strada.

    Proprio adesso sto pensando che questa giornata mi ricorda molto quella in cui il mio stato d’animo nei confronti del fiume Mississippi è cambiato per sempre. Anche allora era maggio. Un maggio splendido. Allora amavo il fiume. Da ragazzo ci pescavo, cacciavo lungo le rive, lo attraversavo in canoa, da boy scout mi accampavo nei paraggi, facevo persino sci nautico nelle zone in cui l’acqua ristagnava negli anni delle inondazioni. A quel tempo il Mississippi era parte di me come lo è stato di Huck Finn o di Sam Clemens. L’anno in cui ho lasciato Bienville per frequentare il college all’università della Virginia mi sono imbattuto in una lettera di T.S. Eliot, che avevo sempre vagamente creduto fosse inglese. Con mia sorpresa ho scoperto che era cresciuto sul mio stesso fiume, a St. Louis, e a un amico aveva scritto questo a proposito del Mississippi: C’è un che di particolare nell’aver trascorso la propria infanzia accanto al grande fiume, che non si può comunicare a chi non abbia fatto la stessa esperienza. Mi considero fortunato di essere nato qui anziché a Boston o a New York o a Londra. Capivo esattamente che cosa intendesse.

    Per tutta la vita ho avvertito un’attrazione costante, inconfessata, per il grande fiume che divide l’America in est e ovest, questo lento gigante acquatico che rappresentava il confine di casa mia, un’entità che mi attirava come una forza di gravità spirituale. Ma dopo un giorno del 1987 l’effetto che mi fa è cambiato. Oggi gli odori sono molto simili a quelli di allora: falso gelsomino e caprifoglio, azalee dalla fioritura tardiva. Il sole è caldo, ma l’aria è fredda. E il fiume scorre gonfio come allora.

    Ma a differenza di quest’oggi, iniziato con una morte, quel giorno era iniziato in gloria, per la mia famiglia e per i miei amici. L’idea che l’angelo della morte volteggiasse sopra le nostre teste ci sarebbe apparsa assurda.

    Io e mio fratello avevamo passato il pomeriggio a Jackson, la capitale dello stato, per partecipare alla gara di corsa della St. Mark’s Episcopal Day School. Quando scrivo Episcopal Day School non immaginatevi un tempio del sapere ricoperto d’edera. Immaginate tre edifici di lamiera senza aria condizionata e un campo da football pieno di gobbe in un ex pascolo per mucche. Mi correggo: la sala docenti e la biblioteca avevano i condizionatori da finestra. Il consiglio d’istituto non avrebbe potuto assumere nessun insegnante senza di essi. La St. Mark teneva al rigore accademico ma, come nel resto della ex Confederazione, il football era una religione. Anche il basket e il baseball erano considerati sport virili, pur di secondo piano, mentre la pista di atletica leggera veniva intesa solo come un allenamento necessario. Il golf, il tennis e il nuoto erano passatempi per fighetti. Il nuoto era l’unica attività in cui eccellevo veramente, ma la St. Mark non aveva una squadra. Dovevo nuotare per la città di Bienville.

    Grazie a mio fratello Adam e ai suoi compagni di classe dell’ultimo anno la scuola aveva vinto sia il campionato statale di football di Classe A sia l’Overall State di basket sconfiggendo la scuola più importante, la Capital Prep di Jackson. Un miracolo simile era stato compiuto solo due volte nella storia dello stato. Nel baseball eravamo riusciti a vincere solo il titolo South State, ma alla gara di corsa quel giorno avevamo conquistato il nostro terzo titolo statale.

    Anche se mi mancavano ancora tre settimane per compiere quindici anni, avevo corso la staffetta di un chilometro e mezzo e anche quella di tre chilometri (in cui eravamo arrivati primi), e vinto il terzo posto nel salto in alto. Mio fratello maggiore era la star della squadra. Adam aveva ricoperto quel ruolo in ogni sport per la St. Mark fin dal secondo anno, quando aveva iniziato a giocare da quarterback nella squadra di football. Quell’anno Adam McEwan aveva portato i Crusaders a vincere un titolo South State iniziando un’ascesa fulminea che lo avrebbe trasformato in una leggenda nell’intero stato.

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